Come l’Occidente ha sabotato il negoziato fra Russia e Ucraina
Una ricostruzione del puzzle di rivelazioni sulle trattative fra Kiev e Mosca, dalla bozza di accordo mostrata da Putin alle dichiarazioni dell’ex premier israeliano Naftali Bennett.
Nel corso di un incontro con una delegazione di paesi africani giunta a San Pietroburgo il 17 giugno per mediare sulla crisi ucraina, il presidente russo Vladimir Putin ha mostrato per la prima volta la bozza di un documento che era stata discussa fra i negoziatori russi ed ucraini in Turchia nel mese di marzo dello scorso anno, durante le prime fasi dell’invasione russa.
Intitolato “Neutralità permanente e garanzie di sicurezza per l’Ucraina”, esso stabiliva che Kiev avrebbe inserito la clausola di “perpetua neutralità” nella propria Costituzione. USA, Regno Unito, Cina, Russia e Francia erano menzionati come garanti.
Il documento indicava anche le rispettive proposte di Russia e Ucraina riguardo alle dimensioni dell’esercito ucraino in tempo di pace, ed al suo equipaggiamento. A questo proposito vi erano discordanze fra le due controparti.
Complessivamente, tuttavia, il negoziato era in una fase avanzata, con buone prospettive di raggiungere un accordo che avrebbe posto fine alla crisi militare iniziata con l’ingresso delle truppe russe nel paese il 24 febbraio 2022.
La bozza prevedeva che, come misura preliminare di buona volontà, le forze russe si sarebbero ritirate da Kiev e dalle aree limitrofe nel nord dell’Ucraina. Ma, secondo Putin, dopo che i russi avevano completato il ritiro, le autorità ucraine gettarono l’accordo “nella pattumiera della storia”.
In effetti, le trattative si interruppero nell’aprile del 2022, allorché il governo ucraino accusò le truppe russe di aver massacrato civili a Bucha e in altre piccole città attorno a Kiev. Le accuse furono lanciate subito dopo il ritiro russo. Mosca ha sempre negato ogni responsabilità.
Un puzzle di rivelazioni
Il resoconto del presidente russo è interessante poiché aggiunge un nuovo tassello al puzzle di rivelazioni e notizie pian piano trapelate nei mesi successivi all’interruzione dei negoziati, le quali hanno gettato nuova luce sulle ragioni alla base del fallimento delle trattative.
Queste rivelazioni, provenienti da fonti ucraine, israeliane, americane e turche – e in gran parte trascurate dai media europei ed americani – convergono nell’identificare una responsabilità occidentale (in primo luogo britannica e statunitense) dietro tale fallimento.
La bozza di accordo mostrata da Putin, e la versione degli eventi da lui esposta, sono coerenti con queste precedenti rivelazioni e ne completano il quadro.
E’ dunque possibile tracciare una ricostruzione a grandi linee di quanto accaduto nelle prime settimane del conflitto, ed in particolare degli sforzi negoziali che avrebbero potuto porre fine alla crisi nelle sue fasi iniziali, e che sono stati fatalmente ostacolati quando erano vicini a un possibile sbocco positivo.
Ho scritto altrove delle ragioni profonde che hanno portato allo scoppio di un conflitto che in Occidente è stato invariabilmente – ed erroneamente – descritto come “non provocato”. Conoscere tali ragioni è utile per comprendere anche l’iniziale evoluzione delle operazioni militari russe in Ucraina.
Portare Kiev al tavolo negoziale
In un precedente articolo, avevo descritto così tale evoluzione:
Dopo aver ricevuto una deludente risposta americana all’ultima proposta negoziale formulata nel dicembre 2021, Mosca ha scelto di ricorrere all’opzione militare lanciando una campagna il 24 febbraio dello scorso anno.
Gli obiettivi dichiarati di tale campagna, enunciati direttamente dal presidente russo Putin, erano la liberazione delle due autoproclamate repubbliche di Donetsk e Luhansk, e la “demilitarizzazione” e “denazificazione” dell’Ucraina.
Con “denazificazione” Mosca intendeva la liquidazione delle formazioni paramilitari neonaziste e di estrema destra e dei partiti politici che le sostenevano, insieme alla cancellazione degli elementi di legislazione che sostenevano il nazionalismo ucraino.
Con “demilitarizzazione” i russi alludevano allo smantellamento di quegli elementi che rendevano l’esercito ucraino interoperabile con la NATO (equipaggiamento, centri di addestramento, basi costruite da paesi NATO, come quella di Ochakiv sul Mar Nero, distrutta nelle prime fasi del conflitto).
Denominata “Operazione militare speciale”, l’invasione non fu intesa come un’operazione di guerra su vasta scala (come l’invasione USA dell’Iraq nel 2003, per intenderci), ma come un’operazione ibrida, volta a far capitolare il governo di Kiev sotto l’enorme pressione politico-militare, ma con un uso contenuto della forza e un minimo spargimento di sangue.
Il modello, per certi versi, era la presa della Crimea nel 2014, compiuta con un’operazione praticamente incruenta, che aveva visto la popolazione e gran parte dell’esercito passare spontaneamente dalla parte dei russi.
L’iniziale forza di invasione russa (circa 150.000 soldati, a cui si aggiungevano i 50.000 uomini delle due repubbliche separatiste del Donbass) non era affatto concepita per conquistare militarmente un paese di oltre 40 milioni di abitanti (essendo numericamente insufficiente), ma per un’operazione rapida che grazie alla defezione di parte dell’esercito ucraino e di elementi delle istituzioni, avrebbe portato il governo di Kiev a sgretolarsi o quantomeno ad accettare di sedersi al tavolo negoziale.
Tre canali negoziali, un’unica trattativa
In effetti, alcuni canali negoziali si erano aperti fin dai primi giorni. Accanto al canale bielorusso che pure stava dando risultati e che ebbe il merito di avviare le trattative, erano emerse altre due mediazioni importanti, una turca ed una israeliana.
Il canale turco era in realtà già attivo fin dall’aprile del 2021, ben prima dello scoppio del conflitto. Il presidente turco Erdogan aveva ospitato il suo omologo Zelensky in quel periodo per colloqui ad Istanbul, mentre stavano aumentando le tensioni russo-ucraine nel Donbass.
Erdogan si era poi recato nella città russa di Sochi in settembre per parlare con il presidente Putin. A inizio febbraio 2022, il leader turco aveva incontrato nuovamente Zelensky offrendogli di ospitare in Turchia un vertice fra lui e il leader del Cremlino.
L’inaspettata invasione russa aveva scombinato i piani di Erdogan, ponendolo in una situazione imbarazzante. Ankara non solo aveva venduto droni da combattimento a Kiev, ma aveva firmato un contratto per la loro produzione in Ucraina. La società che aveva stipulato il contratto era di proprietà del genero di Erdogan, Selcuk Bayraktar.
Pur annoverando la Russia fra i suoi maggiori partner commerciali, Ankara aveva un rapporto storico con l’Ucraina e la Crimea in particolare. Al momento dello scoppio del conflitto, il presidente turco aveva chiesto un immediato cessate il fuoco, e la Turchia aveva votato una risoluzione ONU di condanna dell’invasione russa.
Israele, dal canto suo, aveva un rapporto meno problematico con la Russia. L’allora premier israeliano Naftali Bennet aveva compiuto il 5 marzo una visita segreta a Mosca, e poi in Germania per incontrare il cancelliere tedesco Olaf Scholz, facendo capire che il canale turco non era l’unico in gioco.
Anche in conseguenza dei rapporti ancora fragili fra Turchia e Israele dopo anni di tensioni, i due canali diplomatici hanno operato su “binari paralleli”, ciascuno conseguendo però risultati importanti.
Progressi concreti
Il 10 marzo 2022 la Turchia riuscì ad organizzare un incontro trilaterale a livello dei ministri degli esteri con il russo Sergei Lavrov, l’omologo ucraino Dmytro Kuleba e il turco Mevlut Cavusoglu nella città di Antalya.
Sebbene nessun accordo venne raggiunto né sul cessate il fuoco né sulla creazione di corridoi umanitari, Cavusoglu confermò che molti erano stati i temi di discussione, inclusi l’eventuale neutralità dell’Ucraina e un accordo di pace complessivo.
Il ministro degli esteri turco rivelò anche che l’Ucraina aveva chiesto ad alcuni paesi di svolgere il ruolo di “garanti” della sicurezza di Kiev in un eventuale accordo definitivo, e che la Turchia era fra questi.
Pochi giorni dopo, il 16 marzo, sia Lavrov che Zelensky si erano mostrati possibilisti sul raggiungimento di un accordo.
Nel frattempo, la mediazione israeliana procedeva più in sordina, ma pur sempre contribuendo al progresso complessivo delle trattative. Bennett, che aveva avanzato l’idea di un vertice a Gerusalemme prima dell’invasione russa, aveva successivamente accantonato la proposta in favore di consultazioni soprattutto telefoniche.
Il leader israeliano era intenzionato a operare in stretto coordinamento con gli USA, e con Gran Bretagna, Germania e Francia. I negoziatori ucraini inviavano le loro proposte a Gerusalemme, che rispondeva con le proprie osservazioni. Circa 18 bozze negoziali furono scambiate nel mese di marzo.
Istanbul e la proposta di pace ucraina
Il 29 marzo, i negoziatori ucraini e russi si riunirono a Istanbul per una sessione di trattative che avrebbe potuto determinare una vera svolta nel conflitto. Nella metropoli turca, la delegazione di Kiev presentò alla controparte russa una proposta negoziale articolata, caratterizzata dai seguenti punti principali:
L’Ucraina si sarebbe proclamata stato neutrale, non allineato con alcun blocco internazionale, e si sarebbe impegnata a non sviluppare armi nucleari, in cambio di garanzie di sicurezza giuridiche internazionali. Tra i possibili stati garanti figuravano Gran Bretagna, Cina, Stati Uniti, Russia, Turchia, Francia, Germania, Canada, Italia, Polonia, Israele ed eventualmente altri paesi che avessero dato la loro disponibilità a sottoscrivere il trattato.
Le garanzie di sicurezza per l’Ucraina non si sarebbero estese alla Crimea e a Sebastopoli, né alle aree occupate del Donbass.
L’Ucraina si sarebbe impegnata a non aderire ad alcuna coalizione militare internazionale ed a non ospitare sul proprio territorio basi militari o contingenti stranieri. L’Ucraina si sarebbe riservata però il diritto di aderire all’Unione Europea.
Nel caso di un’eventuale aggressione militare all’Ucraina, gli stati garanti avrebbero fornito assistenza al paese, in qualità di stato neutrale sotto attacco. Tale assistenza avrebbe incluso la fornitura di armi, l’eventuale chiusura dello spazio aereo ed altre misure volte a garantire la sicurezza dell’Ucraina.
Il trattato sarebbe stato applicato in via provvisoria a partire dalla firma da parte dell’Ucraina e degli stati garanti (inclusa la Russia), ed in via definitiva dopo l’approvazione dello status di neutralità permanente attraverso un referendum nazionale, dopo l’introduzione degli appropriati emendamenti alla Costituzione ucraina, e dopo la ratifica da parte dei parlamenti dell’Ucraina e degli stati garanti.
La questione della Crimea e di Sebastopoli sarebbe stata trattata separatamente, attraverso negoziati bilaterali fra Ucraina e Russia per un periodo di 15 anni. Le controparti si sarebbero in ogni caso impegnate a non risolvere la questione con mezzi militari ed a proseguire gli sforzi finalizzati ad una soluzione diplomatica.
La questione del Donbass sarebbe stata anch’essa trattata separatamente, attraverso colloqui diretti fra il presidente ucraino Zelensky e quello russo Putin.
Dal canto suo, la Russia si impegnò ad Istanbul a ridurre “drasticamente” le proprie attività militari in prossimità delle città di Kiev e Chernihiv, come misura volta ad accrescere la fiducia reciproca ed a creare le necessarie condizioni per proseguire i negoziati.
La testimonianza di Naftali Bennett
Come si vede, la bozza di accordo mostrata da Putin, e la versione degli eventi da lui narrata alla delegazione africana giunta a San Pietroburgo lo scorso 17 giugno, sono sostanzialmente coerenti con la ricostruzione appena tracciata sulla base di altre fonti, e con la proposta negoziale avanzata dagli ucraini il 29 marzo.
Secondo lo stesso leader israeliano Bennett, le due controparti avevano fatto importanti concessioni nel corso della sua mediazione. I russi avevano rinunciato alla “denazificazione” (intesa come rimozione del governo Zelensky) e al disarmo dell’Ucraina come precondizione per un cessate il fuoco.
Nell’ambito di rivelazioni fatte in un’intervista pubblicata sul suo canale YouTube lo scorso febbraio, l’ormai ex premier Bennett riferì che durante la sua visita a Mosca il presidente russo gli aveva garantito che non avrebbe cercato di uccidere Zelensky. Gli ucraini, dal canto loro, avevano rinunciato ad entrare nella NATO.
Bennett aggiunse che, di fronte ai suoi sforzi negoziali, il primo ministro britannico Boris Johnson adottò una “linea aggressiva”, mentre il presidente francese Emmanuel Macron ed il cancelliere tedesco Olaf Scholz furono più “pragmatici”. Gli americani adottarono un atteggiamento ambiguo.
Alla fine, tuttavia, le potenze occidentali si opposero agli sforzi di Bennett: “Credo che ci fosse una legittima decisione da parte dell’Occidente di continuare a colpire Putin e di non [negoziare]”, dichiarò l’ex premier.
Alla domanda se le potenze occidentali avessero bloccato i suoi sforzi di mediazione, Bennett rispose: “Essenzialmente sì. Li hanno bloccati, e ho pensato che stessero sbagliando”.
Boris Johnson a Kiev
Come abbiamo visto, tuttavia, i negoziati non si interruppero con la fine degli sforzi di Bennett. Essi proseguirono grazie alla mediazione turca. Gli stessi responsabili russi hanno affermato che a Istanbul le due parti erano vicine a un accordo.
Questa tesi del resto è confermata da fonti ucraine e perfino americane. Il 5 maggio 2022, il giornale Ukrayinska Pravda (molto popolare in ucraina, e di orientamento filo-occidentale) affermò che la controparte russa era quasi pronta per un incontro Zelensky-Putin che sancisse l’accordo di pace che avrebbe posto fine al conflitto.
Tuttavia l’improvvisa e inaspettata visita di Boris Johnson a Kiev il 9 aprile 2022 fece naufragare le trattative. Rivolgendosi ai rappresentati del governo ucraino, Johnson affermò che Putin era un criminale di guerra che andava messo sotto pressione, non un interlocutore con cui negoziare. E in secondo luogo, egli sostenne che, anche se Kiev era pronta a firmare un accordo con Putin, Londra non lo era.
Fonti americane confermano che i vertici statunitensi e britannici volevano che “la guerra andasse avanti” per “dissanguare Putin” e possibilmente porre fine al suo regime.
La stessa Fiona Hill, ex membro del Consiglio per la sicurezza nazionale USA, scrisse su Foreign Affairs che nell’aprile 2022 russi e ucraini erano sul punto di stipulare un accordo.
La Hill scrisse che i negoziatori russi ed ucraini si erano accordati su un compromesso provvisorio: la Russia si sarebbe ritirata sulle posizioni antecedenti il 24 febbraio, ed in cambio Kiev si impegnava a non perseguire l’adesione alla NATO accontentandosi di ricevere garanzie di sicurezza da un insieme di paesi.
Perfino fonti governative turche hanno sostenuto che alcuni membri della NATO volevano prolungare il conflitto per indebolire Mosca. “Dopo i colloqui di Istanbul, non pensavamo che la guerra si sarebbe prolungata così tanto”, dichiarò il ministro degli esteri Cavusoglu, “ma vi sono alcuni fra i membri della NATO che vogliono che la guerra continui e la Russia si indebolisca. A loro non importa molto della situazione in Ucraina”.
Bucha e l’affossamento definitivo del negoziato
In concomitanza con la visita di Johnson a Kiev, si diffusero le voci sui presunti massacri russi di civili a Bucha, Irpin e in altre località intorno alla capitale ucraina da cui i russi si erano appena ritirati in accordo con quanto stipulato in sede negoziale.
E’ interessante a questo proposito la valutazione rilasciata a Newsweek da un ufficiale della Defense Intelligence Agency (DIA), l’agenzia di intelligence del Pentagono, secondo cui “l’effetto Bucha” ha portato al congelamento dei negoziati e ad una visione distorta del conflitto.
In base alla sua valutazione, a Bucha, Irpin ed in altre città limitrofe, vi furono combattimenti estremamente aspri tra i russi e le forze ucraine, che determinarono un elevato livello di distruzione, ma non vi fu un massacro intenzionale e pianificato di civili da parte russa.
Il 10 aprile 2022, il ministro degli esteri ucraino Kuleba ancora invocava il negoziato. Ma il piano anglo-americano di soffocare le residue volontà di dialogo, e di inondare l’Ucraina con moderne armi occidentali affinché Kiev sconfiggesse la Russia sul campo di battaglia, si era già messo in moto.
Infine vi segnalo qui di seguito alcune delle riflessioni che ho pubblicato nella sezione “Notes” (la nuova sezione social di substack, consultabile al link posto centralmente in alto nella homepage della newsletter):
Adoro questa newsletter perché mi pone davanti ad un forte conflitto interiore:
- da un lato ho davanti qualcuno di evidentemente molto serio e competente, che scrive analisi partendo evidentemente da basi solide e da esperienze che personalmente non avrò mai
- dall'altro l'accezione filorussa di ogni singola mail è impossibile da trascurare. In questa, come nelle altre letture linkate, Iannuzzi si concentra solo ed esclusivamente su colpe e manipolazioni occidentali. La Russia "concede", "dialoga", "si ritira in modo ordinato", la Russia è una sorta di attore silente e passivo, costretto dalle circostanze. Molto spesso nelle mail il Cremilino è citato come fonte diretta. Su Bucha si lascia il dubbio, dicendo che "la Russia nega", insinuando il dubbio che in fondo sia tutto falso. Tutto ciò che arriva da occidente è falso, tutto ciò che arriva da Mosca sembra probabile.
La mia citazione preferita di tutti i tempi, ritrovata nell'articolo "Un anno di guerra in Ucraina: bilancio provvisorio di un conflitto che ha cambiato il mondo", è:
"Sebbene Mosca cerchi tuttora di contenere i livelli di distruzione delle infrastrutture civili"
Iannuzzi quasi invita gli ucraini ad esser grati alla Russia che cerca di contenere. I suoi missili fremono, ma lì c'è Putin che accarezza ogni batteria per provare a tenerli fermi. Si, ogni tanto qualcuno scappa, ma in fondo non è colpa loro, si stanno "contenendo".
Penso questa potrebbe essere la miglior newsletter in italiano sul conflitto, se solo Iannuzzi smettesse di scegliere il suo imperialista preferito. Fra una carezza alla Russia e l'altra potrebbe scoprire che si possono muovere giuste critiche all'occidente senza per questo dover risultare filorussi.