Un anno di guerra in Ucraina: bilancio provvisorio di un conflitto che ha cambiato il mondo
Una ricostruzione delle fasi cruciali di uno scontro bellico che minaccia la pace mondiale.
A un anno esatto dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, ci ritroviamo in un mondo completamente diverso, infinitamente più diviso e pericoloso, dalle prospettive cupe e incerte.
La crisi ucraina, focolaio di instabilità fra Russia e Occidente almeno dal 2014, sfociando in un conflitto bellico è divenuta la scintilla che ha fatto conflagrare tensioni e contraddizioni della globalizzazione a guida americana accumulatesi per decenni.
Com’era prevedibile, lo scontro, sebbene militarmente ancora confinato all’Ucraina, ha subito una metamorfosi allarmante per rapidità e ripercussioni, divenendo un confronto fra Russia e NATO, una guerra economica di portata globale, e addirittura una lotta per la ridefinizione degli equilibri mondiali e dell’ordine internazionale.
Gran parte del mondo non occidentale ha reagito con preoccupazione alla mobilitazione militare della NATO a sostegno di Kiev, e con scetticismo e distacco alla campagna di sanzioni americane ed europee contro la Russia, mantenendo rapporti economici e commerciali con Mosca.
Nel frattempo, oltre all’Ucraina, è l’intera Europa ad essere divenuta, in senso lato, un campo di battaglia per la riaffermazione di un primato americano che, mentre perde terreno ovunque nel mondo, sembra riprendere vigore sui tradizionali alleati europei, sopraffatti da una crescente crisi politica, economica e culturale.
A un anno dallo scoppio della guerra, è interessante ripercorrere e rivivere sensazioni e riflessioni espresse durante le primissime fasi dell’invasione. Ecco cosa scrissi, ad esempio, in un articolo del marzo dello scorso anno (il primo di questa newsletter):
In pochi giorni le sanzioni senza precedenti imposte dall’Occidente, e l’emarginazione politica, economica, e perfino culturale a cui è stata sottoposta Mosca, hanno scavato un solco incolmabile, una nuova cortina di ferro nel cuore dell’Europa, a poco più di 32 anni dal crollo del muro di Berlino.
Le conseguenze economiche sono incalcolabili. Non solo per la Russia, ma per l’Europa e il mondo intero. La globalizzazione all’ombra dell’era unipolare americana si è sgretolata definitivamente, e i nuovi equilibri saranno plasmati sotto la spinta di tensioni internazionali straordinarie.
Ma le crepe nel cosiddetto “ordine liberale internazionale” erano già evidenti. E il conflitto in Ucraina, definito da alcuni “inaspettato”, era annunciato da anni. In assenza di una svolta negoziale nella crisi ucraina e nella contrapposizione russo-occidentale, l’unica incertezza era quando sarebbe scoccata la scintilla.
Ora Mosca, impegnata in una sfida esistenziale, potrebbe sembrare messa all’angolo. L’evoluzione del conflitto appare un’incognita, i rischi di escalation considerevoli.
La Cina mantiene un basso profilo, ma nei fatti non sembra intenzionata ad abbandonare il partner russo.
L’Occidente, da tempo in declino e attraversato da divisioni profonde sia nel vecchio continente che fra le due sponde dell’Atlantico, parrebbe aver ritrovato un’unità nella mobilitazione anti-russa. Ma la sua strategia non ha un orizzonte, le misure adottate sono terribilmente autolesioniste, la sua “crociata” appare dettata da un’isteria irrazionale e pericolosa, che non ammette né riflessione né dissenso.
Una guerra di propaganda
La crisi strategica e la reazione irrazionale dell’Occidente si sono tradotte in un ricorso massiccio alla propaganda, e nella costruzione di una narrazione del conflitto funzionale all’esigenza di sostenere, senza se e senza ma, la mobilitazione di Washington e delle capitali europee a sostegno di Kiev. Tale narrazione ha però impedito una corretta lettura del conflitto e dell’evoluzione degli eventi sul terreno.
In questa narrazione, la “guerra annunciata” di cui ho parlato prima è divenuta “aggressione non provocata” da parte della Russia, mentre l’esercito russo è stato descritto come militarmente impreparato, demoralizzato, costretto a subire perdite disastrose sul campo di battaglia, condotto in un’impresa catastrofica da un presidente dominato da un odio irrazionale, isolato e mal consigliato.
Una versione condensata di tale narrazione ce la fornisce il seguente stralcio tratto dall’Economist:
“La guerra ha cambiato ancor di più l'Ucraina. Putin aveva pianificato una guerra lampo per rovesciarne il governo, il culmine di una campagna di aggressione e destabilizzazione iniziata in Crimea e nella regione del Donbass nel 2014. Invece, tra le rovine polverizzate del Donbass e nei rifugi antiaerei in tutto il Paese, l’Ucraina ha riforgiato se stessa, in una democrazia più unita, più orientata verso l’Occidente, e più resiliente. La Russia, nel frattempo, è stata riorganizzata attorno alla guerra e alla grande ostilità di Putin nei confronti della NATO, anche se le sanzioni e l'esodo dei suoi cittadini più istruiti hanno minato le sue prospettive economiche a lungo termine. La sua discesa in un militarismo dispotico, assieme al rinvigorimento della Nato e alla metamorfosi dell'Ucraina, hanno trasformato la guerra in uno scontro fra sistemi ideologici rivali”.
La realtà dei fatti è ben diversa ma, in questo “frastuono mediatico”, non è facile risalire pacatamente alle ragioni storiche del conflitto e ricostruirne obiettivamente l’evoluzione. Si può tuttavia tentare di tracciare uno schizzo a grandi linee, dal quale emergano gli elementi principali.
Le radici profonde del conflitto
Innanzitutto vale la pena, ancora una volta, ricordare come le radici profonde di questo conflitto risalgano alla mancata integrazione della Russia in Europa dopo la fine della guerra fredda, al fatto che non vi è mai stata una riconciliazione fra Washington e Mosca, e alla progressiva infiltrazione americana in Ucraina culminata nel rovesciamento del governo Yanukovych con il sostegno degli Stati Uniti, che a sua volta portò alla guerra civile nel Donbass, dove il nuovo governo insediatosi a Kiev non era stato riconosciuto.
La continua espansione della NATO, il dispiegamento di installazioni antimissile (in grado però, secondo Mosca, di lanciare anche missili cruise con testate nucleari) in Romania e Polonia, la crescente penetrazione dell’Alleanza Atlantica in Ucraina (attraverso esercitazioni militari congiunte, addestramento ed invio di armi all’esercito ucraino, costruzione di basi navali e fornitura di navi da guerra compatibili con gli standard NATO, attività di sorveglianza e spionaggio sul vicino territorio russo, sostegno logistico e di intelligence alla campagna militare di Kiev nel Donbass), e la prospettiva che Washington dispiegasse anche in Ucraina missili che sarebbero stati in grado di colpire Mosca in circa 5 minuti, hanno drammaticamente acuito il senso di insicurezza dei russi.
I preparativi di Kiev per un’offensiva militare finalizzata a riguadagnare definitivamente il controllo del Donbass (senza aver in alcun modo implementato gli accordi di Minsk), e la firma di una Carta di partnership strategica da parte di Washington e Kiev, che prevedeva fra l’altro l’impegno a ristabilire la “piena integrità territoriale” ucraina (inclusa la Crimea), hanno spinto Mosca a ritenere che non fosse più il caso di temporeggiare.
Indugiare ulteriormente, secondo il Cremlino, avrebbe potuto portare non solo alla totale sottomissione del Donbass ( con la compromissione definitiva di qualsiasi forma di autonomia), ma anche alla perdita della strategica base navale di Sebastopoli in Crimea (con conseguente estromissione russa di fatto dal Mar Nero e dalla possibilità di accedere al Mediterraneo), e infine ad un’Ucraina pienamente integrata con la NATO, che a quel punto avrebbe potuto divenire membro effettivo dell’Alleanza.
“Operazione militare speciale”
Dopo aver ricevuto una deludente risposta americana all’ultima proposta negoziale formulata nel dicembre 2021, Mosca ha scelto di ricorrere all’opzione militare lanciando una campagna il 24 febbraio dello scorso anno.
Gli obiettivi dichiarati di tale campagna, enunciati direttamente dal presidente russo Putin, erano la liberazione delle due autoproclamate repubbliche di Donetsk e Luhansk, e la “demilitarizzazione” e “denazificazione” dell’Ucraina.
Con “denazificazione” Mosca intendeva la liquidazione delle formazioni paramilitari neonaziste e di estrema destra e dei partiti politici che le sostenevano, insieme alla cancellazione degli elementi di legislazione che sostenevano il nazionalismo ucraino.
Con “demilitarizzazione” i russi alludevano allo smantellamento di quegli elementi che rendevano l’esercito ucraino interoperabile con la NATO (equipaggiamento, centri di addestramento, basi costruite da paesi NATO, come quella di Ochakiv sul Mar Nero, distrutta nelle prime fasi del conflitto).
Denominata “Operazione militare speciale”, l’invasione non fu intesa come un’operazione di guerra su vasta scala (come l’invasione USA dell’Iraq nel 2003, per intenderci), ma come un’operazione ibrida, volta a far capitolare il governo di Kiev sotto l’enorme pressione politico-militare, ma con un uso contenuto della forza e un minimo spargimento di sangue.
Il modello, per certi versi, era la presa della Crimea nel 2014, compiuta con un’operazione praticamente incruenta, che aveva visto la popolazione e gran parte dell’esercito passare spontaneamente dalla parte dei russi.
L’iniziale forza di invasione russa (circa 150.000 soldati, a cui si aggiungevano i 50.000 uomini delle due repubbliche separatiste del Donbass) non era affatto concepita per conquistare militarmente un paese di oltre 40 milioni di abitanti (essendo numericamente insufficiente), ma per un’operazione rapida che grazie alla defezione di parte dell’esercito ucraino e di elementi delle istituzioni, avrebbe portato il governo di Kiev a sgretolarsi o quantomeno ad accettare di sedersi al tavolo negoziale.
L’offensiva lanciata il 24 febbraio lungo tre direttrici (da sud, da est, e da nord) aveva due scopi principali: 1) prendere il controllo del Donbass e stabilire un ponte terrestre fra esso e la Crimea (in quelle che sono le regioni più filorusse dell’Ucraina), e 2) dirigere una forza verso Kiev per “fissare” il grosso delle truppe ucraine a difesa della capitale (impedendo così l’arrivo di rinforzi al sud e nel Donbass) e spingere il governo di Kiev a desistere da ogni resistenza.
Il contingente inviato a Kiev (poche decine di migliaia di soldati) non aveva lo scopo di conquistare la città con la forza, ma di agire come strumento di pressione.
Coerentemente con questo piano, le infrastrutture civili (elettriche, idriche, di trasporto e delle telecomunicazioni) inizialmente non furono toccate, le caserme non furono bombardate, gli edifici governativi non vennero colpiti, come confermano fonti del Pentagono.
Un fallimento dell’intelligence
Ma il governo di Kiev non si sgretolò, e l’esercito ucraino rimase unito, resistendo invece alle forze russe. Più complessa e sfaccettata fu la reazione della popolazione. Se l’invasione ebbe l’effetto di compattare una componente maggioritaria attorno a un governo che fino a pochi mesi prima aveva una popolarità bassissima, le descrizioni occidentali di un paese coeso e monoliticamente votato a respingere l’invasore sono lontane dalla realtà.
Altrimenti, non si spiegherebbero i molteplici resoconti su “informatori”, “traditori”, e “collaborazionisti” filorussi presenti non solo nella società, ma negli ambienti politici, nel sistema giudiziario, nella Chiesa, e addirittura nei servizi segreti. Resoconti che sono apparsi numerosi perfino sulla stampa americana.
Gli apparati chiave del governo e l’esercito, tuttavia, non crollarono.
Il fallimento russo, nella prima parte del conflitto, non fu però militare, come è stato prevalentemente detto in Occidente, bensì di alcuni settori dell’intelligence (FSB) che non hanno saputo valutare fino a che punto l’elemento nazionalista si fosse radicato nelle istituzioni e nelle file dell’esercito ucraini, così come non hanno saputo prevedere il livello di mobilitazione della NATO a sostegno di Kiev.
Va del resto considerato che gli stessi americani non immaginavano che il governo di Kiev avrebbe resistito, e avevano pianificato come scenario più probabile, già prima dell’invasione russa, una insurrezione contro il governo che Mosca avrebbe insediato a Kiev, da alimentare attraverso la Polonia.
Dalle pagine di Foreign Policy, Douglas London, esperto di intelligence ed ex agente della CIA, scrisse:
“Come gli Stati Uniti hanno imparato in Vietnam e in Afghanistan, un'insurrezione che dispone di linee di rifornimento affidabili, ampie riserve di combattenti e un santuario oltreconfine, può sostenersi indefinitamente, fiaccare la volontà di combattere di un esercito occupante, ed esaurire l’appoggio politico all'occupazione in patria. E la Russia dovrebbe anche pensarci due volte prima di tentare di dare la caccia agli insorti oltre il confine con la Polonia, ad esempio, poiché tali azioni potrebbero scatenare una guerra con la NATO”.
In riferimento all’invasione del 24 febbraio, London aggiunse:
“I funzionari statunitensi e ucraini si sono preparati a lungo per questo giorno. Con ogni probabilità, un programma segreto per contribuire a organizzare la resistenza alla Russia dispone già di infrastrutture di comunicazione, capacità di raccolta delle informazioni, e piani operativi. E le tattiche sviluppate per sostenere le operazioni difensive contro un invasore possono evolvere in quelle volte a ostacolare una forza di occupazione”.
La speranza del negoziato
Se Mosca non riuscì a far cadere il governo ucraino, né a compromettere la coesione dell’esercito avversario, seppe però spingere Kiev ad avviare un negoziato che si protrasse per un paio di mesi, con prospettive incoraggianti.
Dapprima attraverso la mediazione turca, e poi quella israeliana, le parti belligeranti accettarono di fare importanti concessioni: i russi rinunciarono alla “denazificazione” (intesa come rimozione del governo Zelensky) e al disarmo dell’Ucraina. Quest’ultima si disse pronta a rinunciare all’adesione alla NATO.
Tali rivelazioni ci sono giunte per bocca dell’ex premier israeliano Naftali Bennett, che nel marzo 2022 giocò un importante ruolo di mediazione fra Mosca e Kiev.
Sia Bennett che fonti ucraine hanno confermato che la trattativa aveva buone possibilità di successo, ma fu boicottata dall’intervento americano, e soprattutto britannico (coronato dall’improvvisa visita del premier Boris Johnson a Kiev il 9 aprile), che spinsero il presidente ucraino Zelensky a porre fine al negoziato.
Inasprimento del conflitto
Il fallimento degli sforzi negoziali portò i russi a ripensare il loro approccio al conflitto, che si sarebbe via via trasformato in uno scontro bellico più tradizionale (sebbene Mosca cerchi tuttora di contenere i livelli di distruzione delle infrastrutture civili).
Tra la fine di marzo e l’inizio di aprile, il Cremlino decise il ritiro delle forze russe dalla regione di Kiev, privilegiando la scelta di rafforzare il controllo sulle regioni meridionali, e di concentrarsi sulla lenta e metodica riconquista dell’intero Donbass.
Attento a non scivolare in una progressiva militarizzazione dell’economia e della società russa (pur dovendo far fronte alle dure sanzioni occidentali), Putin aveva però deciso, in accordo con i propri vertici militari, di mantenere invariato il livello delle truppe impegnate nel conflitto.
Una scelta di segno opposto è stata invece compiuta dai paesi NATO, guidati da Stati Uniti e Gran Bretagna, che hanno optato per un crescente coinvolgimento militare oltre che economico. Mentre l’effetto boomerang delle sanzioni imponeva duri sacrifici alle popolazioni europee, i paesi occidentali non solo hanno inviato quantità crescenti di armi a Kiev, ma hanno addestrato migliaia di soldati ucraini, mentre Washington e Londra pianificavano le azioni belliche in stretto coordinamento con i vertici militari ucraini.
Ciò ha permesso le controffensive ucraine iniziate a settembre, che hanno spinto Mosca a ritirarsi dall’oblast di Kharkiv, e poi di Kherson, allo scopo di accorciare il fronte ed attestarsi su posizioni meglio difendibili.
Quello che in Occidente fu celebrato come l’inizio della riscossa ucraina, in realtà fu un ridispiegamento russo relativamente ordinato, reso necessario dall’esiguità delle truppe dispiegate da Mosca fino a quel momento in Ucraina.
Tale ridispiegamento fu immediatamente seguito dalla decisione di Putin di mobilitare 300.000 riservisti che avrebbero dovuto sostenere lo sforzo bellico russo fra l’inverno e la primavera del 2023 (e tuttora solo parzialmente schierati in territorio ucraino).
Da allora il fronte si è prevalentemente stabilizzato in una estenuante guerra di posizione e di logoramento. I russi hanno compiuto graduali ma costanti avanzamenti territoriali in Donbass, mentre gli ucraini, spinti dalla necessità di presentare “risultati concreti” ai loro sponsor occidentali, hanno condotto continue ondate di attacchi, in gran parte infrantesi contro le consolidate linee difensive russe, con perdite ingenti che hanno richiesto ripetute mobilitazioni di cittadini anche fino ai 55-60 anni.
E’ difficile fendere la fitta nebbia della propaganda (e dei dati inattendibili) riguardo alle perdite militari, che arriva a parlare di 200.000 morti fra i russi (una cifra del tutto inverosimile, che renderebbe inspiegabile come essi riescano a mantenere il controllo sul 20% del territorio ucraino).
Le cifre più verosimili, in questo drammatico conflitto, farebbero supporre un rapporto molto vantaggioso per i russi, pari a 1-2 soldati uccisi per ogni 10 ucraini. In termini numerici, i morti russi si aggirerebbero intorno ad alcune decine di migliaia (forse 25.000) mentre quelli ucraini supererebbero di gran lunga i 100.000. A tali cifre bisogna aggiungere quelle molto più ingenti dei feriti, anche gravi.
Nel frattempo, già dall’inizio del conflitto il Pentagono lanciava l’allarme sullo stato di salute dell’industria bellica americana, una valutazione che naturalmente vale anche per quella europea, e che è stata confermata nei mesi successivi.
Una volta prosciugate le riserve di munizioni sovietiche dei membri NATO dell’Europa dell’Est, i paesi occidentali hanno cominciato a svuotare i propri arsenali, mentre la loro industria bellica non è in grado di tenere il ritmo delle munizioni consumate sul campo di battaglia.
Ciò dimostra che l’Alleanza Atlantica si è impegnata in un conflitto ad alta intensità a cui era essenzialmente impreparata (a differenza di Mosca).
Con la recente decisione di inviare carri armati occidentali in Ucraina, la NATO si appresta a soddisfare meno di un terzo delle richieste fatte a dicembre dal comandante dell’esercito ucraino Valerii Zaluzhny.
Intanto, già a ottobre, l’attacco ucraino al ponte di Kerch che unisce la Crimea alla Russia continentale segnava un ulteriore innalzamento del livello dello scontro, a cui Mosca avrebbe risposto avviando molteplici ondate di attacchi missilistici intesi a disabilitare alcune infrastrutture civili, e in primo luogo la rete elettrica del paese.
Una crescente minaccia alla pace mondiale
Pochi giorni prima, il sabotaggio dei due gasdotti Nord Stream, che univano la Russia alla Germania attraverso il Baltico, introduceva una nuova dimensione del conflitto che travalicava i confini ucraini.
Il recente reportage del giornalista investigativo americano Seymour Hersh rafforza i primi sospetti secondo cui dietro il sabotaggio vi sarebbero gli Stati Uniti. Se confermata, si tratterebbe di un’azione senza precedenti, un vero e proprio atto di guerra contro un paese alleato, la Germania, oltre che contro Mosca.
Tuttavia, sia la Germania che la Danimarca e la Svezia hanno inspiegabilmente mantenuto il silenzio su questa vicenda, e non hanno rivelato il risultato delle indagini compiute sui luoghi del sabotaggio, lasciando presupporre un atteggiamento di sottomissione nei confronti di Washington.
L’episodio ha ulteriormente rafforzato la convinzione di Mosca che l’Occidente le sia implacabilmente ostile, e che il futuro del paese risieda nel continente asiatico e in una partnership sempre più salda con la Cina, con cui la Russia condivide il rifiuto dell’egemonia americana.
Mentre l’Europa sembra rassegnarsi a una rafforzata versione di tale egemonia, il resto del mondo, dall’America Latina, al Medio Oriente e all’Africa, vede i propri interessi strategici sempre meno allineati con quelli di Washington. Il conflitto ucraino non fa eccezione.
Spaventati dalla determinazione statunitense ad utilizzare lo strumento delle sanzioni per imporre la propria volontà politica, e consapevoli del fatto che un giorno anch’essi potrebbero esserne vittime, molti paesi del sud del mondo stanno elaborando piani per emanciparsi dalla dipendenza dal dollaro.
Disperatamente votata a preservare il suo sempre più traballante primato, Washington sembra riconoscere in Pechino il vero avversario da battere, e nel consolidarsi di un asse Russia-Cina (che in realtà proprio le scelte americane hanno contribuito a far emergere), una minaccia esistenziale.
Senza aver risolto la questione ucraina a proprio vantaggio, gli USA paiono intenzionati a contrastare l’ascesa cinese proprio mentre Pechino si affaccia per la prima volta nel conflitto proponendo un proprio ruolo di mediazione (pur rimanendo essenzialmente al fianco di Mosca).
Da questo punto di vista, emerge chiaramente come la guerra ucraina sia solo un teatro di una più vasta competizione per la ridefinizione degli equilibri internazionali, che sta acquistando livelli di conflittualità pericolosi per la pace mondiale.
Anche limitandoci allo scontro fra Occidente e Russia, è evidente che il fronte di tale scontro si estende al di là dell’Ucraina, potendo coinvolgere a nord la Bielorussia, Kaliningrad, il Baltico, e l'Artico, e a sud la Moldavia, il Mar Nero, il Caucaso, il Kazakistan e l'Asia centrale.
Focolai di particolare tensione nel 2023 potranno essere Kazakistan e Armenia, dove gli USA sostengono attivamente forze nazionaliste anti-russe, e Moldavia e Georgia, dove potrebbero riaccendersi vecchi conflitti in grado di aprire un "secondo fronte" oltre a quello ucraino.
È un piacere poter leggere questi articoli
Il nucleo tematico che vede in questa guerra l'epitome di un processo di ridefinizione degli equilibri globali (già in atto) va sviluppato e mi pare che l'autore di questo blog stia portando un contributo significativo ad un dibattito che, purtroppo, non ha ancora ottenuto la centralità che merita.
Il dott. Jannuzzi merita di essere letto "senza pregiudizi", i temi che discute hanno una consistenza "ineluttabile".
Lasciamo stare Plechanov ed il "ruolo della personalità nella Storia", ma un leader come Putin con le sue nostalgie imperiali, condite da riferimenti filosofici ed ideologici che farebbero rabbrividire il 99 % dei lettori di questo blog, non è comunque la figura ideale per traghettare la Russia nel "nuovo mondo" che il dott. Jannuzzi ci aiuta a intravedere nella filigrana della Storia.
ll ciclo politico di Putin si è in ogni caso esaurito.
Consiglio di andare a ripetizioni dai cinesi, meno Dugin e più Confucio.