Conflitto ucraino e crisi transatlantica: il crollo dei tabù
I discorsi di Hegseth e Vance, e le esternazioni di Trump su Zelensky, provocano un terremoto nelle relazioni tra USA ed Europa, mettendo a nudo verità troppo a lungo taciute.

Una piccola nota personale: vi informo con piacere che il mio libro “Il 7 ottobre tra verità e propaganda” ha vinto il Premio Saggistica della Comunicazione dell’Università di Siena.
C’è voluta una ventina di giorni, dopo l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, perché i contatti fra la Russia e la nuova amministrazione si mettessero in moto.
Ma quando il presidente americano (dopo una seconda telefonata al suo omologo Vladimir Putin, questa volta confermata dal Cremlino) ha annunciato l’immediato avvio dei negoziati per risolvere la guerra ucraina, ai leader europei è cominciata a mancare l’aria.
La vera doccia fredda è arrivata però dal segretario alla Difesa Pete Hegseth, il 12 febbraio, in occasione dell’incontro del Gruppo di Contatto che riunisce i paesi che sostengono l’Ucraina.
Egli ha affermato che Trump intende porre fine a questo devastante conflitto ormai prossimo al suo terzo anniversario, giungendo a una pace duratura sulla base di una valutazione realistica del teatro di guerra.
Washington scarica l’Ucraina sulle spalle dell’Europa
Partendo da questa premessa, Hegseth ha aggiunto che:
1) Ritornare ai confini dell’Ucraina precedenti alla crisi del 2014 è irrealistico (dunque Kiev dovrà fare importanti concessioni territoriali);
2) l’adesione dell’Ucraina alla NATO non è un obiettivo perseguibile;
3) ogni eventuale garanzia di sicurezza all’Ucraina dovrà essere fornita da truppe europee e non europee, ad esclusione di quelle americane;
4) qualora vengano dispiegate forze di interposizione in Ucraina, esse non faranno parte di una missione NATO e non saranno coperte dall’articolo 5 dell’Alleanza;
5) la sicurezza europea dev’essere garantita dai membri europei della NATO. L’Europa dovrà dunque fornire una quota preponderante dei futuri aiuti (letali e non letali) a Kiev;
6) A tal fine, i governi europei dovranno espandere la propria industria bellica, aumentare conseguentemente le proprie spese per la difesa fino al 5% del PIL, e spiegare ai propri cittadini che ciò è necessario alla luce delle “minacce” che incombono sull’Europa;
7) “dure realtà strategiche” impediscono agli Stati Uniti di focalizzarsi primariamente sulla sicurezza dell’Europa, dovendo Washington concentrarsi sul contenimento della Cina nell’Indopacifico;
8) USA ed Europa devono perciò operare una “divisione dei compiti” che massimizzi il “vantaggio comparativo” occidentale nel vecchio continente e nel Pacifico rispettivamente;
9) i paesi europei devono dunque impegnarsi non solo nel perseguimento della sicurezza dell’Ucraina, ma degli obiettivi a lungo termine di deterrenza e difesa dell’Europa;
10) gli USA si impegnano a sostenere l’Alleanza Atlantica negli anni a venire, ma non tollereranno un rapporto sbilanciato che incoraggi la dipendenza europea da Washington.
Dalle affermazioni di Hegseth emerge che l’amministrazione Trump è intenzionata a disimpegnarsi dal continente europeo per fare i conti con quello che considera il proprio vero avversario, la Cina.
A tal fine, essa intende chiudere il proprio impegno in Ucraina, risolvendo – o quantomeno congelando – il conflitto, e scaricando sui paesi europei la gestione del futuro assetto di sicurezza nel vecchio continente.
Nello scenario più favorevole, la Casa Bianca intende perseguire una soluzione che porti a un miglioramento delle relazioni con la Russia, nella speranza che ciò contribuisca a indebolire il legame fra Mosca e Pechino.
Se una simile operazione (a dir la verità molto aleatoria) andasse in porto, i buoni rapporti della Russia con paesi asiatici come l’India e il Vietnam potrebbero contribuire a isolare la Cina.
Washington è intenzionata ad escludere, almeno in una fase iniziale, sia gli alleati europei sia Kiev dai negoziati con Mosca.
L’inviato di Trump per l’Ucraina Keith Kellogg ha affermato che il loro coinvolgimento non è realistico, ed ha invitato le capitali del vecchio continente a formulare idee e proposte, e ad aumentare le spese per la difesa, invece di “lamentarsi” di essere state escluse dal tavolo negoziale.
L’amministrazione Trump avrebbe anche inviato una lettera agli alleati chiedendo loro quanti soldati sarebbero disposti a fornire per un’eventuale forza di interposizione.
“Accordo capestro” per Kiev
Ma i “diktat” di Washington non finiscono qui. La Casa Bianca ha consegnato a Kiev una bozza di accordo che concede agli USA i diritti di sfruttamento dei giacimenti ucraini di minerali e terre rare (metalli indispensabili nei settori ad alta tecnologia) per un valore di 500 miliardi di dollari.
L’accordo rappresenterebbe una specie di “rimborso” per l’impegno americano a sostegno dello sforzo bellico ucraino in questi tre anni di conflitto, sebbene molti giacimenti si trovino nei territori attualmente controllati da Mosca.
Secondo l’esperto Javier Blas, le riserve ucraine di terre rare sarebbero sovrastimate e Kiev avrebbe gonfiato le valutazioni per allettare Trump. “Ciò che l’Ucraina ha è terra bruciata; ciò che non ha sono le terre rare”, ha concluso impietosamente Blas.
Proposto inizialmente dallo stesso presidente ucraino Volodymyr Zelensky nel tentativo di accattivarsi le simpatie di Trump, tale accordo avrebbe dovuto fornire in cambio garanzie di sicurezza a Kiev, che però non figurano nella bozza presentata dall’amministrazione.
In base a quanto rivelato dal britannico Daily Telegraph, l’accordo proposto andrebbe ben al di là del controllo americano sui giacimenti ucraini (forse proprio perché ritenuti insufficienti), coprendo praticamente ogni asset del paese, dai porti alle infrastrutture, al gas e al petrolio.
Il quotidiano britannico ha definito la possibile intesa “peggiore delle riparazioni di guerra imposte alla Germania dal Trattato di Versailles” alla fine della prima guerra mondiale.
I termini del contratto equivarrebbero ad una totale colonizzazione economica dell’Ucraina da parte americana per decenni a venire, e sarebbero stati posti sotto la giurisdizione di un tribunale di New York.
Il documento ha gettato nel panico il governo di Kiev, che ha rifiutato l’“offerta”. Ma ciò ha portato a un inasprimento dei rapporti sfociato nella diatriba verbale tra Zelensky e Trump che ha spinto quest’ultimo a definire il primo un “dittatore” e un “comico di scarso successo”, e ad addossargli la responsabilità della situazione disastrosa in cui versa il paese.
Il 20 febbraio, la Casa Bianca ha consegnato a Kiev una bozza di accordo “migliorata” che però continua a non prevedere alcuna garanzia di sicurezza per l’Ucraina (verrebbe a cadere invece la giurisdizione del tribunale di New York).
“Abbiamo proposto che gli USA investano insieme all'Ucraina nella sua economia e nelle sue risorse naturali e diventino un partner nel futuro del paese. Questa è la migliore garanzia di sicurezza in cui possono sperare”, ha dichiarato il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Mike Waltz, aggiungendo che “Devono abbassare i toni. Guardate attentamente e firmate questo accordo”.
Washington è determinata a mettere Kiev alle strette. Del resto, lo stesso futuro politico di Zelensky sembra essere appeso a un filo, visto che sia Trump che altri esponenti della sua amministrazione hanno accennato alla necessità di tenere elezioni presidenziali in Ucraina per poter giungere ad un’intesa negoziale con Mosca.
Secondo l’Economist, l’indice di gradimento nei confronti di Zelensky non supera il 52% nel paese e, se alle prossime elezioni egli dovesse competere con l’ex comandante dell’esercito Valery Zaluzhny, perderebbe con un ampio margine.
Il mandato del presidente ucraino è ormai scaduto, ed in passato la Russia ha più volte sottolineato l’esigenza di avere a Kiev un presidente che abbia la legittimazione popolare per firmare un eventuale accordo di pace.
Se Kiev è alle strette, gli europei non ridono di certo, come abbiamo già visto. Un diplomatico europeo ha commentato l’approccio statunitense con Kiev affermando che all'Europa verrà richiesto l’onere di far rispettare un accordo che non ha negoziato, mentre Washington si impadronirà delle risorse dell’Ucraina.
Scontro ideologico sui “valori” della democrazia
Un ulteriore colpo agli alleati europei lo ha inferto il vicepresidente americano J.D. Vance alla Conferenza di Sicurezza di Monaco lo scorso 14 febbraio.
Invece di affrontare la questione ucraina, Vance ha lanciato un duro attacco contro i leader europei accusandoli di reprimere la libertà di espressione, di non combattere l’immigrazione clandestina e di non tener conto delle convinzioni degli elettori nei loro rispettivi paesi.
Il vicepresidente statunitense ha affermato che la vera minaccia all’Europa non proviene da attori esterni come Russia e Cina, ma dall’interno, ed in particolare dalla sconfessione di alcuni dei suoi valori più fondamentali da parte delle élite politiche europee.
Egli ha accusato queste ultime di imporre una censura sempre più dilagante e di spingersi fino a cancellare le elezioni democratiche, in riferimento a quanto accaduto recentemente in Romania.
Nel momento in cui Vance ha affermato che le élite politiche europee non dovrebbero escludere i partiti della cosiddetta “destra populista”, è parso evidente il divario ideologico esistente fra queste élite e l’attuale amministrazione a Washington.
Se numerose critiche del vicepresidente americano riguardo al declino della democrazia in Europa hanno suscitato scandalo fra i politici europei proprio perché ineccepibili, Vance ha però evitato di rilevare che un’analoga crisi democratica è in atto negli Stati Uniti.
Né lui né Trump, inoltre, hanno accennato al ruolo chiave che gli USA hanno giocato nel progressivo affermarsi delle politiche illiberali in Europa così come nello scoppio del conflitto ucraino.
Il presidente statunitense ha addossato a Zelensky la responsabilità del conflitto senza minimamente ricordare il costante sostegno dato da Washington al nazionalismo ucraino di estrema destra fin dagli albori della Guerra Fredda, la continua espansione della NATO a est, o il ruolo giocato dagli USA nella rivolta di Maidan che portò al rovesciamento violento del presidente Viktor Yanukovych nel 2014.
Lo stesso Trump, durante il suo primo mandato , contribuì a porre le premesse dell’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio del 2022 inviando armi a Kiev e imponendo nuove sanzioni a Mosca.
Il presidente statunitense ha accusato Zelensky di non aver negoziato con Putin per evitare la rovina del paese, ma dimentica che nel marzo 2022 furono americani e inglesi a sabotare un negoziato fra ucraini e russi che avrebbe potuto porre fine al conflitto sul nascere.
Ancor più grottesca, poi, l’accusa mossa da Vance a Monaco contro la Germania, biasimata per aver “scelto” di iniziare una deleteria deindustrializzazione proprio mentre la Russia sta conducendo una guerra in Ucraina e minacciando l’intera Europa.
Come se gli USA non avessero di fatto obbligato Berlino e gli altri alleati europei a rinunciare all’energia russa a basso costo a vantaggio del ben più caro gas naturale liquefatto americano, e ad imporre a Mosca sanzioni autolesioniste che hanno pesantemente danneggiato l’economia europea.
Infine Trump ha sostenuto che l’accordo del valore di 500 miliardi di dollari per lo sfruttamento dei giacimenti ucraini servirebbe a rifondere gli USA dei 300 miliardi spesi a sostegno di Kiev.
In realtà, Washington ha stanziato per l’Ucraina (secondo le stime più generose) non più di 183 miliardi, e di questi solo 66 sono andati a Kiev sotto forma di aiuti militari. 58 miliardi sono andati a finanziare l’industria bellica americana.
Secondo il Kiel Institute di Berlino, l’Europa nel suo complesso avrebbe ormai superato da tempo gli Stati Uniti nella spesa a sostegno di Kiev.
L’accordo proposto da Trump a Zelensky, dunque, equivale a una forma di “strozzinaggio”, come ha scritto anche il quotidiano francese Le Monde, nei confronti di un paese che Washington ha spinto per decenni in una rotta di collisione con Mosca.
Con il suo atteggiamento ricattatorio, la Casa Bianca appare determinata a sbarazzarsi di Zelensky, considerato un ostacolo al negoziato, a spingere l’Ucraina ad accettare i termini che Washington negozierà con Mosca, e a ricavare un’ingente contropartita economica dagli asset ucraini.
Ipocrisia e inconsistenza europea
L’offensiva della Casa Bianca ha suscitato una levata di scudi in Europa. Già prima del discorso di Vance a Monaco, il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier aveva a sua volta accusato Trump e i magnati della Silicon Valley al suo seguito di essere disposti a distruggere la democrazia.
“È chiaro che la nuova amministrazione americana ha una visione del mondo molto diversa dalla nostra. Una visione che non mostra alcun riguardo per le regole stabilite, per le partnership o per la fiducia che è stata costruita nel tempo. Ma sono convinto che non sia nell'interesse della comunità internazionale che una simile visione del mondo diventi il paradigma dominante”, aveva affermato Steinmeier.
Le parole di Vance hanno poi suscitato un vero putiferio. Un diplomatico francese ha definito quello del vicepresidente americano “un discorso fascista e antieuropeo”.
Il noto editorialista del Financial Times Gideon Rachman lo ha accusato invece di tendenziosità “di stile sovietico”, affermando che gli europei devono ridurre la loro “pericolosa dipendenza da un’America ostile”.
A conclusione dell’incontro di Monaco, il presidente della Conferenza Christoph Heusgen ha affermato che, dopo il discorso di Vance, “dobbiamo temere che la nostra base condivisa di valori non sia più così condivisa”.
Heusgen ha poi citato Zelensky – un uomo che ha tradito il mandato con cui era stato eletto nel 2019 (il quale gli avrebbe imposto di negoziare la pace con la Russia), che ha soppresso la libertà di stampa nel proprio paese, e che ha chiuso 11 partiti politici – come “incarnazione” di questi valori.
Ma, al di là delle prese di posizione verbali, è evidente che le élite politiche europee continuano a dipendere da una Casa Bianca che le strapazza, per il semplice fatto che non sono in grado di prendere alcuna decisione autonoma.
Simbolicamente, la Conferenza di Monaco dove si è consumato lo strappo fra le due sponde dell’Atlantico, pur essendo un evento annuale promosso dal paese leader dell’Europa, la Germania, ha un’agenda che negli ultimi anni è stata plasmata in maniera sempre più diretta dalla McKinsey, potentissima società di consulenza americana.
Il vertice di Parigi, convocato in fretta e furia dal presidente francese Emmanuel Macron per formulare una posizione europea comune, non ha prodotto alcunché, mettendo in evidenza piuttosto le divisioni esistenti fra i diversi paesi del vecchio continente.
Se la Germania ha definito “prematura” l’ipotesi di inviare una forza di interposizione europea in Ucraina, la Polonia vi si è apertamente opposta. Francia e Gran Bretagna l’hanno invece verbalmente sostenuta, e ne stanno studiando i dettagli.
Nessuno dei due paesi ha però le capacità militari e logistiche per mettere insieme un contingente credibile. Parigi e Londra hanno parlato di una forza di non più di 30.000 uomini, del tutto inadeguata ad esercitare una funzione di deterrenza nei confronti delle ben più numerose truppe di Mosca.
A ciò bisogna aggiungere il fatto che la Russia ha apertamente definito “inaccettabile” il dispiegamento di qualsiasi forza di paesi NATO in Ucraina, anche qualora avvenisse al di fuori del quadro dell’Alleanza Atlantica.
Il motivo è molto semplice: Mosca considera (a ragione) americani ed europei come parti cobelligeranti nel conflitto, e non come paesi neutrali in grado di fornire una forza di pace equidistante fra gli attori coinvolti.
Crollo della narrazione occidentale
Un elemento essenziale della crisi fra le due sponde dell’Atlantico è il crollo della narrazione sulla quale si è fondato lo sforzo occidentale a sostegno dell’Ucraina durante questi tre anni di conflitto.
L’attuale governo americano ha dimostrato che quello che era un tabù per gli europei e la precedente amministrazione Biden, ovvero l’ipotesi di dialogare con Mosca, è invece una strada praticabile che può quantomeno essere utile a contenere i rischi di escalation del conflitto.
Allo stesso tempo, l’apertura della Casa Bianca è il risultato di una presa d’atto della situazione drammatica in cui versa l’Ucraina dal punto di vista militare, una verità che finora né Washington né i suoi alleati europei avevano voluto riconoscere.
Questo ostinato rifiuto della realtà ha implicato che per mesi e mesi l’Occidente ha continuato a spingere l’Ucraina (con la complicità del governo di Kiev) a mandare a morire decine di migliaia di soldati in una guerra probabilmente persa in partenza.
Un altro tabù che viene a cadere è lo stupido principio dell’imprescindibilità dell’adesione di Kiev alla NATO, peraltro mai realmente accettato neanche dalla precedente amministrazione Biden, ma il cui spauracchio è stato determinante nel provocare questo conflitto.
La crisi fra Washington e il vecchio continente ha portato al crollo di altre narrazioni fittizie sulle quali si è fondata l’intera retorica occidentale degli ultimi decenni.
Ascoltiamo dunque per la prima volta analisti europei affermare che gli USA non sono più disposti a svolgere un ruolo di garante dell’ordine liberale internazionale.
Ciò non significa che l’amministrazione Biden non avesse a sua volta già calpestato le istituzioni di tale ordine, o non avesse ugualmente trattato l’Europa come una terra di conquista.
Ma la frattura ideologica tra l’amministrazione Trump che sostiene le forze populiste del vecchio continente, e le élite politiche europee che da tali forze si sentono minacciate, ha portato al crollo di ogni finzione.
E’ però qualcosa di ancor più fondamentale che sta scricchiolando paurosamente: l’intera narrazione dell’Occidente come baluardo dei diritti e della democrazia.
E’ questo che permette ad esempio a Stephen Bryen, ex vice sottosegretario alla Difesa, di ammettere, riguardo alla liquidazione dell’USAID (l’Agenzia del governo USA per gli aiuti internazionali) da parte dell’amministrazione Trump, che “le rivelazioni sulle ingerenze di USA e UE nel processo elettorale in Georgia, Serbia e Slovacchia, e forse anche in Moldavia, sottolineano lo squallore dell’attuale situazione politica in Europa”.
Bryen afferma candidamente che l’USAID “ha agito come una sorta di fronte della CIA in molti dei paesi sopra citati, inclusa l’Ucraina”, aggiungendo che, “una volta tagliata quella fonte di denaro e di supporto, all’UE viene rifilato un serio problema che va ben al di là delle risorse finanziarie: la tesi pretestuosa secondo cui l’UE (e con essa la NATO) sosterrebbe la democrazia è ora smascherata. La perdita di legittimità è una vera minaccia per le élite al potere”.
Affermazioni così esplicite da parte di un ex funzionario americano sarebbero state impensabili un anno fa.
Nessuna facile pacificazione
Quanto osservato fin qui fa comprendere che, sebbene la Casa Bianca abbia “maltrattato” Ucraina ed Europa con l’obiettivo primario di spingere entrambe, seppur recalcitranti, ad accettare i termini negoziali che Washington concorderà con Mosca, le ripercussioni di questa “cura d’urto” non sono necessariamente controllabili con facilità.
Ciò vale per i rapporti transatlantici, ma forse ancor di più per ciò che potrebbe accadere in Ucraina di fronte alla prospettiva di elezioni e di un possibile avvicendamento al potere, in particolare a causa dell’influenza tuttora esercitata dalle componenti nazionaliste nel paese.
A ciò si aggiunga che gli esiti del negoziato con la Russia sono tutt’altro che scontati. L’incontro fra responsabili americani e russi nella capitale saudita Riyadh ha posto le premesse per l’apertura di un dialogo, i cui contenuti sono però tutti da definire.
L’abisso di diffidenza e sospetto che separa le due superpotenze non sarà facile da colmare. Per anni i responsabili russi hanno dichiarato di considerare gli USA e l’Occidente incapaci di formulare e rispettare accordi.
Ristabilire un livello minimo di fiducia reciproca, e formulare i termini di un’intesa che risulti accettabile non solo a Washington e Mosca, ma a tutte le parti coinvolte nel conflitto, sarà un’impresa decisamente ardua.
Infine, come accennato in principio, Washington sta tentando questo disimpegno non certo come premessa a una più generale pacificazione internazionale, bensì come presupposto necessario per aprire un nuovo pericoloso confronto: quello con la Cina.
Un articolo straordinario, per come sviscera i temi nella loro complessità. Grazie, Roberto 👏👏👏
Trump e TUTTO il suo circo spudorato mi fanno schifo (scusa, non ho trovavo altro modo per esprimermi, ho usato il più moderato). Se dovessi incappare in Umberto Pascali oggi, alla Casa del Sole...USA nei BRICS? Correggimi se esagero...Un abbraccio