Smembrare la Russia: perché la Guerra Fredda non è mai finita
L’aspirazione a un cambio di regime a Mosca, e ad una partizione della Russia, è rimasta viva nell’establishment americano anche dopo il crollo del blocco comunista.
Una recente indagine “predittiva” condotta dall’Atlantic Council (uno dei più importanti think tank americani) fra 167 esperti statunitensi ed europei anticipa che la Russia diventerà uno stato fallito, o addirittura si disintegrerà, entro il 2033.
Secondo il 40% degli esperti intervistati, la Russia non solo diventerà uno stato fallito, ma si frantumerà entro quella data. Più di un quinto di essi (il 21%) addirittura considera la Federazione russa il paese che avrebbe la maggior probabilità di divenire uno stato fallito nel prossimo decennio.
Quella degli esperti consultati dall’Atlantic Council, più che una previsione sembra essere un auspicio, diffuso non solo fra i think tank ma anche fra i politici americani.
In questi mesi, sulle pagine delle principali pubblicazioni di politica estera e dei maggiori think tank statunitensi, si sono moltiplicate le analisi che vertevano sulla necessità di “indebolire” la Russia, sulla possibilità di un cambio di regime a Mosca, sulle prospettive di una Russia senza Putin, sulla necessità di “decolonizzare” la Russia, considerata come un impero che va smantellato, e sugli scenari di una disintegrazione della Federazione russa.
Dalle pagine di Foreign Policy, Douglas London, professore di studi sull’intelligence ed ex agente della CIA, ha addirittura alluso al fatto che i servizi americani starebbero operando in Russia come altrove (Cina, Iran) per facilitare malcontento e disordini, e per reclutare dissidenti e compiere azioni di sabotaggio in vista di un possibile cambio di regime.
L’ipotesi di un rovesciamento del presidente russo è stata ventilata anche da figure politiche di spicco a Washington. Basti ricordare l’influente senatore repubblicano Lindsey Graham e il suo invito a “far fuori Putin”.
E non si può infine tralasciare la frase pronunciata dal presidente Biden durante il suo discorso a Varsavia, in Polonia, lo scorso marzo: “Per l'amor di Dio, quest'uomo [Putin] non può rimanere al potere”.
Naturalmente, si potrebbe pensare che tutte queste dichiarazioni, analisi e aspirazioni (non necessariamente realizzabili) a proposito di un possibile cambio di regime a Mosca, o addirittura di una disintegrazione della Russia, siano una mera conseguenza dell’invasione russa dell’Ucraina iniziata lo scorso 24 febbraio.
Tuttavia l’aspirazione a rovesciare il governo di Mosca, ed anche a provocare uno smembramento della Russia, non è affatto nuova all’interno dell’establishment americano. Si tratta invece di idee che sono rimaste vive fra i decisori e gli strateghi di Washington dai tempi della Guerra Fredda, non essendo tramontate neanche dopo il crollo del blocco sovietico.
1991: chiudere i conti con Mosca
Quando l’Unione Sovietica cominciò a crollare nel 1991, l’allora segretario alla difesa Dick Cheney suggerì che Washington dovesse fare tutto il possibile per accelerare il crollo. Il segretario alla difesa James Baker si oppose fermamente.
Baker, e lo stesso presidente George H.W. Bush, ritenevano che mantenere unita l’Unione Sovietica, anche con un centro debole, fosse la migliore alternativa ad una disintegrazione violenta. Ma non si trattava di una preoccupazione umanitaria. Il loro timore era che, in caso di una disgregazione dell’URSS, l’arsenale nucleare di Mosca si sarebbe frammentato in maniera pericolosa e incontrollabile.
Paradossalmente, il Consigliere per la sicurezza nazionale Brent Scowcroft riteneva invece che una frammentazione del sistema di comando e controllo dell’arsenale nucleare strategico sovietico avrebbe diluito la portata di un eventuale attacco.
Alla fine, a prevalere fu il punto di vista di Baker, ma l’amministrazione rimase profondamente divisa su questo punto. L’esigenza di ridurre la minaccia di un arsenale sovietico potenzialmente fuori controllo fu anche all’origine dei numerosi accordi di disarmo che la Casa Bianca si affrettò a sottoporre a Mosca.
Tuttavia l’idea che gli Usa dovessero chiudere i conti una volta per tutte non solo con l’URSS, bensì con la Russia stessa, continuò a circolare negli ambienti politici americani.
Nel suo libro di memorie, Robert Gates, già direttore della CIA e segretario alla difesa sotto George W. Bush, scrisse che Cheney, in particolare, voleva arrivare non solo allo smantellamento dell’Unione Sovietica e dell’impero russo, ma della Russia stessa “affinché non fosse mai più una minaccia per il resto del mondo”.
“Non un centimetro a Est”
Che Mosca rimanesse per Washington un nemico da combattere perfino dopo la fine della Guerra Fredda, emerge anche dalla vicenda relativa all’unificazione della Germania e all’espansione della NATO.
In questo caso la frattura nel governo USA emerse fra Baker da un lato, ed il Consiglio per la sicurezza nazionale e lo stesso presidente Bush dall’altro.
Il primo propose al presidente sovietico Gorbaciov che, in cambio dell’unificazione tedesca, l’Alleanza Atlantica “non si sarebbe spostata di un centimetro verso est rispetto alla sua posizione attuale”.
La stessa proposta fu inizialmente adottata dal cancelliere tedesco Helmut Kohl in occasione del suo incontro con Gorbaciov il 10 febbraio del 1990. Ma il cancelliere aveva ricevuto dal presidente Bush una lettera ambigua, redatta in accordo con il Consiglio per la sicurezza nazionale, in cui non si accennava alla promessa di non allargare l’Alleanza, ma solo al fatto che la Germania Est avrebbe avuto uno “status militare speciale” al suo interno.
Durante l’incontro del 10 febbraio, Kohl e Gorbaciov raggiunsero un’intesa sull’unificazione tedesca in cambio della promessa di non espandere la NATO. Documenti declassificati nel 2017 confermano che i vertici di Mosca ricevettero una serie di rassicurazioni dai leader occidentali fra il 1990 e il 1991 sul fatto che la NATO non avrebbe tratto vantaggio dalla debolezza sovietica, e che gli interessi di sicurezza sovietici sarebbero stati salvaguardati.
Resta il fatto che tutte queste rassicurazioni rimasero verbali, e Gorbaciov non ottenne nessuna garanzia scritta. Il leader sovietico, inoltre, non colse i segnali provenienti dalle discussioni teoriche che già nel 1990 si tenevano in Occidente sulla possibilità che il futuro della NATO riguardasse anche l’Europa dell’Est.
Dalle trascrizioni sia americane che tedesche dell’incontro fra Kohl e Bush avvenuto a Camp David tra il 24 e il 25 febbraio del 1990, emerge che già in quell’occasione il presidente statunitense aveva chiarito al cancelliere il proprio punto di vista sulla prospettiva di giungere a un compromesso con Mosca: “Al diavolo”, disse Bush, “noi abbiamo prevalso, loro no”.
In altre parole, in quell’occasione Bush mise in chiaro l’intenzione americana di espandere la NATO anche ai membri del Patto di Varsavia, ignorando le preoccupazioni di Mosca.
Mantenere l’Europa divisa
Nell’aprile di quello stesso anno, egli specificò in un telegramma confidenziale al presidente francese François Mitterrand che l’organizzazione di sicurezza dominante nell’Europa post-Guerra Fredda doveva rimanere la NATO, e non una qualche alleanza pan-europea. L’Europa sarebbe dovuta rimanere divisa.
Proprio una soluzione pan-europea fu invece proposta da Gorbaciov il mese dopo. Il leader del Cremlino addirittura sollevò l’idea che la stessa Unione Sovietica aderisse alla NATO. Ma questa volta Baker si rifiutò di prendere in considerazione la proposta, rispondendo sprezzantemente che “la sicurezza pan-europea è un sogno”.
In un articolo apparso sul Washington Post nel 2014, Jack Matlock, ambasciatore americano a Mosca fra il 1987 e il 1991, scrisse che la tesi diffusa nei paesi occidentali, secondo cui l’Occidente vinse la Guerra Fredda, era sbagliata. Quest’ultima “finì con un negoziato, a vantaggio di entrambe le parti”, scrisse Matlock.
Tuttavia, nel suo discorso sullo stato dell’Unione del 1992, Bush affermò: “Per grazia di Dio, l’America ha vinto la Guerra Fredda”. I successivi presidenti americani tradussero questa affermazione in atti concreti.
Bill Clinton appoggiò il bombardamento della Serbia da parte della NATO senza l’approvazione del Consiglio di sicurezza dell’ONU, e diede impulso all’espansione dell’Alleanza per includere gli ex membri del Patto di Varsavia.
Queste mosse violarono l’intesa non scritta secondo cui gli USA non avrebbero tratto vantaggio dal ritiro sovietico dall’Europa dell’Est. “L’effetto sulla fiducia dei russi nei confronti degli Stati Uniti fu devastante”, concluse Matlock.
Stringere il cappio attorno a Mosca
L’idea che la Russia rimanesse un nemico da rovesciare continuò a perpetuarsi all’interno dell’establishment USA, prendendo corpo non solo nella continua espansione della NATO ma anche nel rovesciamento di governi “amici” di Mosca.
Tali strategie vennero portate avanti da esponenti come Victoria Nuland, allieva di Cheney, e “mente” del cambio di regime provocato in Ucraina in coincidenza con la rivolta di Maidan nel febbraio del 2014.
Che il sostegno alla rivolta di Maidan fosse solo un episodio di una campagna più ampia che aveva come obiettivo finale Mosca, lo chiarì, fra gli altri, Carl Gershman, presidente del National Endowment for Democracy (organismo che ebbe un ruolo chiave negli eventi che portarono a Maidan 2014).
In un editoriale sul Washington Post, Gershman definì l’Ucraina “il premio più grande” e un importante passo intermedio verso il rovesciamento di Putin, il quale avrebbe potuto presto ritrovarsi “in una posizione perdente non solo nel vicinato [russo] ma all’interno della Russia stessa”.
L’esistenza di questo ininterrotto filone di pensiero all’interno dell’establishment americano, che punta all’abbattimento del governo russo e possibilmente allo smembramento della Russia stessa, contribuisce a spiegare perché da Mosca l’attuale conflitto in Ucraina venga visto come una battaglia esistenziale che deciderà il futuro stesso della Federazione russa. Una battaglia che Mosca non può in nessun caso permettersi di perdere.