IN PILLOLE – Dopo Ramstein carri armati occidentali contro la Russia, Ucraina paese coeso o nazione divisa?
Che impatto avranno i tank occidentali sull’evoluzione del conflitto ucraino? “Collaborazionisti” e “agenti” filorussi, una spia delle divisioni interne all’Ucraina.
Dopo Ramstein: l’invio di carri armati occidentali in Ucraina che impatto avrà sul conflitto?
Ucraina: un paese coeso in lotta contro l’invasore straniero, o una nazione divisa al suo interno?
Dopo Ramstein: l’invio di carri armati occidentali in Ucraina che impatto avrà sul conflitto?
La riunione del Gruppo di contatto per l’Ucraina, tenutasi alla base NATO di Ramstein, in Germania, lo scorso venerdì, ha avuto luogo dopo che il comandante delle forze armate ucraine, Valerii Zaluzhny, aveva rilasciato un’importante intervista all’Economist, lo scorso dicembre.
Per liberare i territori ucraini controllati dai russi, in quell’intervista Zaluzhny chiedeva di fatto un nuovo esercito, il terzo, dopo quello distrutto dai russi nella prima fase del conflitto e quello, costituito in estate con supporto e armi della NATO, che ha poi esaurito le sue forze nella riconquista dei territori negli oblast di Kharkiv e Kherson.
Zaluzhny chiedeva 300 carri armati, 600-700 veicoli corazzati da combattimento di fanteria, e 500 obici.
A Ramstein, l’Ucraina ha ottenuto 240 veicoli di fanteria di differente tipologia e produzione (Bradley e Stryker americani, Marder tedeschi, CV90 svedesi), poco meno di 100 pezzi di artiglieria (Archer svedesi, AS-90 britannici, Paladin M-109 americani, CAESAR francesi) e alcune decine di carri armati.
Berlino aveva inizialmente rifiutato di inviare a Kiev carri armati tedeschi Leopard 2. Il rifiuto tedesco era giustificato e comprensibile: vedere tank tedeschi schierati non lontano dal confine russo contro l’esercito di Mosca avrebbe evocato precedenti storici terribili. Ma c’era anche una ragione pratica, di natura militare e industriale.
L’esercito tedesco dispone di poco più di 300 Leopard 2, molti dei quali non sono pronti al combattimento, necessitando di revisione e manutenzione. Inoltre, a causa della crisi economica, l’industria bellica tedesca ha seri problemi di produttività.
Molti altri paesi schierano carri armati Leopard 2 di produzione tedesca, ed è questa una delle ragioni per cui gli USA hanno insistito con Berlino: la disponibilità di pezzi di ricambio e personale specializzato in Europa avrebbe semplificato la già impervia sfida logistica di garantire l’invio e l’assistenza di tank occidentali in Ucraina.
Ma, a causa della crisi di produttività del complesso militare-industriale tedesco, mandando i propri carri in Ucraina e permettendo ad altri paesi europei di inviare i Leopard tedeschi in loro possesso, Berlino avrebbe sguarnito le proprie difese e avrebbe dato via libera all’industria bellica americana per rimpiazzare in Europa i tank che la Germania non è in grado di produrre.
Perciò Berlino aveva sostenuto che non avrebbe inviato i suoi carri se Washington non avesse a sua volta mandato i propri. La risposta americana è stata di annunciare l’invio di 31 Abrams per costringere i tedeschi a capitolare. Cosa che è puntualmente avvenuta.
La Germania ha tuttavia acconsentito all’invio di un numero esiguo di Leopard 2 (appena 14), con la promessa di inviarne in futuro fino a 112. Berlino, però, ne possiede complessivamente poco più di 300. Il problema è comune agli altri paesi europei. Cedendo troppi carri armati si sguarniscono le proprie difese.
Per la stessa ragione, i britannici hanno promesso non più di 14 Challenger, e i francesi forse invieranno una ventina dei loro Leclerc (ma Parigi sembra essere in dubbio).
Considerate poi le disponibilità di Leopard in Europa, quelli che realmente arriveranno in Ucraina al momento non superano di molto la soglia complessiva dei 100 carri armati, sufficienti ad armare a mala pena un paio di brigate corazzate.
Secondo alcune stime, le promesse dei paesi NATO avrebbero raggiunto la cifra complessiva di 156 carri, ma tale cifra potrebbe essere sovrastimata. La Spagna, ad esempio, ha promesso fino a 53 Leopard 2, ma di questi solo 20 sono operativi.
Dal canto loro, gli appena 31 Abrams promessi da Washington impiegheranno mesi, forse più di un anno, per giungere sui campi di battaglia in Ucraina, oltre a essere quelli di più difficile gestione sotto il profilo logistico e dell’addestramento.
Ciò non basterà a garantire la guerra di manovra che sarebbe necessaria per la nuova controffensiva ucraina di primavera, e non assicurerà nemmeno all’esercito ucraino un’adeguata capacità di resistenza di fronte alle offensive russe in preparazione.
Mentre Zaluzhny chiedeva per la propria controffensiva di primavera almeno tre brigate corazzate e tre meccanizzate, a Ramstein egli ha ottenuto meno della metà.
Ma i problemi non finiscono qui, perché molti dei mezzi forniti sono vecchi e di complicata gestione. In più, fornire obici e veicoli di fanteria di differenti tipologie complica enormemente il compito di addestrare le esigue riserve di soldati ucraini, e la logistica di manutenzione e pezzi di ricambio.
In altre parole, è molto probabile che la gestione del materiale promesso a Ramstein si trasformerà in un incubo logistico che ne ridurrà di molto la già scarsa efficacia militare.
Inoltre, i Leopard e gli altri carri occidentali non sono quelle “Wunderwaffen” (armi magiche) che qualcuno si illude che siano, e senza adeguata copertura aerea e di artiglieria sono vulnerabili alle armi russe.
Secondo alcuni conteggi, l’Ucraina avrebbe iniziato il conflitto con circa 2.000 carri di fattura sovietica a disposizione, e l’Occidente le avrebbe fornito altri 400 tank sovietici o poco più in questi mesi. Ma l’esperto europeo di affari militari Gustav Gressel sostiene che Kiev ne starebbe perdendo circa 130 al mese.
L’esercito ucraino sta anche dilapidando i propri pezzi di artiglieria, e consumando munizioni che richiederanno anni per essere rimpiazzate, sebbene gli USA stiano più che raddoppiando la loro produzione.
Ben presto Kiev potrebbe perdere la linea difensiva Bakhmut-Siversk (la penultima di cui dispone) in Donbass.
Nondimeno, avremo un’escalation militare che vedrà i paesi della NATO sempre più direttamente coinvolti nel conflitto in qualità di cobelligeranti. E non è escluso che finiremo per vedere anche caccia F-16 nei cieli ucraini.
Ma il punto chiave di ciò che è emerso a Ramstein non è militare, bensì politico. Invece di indagare possibili sbocchi negoziali, l’Occidente sta sprofondando in un conflitto da cui difficilmente uscirà vincitore (date le carenze evidenziate dalla propria industria bellica), perfino scatenando un conflitto mondiale (nel quale perderebbero tutti).
Infine, quello ucraino è al momento il fronte più caldo, ma non l’unico. I potenziali fronti dello scontro fra Occidente e Russia si estendono a nord dalla Bielorussia, a Kaliningrad e al Baltico, fino all'Artico, e a sud dalla Moldavia, al Mar Nero, al Caucaso, al Kazakistan e all'Asia centrale.
Particolarmente importanti nel 2023 saranno Kazakistan e Armenia, dove l'Occidente sostiene attivamente forze nazionaliste anti-russe, e Moldavia e Georgia, dove sta tentando di riaccendere vecchi conflitti e aprire un "secondo fronte" oltre a quello ucraino.
Alla luce di quanto detto, il 2023 sarà un anno molto pericoloso per la stabilità mondiale.
Ucraina: un paese coeso in lotta contro l’invasore straniero, o una nazione divisa al suo interno?
L’Ucraina è un paese coeso, in lotta contro un invasore straniero, o un paese profondamente diviso in cui una parte consistente della popolazione si oppone al governo, si sente perseguitata, e in alcuni casi addirittura attende una liberazione da parte dei russi?
La stampa occidentale ha sempre alimentato la prima narrazione, descrivendo una popolazione ucraina coesa al seguito del proprio governo, rispettoso della libertà e dei valori democratici, che combatte disperatamente contro l’aggressione dell'autocrazia russa.
Ma perfino nei media americani si trova frequentemente materiale che apre crepe profonde in questa descrizione. L’ultimo “caso” è apparso su Foreign Policy.
“Informatori”, “traditori”, “collaborazionisti”, così vengono definiti gli oppositori al governo.
“Vi sono agenti russi ovunque, nel governo, nel sistema giudiziario, nella Chiesa. Sono membri del parlamento, giudici, preti, e naturalmente civili”.
A parlare così è Iryna Fedoriv, caporedattrice di Chesno, una ONG che dall’inizio della guerra denuncia “collaborazionisti” filorussi, ed è finanziata da agenzie americane come l’USAID (attraverso il cosiddetto PACT Ukraine) e il NED (National Endowment for Democracy). Sia l’USAID che il NED ebbero un ruolo chiave nel sostenere la rivolta di Maidan del 2014.
Secondo la Fedoriv, ciò accade perché “il sistema è marcio e corrotto”. “Abbiamo ancora parlamentari provenienti dai partiti filorussi” (che però sono stati messi al bando), “abbiamo giudici filorussi; perché li teniamo lì? Dobbiamo sbarazzarcene”.
Perfino nell’intelligence ucraina (SBU) vi sono “talpe e traditori” secondo il portavoce Artem Dekhtiarenko. “Ci sono agenti nemici fra le più alte autorità e tra i funzionari di alto rango”.
In tutto il paese sono affissi manifesti governativi che incoraggiano la popolazione alla delazione: “Conosci un collaborazionista o un traditore? Informaci”.
La questione degli “agenti” e dei “collaborazionisti” filorussi era già stata trattata da altri mezzi di informazione americani, in particolare dal Washington Post.
Sebbene il tono degli articoli apparsi sul quotidiano statunitense sia apertamente ostile alla Russia, dal testo traspare una realtà composita e frastagliata, nella quale il sostegno al governo di Kiev non è scontato e le simpatie russe alquanto diffuse.
Ecco quindi che, nella “liberata” Kherson, emerge un dilemma: “Come ricostruire senza le migliaia di simpatizzanti della Russia che sono fuggiti? E, cosa ancora più scottante, cosa fare con quelli che rimangono?”.
Si legge nell’articolo: “Migliaia di persone in città avevano un'ambivalenza nei confronti dei russi, o addirittura un'affinità.”
Un altro articolo interessante è a firma dell’ex addetta stampa di Zelensky. Anche da esso emerge che l’Ucraina, dipinta come compattamente antirussa dalla stampa occidentale, è piena di “collaborazionisti” e attivisti ucraini filorussi.
Naturalmente, la presenza di ucraini filorussi è documentabile non solo nell’area di Kherson, su cui si sono soffermati molti quotidiani americani, ma anche in altre aree, soprattutto nell’Ucraina meridionale e orientale.
A questo punto dovrebbe sorgere spontaneamente un interrogativo: com’è possibile che in un paese descritto come socialmente e politicamente coeso, con un governo che avrebbe ampia legittimazione popolare, vi siano così tanti “traditori” e “agenti stranieri” in grado di infiltrare praticamente tutte le istituzioni, compresi servizi segreti e polizia, e le più alte cariche dello stato?
Non bisognerebbe invece ammettere che la “coesione ucraina” è un mito creato dalla propaganda governativa e occidentale, che nasconde la realtà di una società composita e frammentata, in cui una parte consistente della popolazione non si sente rappresentata dal governo – tutt’altro che democratico – e addirittura si sente oppressa da esso?
Che fratture sempre più profonde stiano emergendo nel paese sembra confermarlo il recente accorato appello di Zelensky a “rimanere uniti”. Egli ha sottolineato come sia “vitale che gli ucraini di tutte le regioni si uniscano”. Si dovrebbe dunque dedurre che i cittadini ucraini siano fra loro divisi.
Oltre alle differenze economiche e sociali, nel paese vi sono diversità etniche e linguistiche. Vi sono infatti cittadini di etnia russa, rumena, bielorussa, tatara, ungherese, polacca, ecc. La minoranza più consistente è però di gran lunga quella russa (al momento dell’indipendenza, il 22% della popolazione era etnicamente russo).
La rivolta di Maidan, che nel 2014 portò al rovesciamento del governo guidato dal presidente Viktor Yanukovych, divise profondamente gli ucraini.
Riconoscere il carattere composito del paese sarebbe il primo passo da compiere, in particolare da parte dei leader occidentali, per ricercare una soluzione negoziata del conflitto.