Mobilitazione parziale dell’esercito russo: il mondo su un piano inclinato
Il conflitto ucraino va verso l’escalation, ma il vero pericolo deriva dal contesto mondiale.
La decisione del Cremlino di richiamare 300.000 riservisti dell’esercito a causa dell’inasprirsi del conflitto in Ucraina, e in particolare della recente débâcle dovuta alla controffensiva ucraina nell’oblast di Kharkiv, rappresenta una svolta che deve far riflettere.
Tale decisione si inserisce in un contesto globale dominato da tensioni geopolitiche senza precedenti, dalla paralisi delle principali organizzazioni internazionali a partire dall’Onu, dallo sfaldamento dell’edificio della globalizzazione, e da una crescente polarizzazione che porta all’emergere di blocchi contrapposti.
La reazione scomposta di Biden all’Onu
Un contesto che ha trovato eco nell’intervento del presidente americano Biden alla consueta Assemblea generale dell’Onu di settembre, nel quale l’approccio conflittuale ha prevalso su quello costruttivo.
Biden ha accusato Mosca di aver “spudoratamente violato i principi fondamentali della Carta delle Nazioni Unite”, aggiungendo che l’obiettivo della guerra russa è “distruggere il diritto dell’Ucraina di esistere come Stato” e “come popolo” – una cosa, ha concluso il presidente americano, che dovrebbe “far raggelare il sangue”.
Ma il ripetuto riferimento di Biden alla Carta delle Nazioni Unite – “la base stessa di un ordine stabile e giusto, basato sulle regole”, che sarebbe “sotto attacco da parte di coloro che desiderano distruggerlo o distorcerlo a proprio vantaggio” – mette in chiaro che la posta in gioco è la ridefinizione dell’ordine mondiale fin qui guidato dagli Stati Uniti.
Per descrivere questa battaglia cruciale, l’inquilino della Casa Bianca non ha trovato di meglio che definirla “una competizione fra democrazia e autocrazia”, aggiungendo che gli Usa perseguono la visione di un “mondo radicato nei valori democratici”.
Egli è parso incurante delle numerose contraddizioni presenti nel suo discorso: dal fatto che la democrazia che gli Stati Uniti vogliono promuovere all’estero è in profonda crisi innanzitutto a casa loro così come nella maggior parte dei paesi occidentali, al fatto che gli Usa sono i primi ad aver più volte violato la Carta delle Nazioni Unite (spiccano in particolare il bombardamento della Serbia nel 1999 e l’invasione dell’Iraq nel 2003, ma gli episodi abbondano), e anche ad aver sostenuto regimi non democratici in diverse parti del mondo.
La crociata di Ursula von der Leyen
Sulla stessa lunghezza d’onda di Biden, tuttavia, si trova l’Ue di Ursula von der Leyen, come emerge chiaramente dal discorso sullo stato dell’Unione Europea da lei pronunciato lo scorso 14 settembre.
La presidente della Commissione europea ha affermato che l’attuale punto di svolta nello scenario globale “richiede un ripensamento della nostra agenda di politica estera”, aggiungendo che “è il momento di investire nella forza delle democrazie”.
Non solo. Bisognerebbe “espandere questo nucleo di democrazie”, cominciando da quei paesi che sono già su un percorso di avvicinamento all’Unione, come “Balcani occidentali, Ucraina, Moldova e Georgia”.
“L’Unione è incompleta senza di voi!”, è arrivata a dire la von der Leyen rivolgendosi a questi paesi, due dei quali direttamente confinanti con la Russia, facendo sorgere il dubbio che, più che una campagna di esportazione dei valori democratici (peraltro profondamente in crisi anche in molti paesi Ue), si preannunci una nuova campagna di espansione dell’Unione Europea.
I toni nei confronti della Russia sono invece durissimi. Secondo la presidente della Commissione, quella di Mosca non è solo una guerra contro l’Ucraina, ma “è una guerra alla nostra energia, alla nostra economia, ai nostri valori e al nostro futuro”.
Poco importa se nei fatti sia stata l’Unione a rinunciare volontariamente al gas russo, con l’imposizione delle sanzioni e la scelta di cercare fornitori alternativi a Mosca.
Ancora una volta, “si tratta di autocrazia contro democrazia”, secondo la von der Leyen.
“Fin dal primo giorno, l’Europa è stata al fianco dell’Ucraina. Con le armi. Con i fondi. Con l’ospitalità ai profughi. E con le sanzioni più dure che il mondo abbia mai visto”, ha affermato la presidente.
Ed ha aggiunto: “Voglio dirlo molto chiaramente, le sanzioni sono qui per restare. Per noi, questo è il momento di mostrare determinazione, non acquiescenza (“appeasement”, nel discorso originale in inglese).
Dovrebbero esservi dunque pochi dubbi sul fatto che l’Ue sia in piena rotta di collisione con la Russia e interamente allineata con gli Stati Uniti. Al punto da raffreddare perfino i rapporti commerciali con la Cina, finora partner essenziale per l’Europa.
La Commissione sta infatti mettendo a punto un embargo sui prodotti realizzati con il lavoro forzato (che potrebbe colpire in particolare le importazioni dalla provincia cinese dello Xinjiang), e intende limitare i finanziamenti cinesi alle università ed agli istituti di ricerca europei.
La Germania, nel frattempo, sta studiando una nuova politica economica volta a ridurre la dipendenza delle industrie tedesche dal mercato e dai finanziamenti cinesi.
Usa, Nato e nuovi venti di guerra
Ciò avviene mentre il Pentagono lancia l’allarme sullo stato di salute dell’industria bellica americana, non solo alla luce dell’esigenza di fornire armamenti all’esercito ucraino, che sta mettendo a dura prova gli arsenali occidentali, ma anche della possibilità – stando alle valutazioni dei vertici militari statunitensi – di un conflitto armato con la Cina entro i prossimi dieci anni.
Dal canto suo, la Nato ha deciso (al vertice di Madrid dello scorso giugno) di rafforzare il fianco orientale in Europa sia attraverso un incremento della presenza militare americana, sia attraverso un ampliamento della Nato Response Force, la forza di intervento rapido dell’Alleanza, che dovrebbe passare da 40.000 a ben 300.000 soldati.
Sebbene questi numeri siano difficili da raggiungere in concreto, complessivamente si tratta “della più grande revisione delle nostre strutture militari dal 1949”, ha affermato pochi giorni fa l’ammiraglio Rob Bauer, capo del Comitato militare della Nato.
Un processo la cui pianificazione “ebbe inizio diversi anni fa, ma che adesso stiamo implementando”, ha aggiunto l’ammiraglio. Un dettaglio interessante, questo, che lascerebbe intendere che il rafforzamento del fianco orientale della Nato era stato previsto ben prima dell’invasione russa dell’Ucraina.
Scontro fra democrazie e autocrazie, o crisi occidentale?
Secondo Bauer, “è chiaro che il conflitto va al di là dell’Ucraina”. Infatti, “l’intero ordine internazionale ‘basato su regole’ è sotto attacco, e spetta alle nazioni libere e democratiche del mondo proteggerlo”.
Il nuovo “Concetto strategico” della Nato, reso noto a Madrid, definisce la Federazione Russa come “la più significativa e diretta minaccia alla sicurezza degli Alleati, ed alla pace e alla stabilità nell’area euro-atlantica.
Ma il documento cita per la prima volta anche la Cina, affermando che le sue “ambizioni e politiche coercitive costituiscono una sfida ai nostri interessi, alla nostra sicurezza e ai nostri valori”.
E’ dunque evidente che, al pari degli Usa e della Ue, la Nato fa proprio lo schema dello scontro fra democrazie ed autocrazie – queste ultime indentificate in primo luogo in Russia e Cina, mentre le prime si ergerebbero a difesa dell’ordine internazionale minacciato.
Ma se è vero che l’ordine internazionale (essenzialmente incarnato dalla globalizzazione neoliberista sotto l’ombrello dell’egemonia americana) è in crisi, bisogna ricordare che tale crisi precede di gran lunga l’attuale conflitto in Ucraina ed anche lo scoppio della questione ucraina nel 2014.
Essa, infatti, risale almeno al tracollo finanziario del 2008, ed ha ragioni essenzialmente interne al sistema occidentale.
Le ragioni immediate della mobilitazione russa
Se quello appena descritto è il contesto globale in cui si inserisce la decisione del Cremlino di indire una mobilitazione parziale dell’esercito, la ragione immediata di tale decisione è rappresentata dalla recente controffensiva ucraina nella regione nordorientale di Kharkiv, avvenuta grazie al crescente coinvolgimento della Nato nel conflitto.
Come avevo scritto la scorsa settimana:
Il profondo coinvolgimento della Nato è confermato da fonti stesse del Pentagono, citate da almeno due articoli del New York Times. Secondo tali fonti, la recente controffensiva ucraina era stata organizzata nei mesi scorsi in stretto coordinamento con i vertici militari e l’intelligence di Stati Uniti e Regno Unito.
Americani e inglesi hanno fornito informazioni chiave sui posti di comando, i depositi di munizioni ed altri punti nodali dell’infrastruttura militare russa. Washington ha fornito la maggior parte delle armi (per un valore complessivo di oltre 15 miliardi di dollari dall’inizio di quest’anno).
Migliaia di soldati ucraini sono stati addestrati in Gran Bretagna, Germania ed altri paesi. Forze speciali britanniche hanno coordinato le operazioni ucraine verso sud, in direzione della Crimea, e addirittura in territorio russo, oltre il confine, a nordest.
Nello stesso articolo avevo osservato che:
La decisione americana di sbandierare apertamente il proprio ruolo fondamentale nella recente controffensiva ucraina sembra quasi una provocazione nei confronti di Mosca, un pericoloso tentativo di spingere il Cremlino verso un maggior coinvolgimento militare.
Nel suo discorso del 21 settembre, Putin ha spiegato le ragioni della sua decisione di mobilitare 300.000 riservisti nella maniera seguente.
Le truppe dispiegate in numero limitato nella cosiddetta “operazione militare speciale” in Ucraina – circa 150.000 soldati regolari, a cui vanno aggiunti 50.000 uomini fra truppe delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Luhansk ed altri corpi – combattevano ormai su un fronte lungo oltre 1.000 chilometri, non solo contro le forze ucraine “ma contro l’intera macchina bellica dell’Occidente”.
Putin ha affermato che i paesi occidentali si sono spinti troppo in là con le loro politiche anti-russe, e che “alcuni politici occidentali irresponsabili” stanno pianificando l’invio a Kiev di armi offensive a lunga gittata “che potrebbero essere usate per colpire la Crimea ed altre regioni russe”.
“Simili attacchi terroristici, anche con l’uso di armi occidentali, stanno colpendo le aree di confine nelle regioni di Belgorod e Kursk. La Nato sta conducendo ricognizioni nelle regioni meridionali della Russia, in tempo reale e con l’impiego di moderni sistemi aerei, navali, satellitari e con droni strategici”.
Rischio calcolato o avventurismo americano?
E’ interessante confrontare queste affermazioni del presidente russo con un articolo apparso recentemente sul New York Times, secondo il quale gli esperti militari americani stavano valutando la possibilità di inviare missili a lunga gittata Atacms (Army Tactical Missile System) agli ucraini.
Lo stesso articolo affermava che gli strateghi Usa ritenevano di aver applicato con successo fino a quel momento la tattica della “rana bollita”, incrementando progressivamente l’assistenza economica, militare e di intelligence a Kiev senza provocare una rappresaglia su larga scala da parte di Mosca.
Queste informazioni di intelligence avevano permesso all’Ucraina di uccidere generali russi, e di colpire depositi di armi, carri armati e difese aeree russe con missili di precisione, mantenendo limitata la risposta di Mosca.
La tattica statunitense, tuttavia, è divenuta sempre più sfacciata, sia nell’invio di armi che nella rivendicazione del ruolo americano a sostegno delle operazioni dell’esercito di Kiev, al punto di sbandierare apertamente la pianificazione della recente controffensiva ucraina.
Non è del tutto chiaro se gli americani abbiano deciso deliberatamente di provocare Mosca, ma la conseguenza dell’atteggiamento statunitense sempre più sfrontato è stata la mobilitazione parziale dell’esercito annunciata da Putin.
Minacce esistenziali alla Russia?
In un altro passaggio chiave del suo discorso, il presidente russo ha affermato che “Washington, Londra e Bruxelles stanno apertamente incoraggiando Kiev a muovere le ostilità sul nostro territorio. Dicono apertamente che la Russia deve essere sconfitta sul campo di battaglia con ogni mezzo, e quindi privata della sovranità politica, economica e culturale”.
Putin ha poi ammonito che “nel caso di una minaccia all’integrità territoriale del nostro paese, e per difendere la Russia e la nostra gente, certamente faremo uso di tutti i sistemi d’arma che abbiamo a disposizione”, aggiungendo che “questo non è un bluff” (una chiara allusione alla possibilità di ricorrere all’arsenale nucleare).
Anche in questo caso, le tesi di Putin secondo cui la Russia sarebbe direttamente minacciata, che potrebbero apparire eccessive a qualche osservatore occidentale, in realtà trovano riscontro in diverse dichiarazioni di esponenti politici e militari americani.
Un esempio è dato dall’ex comandante delle forze Usa in Europa, Ben Hodges, che, sulla base dei recenti successi militari di Kiev ha ventilato la possibilità di riconquistare la Crimea il prossimo anno.
In un articolo sul Telegraph, intitolato “Preparatevi alla disintegrazione della Russia”, Hodges scrive che stiamo assistendo all’inizio della fine non solo del regime di Putin, “ma della stessa Federazione Russa”.
Hodges è solo un esempio fra tanti. Altri analisti militari parlano della necessità di indebolire la Russia militarmente, economicamente e diplomaticamente.
Commentatori come Anne Applebaum parlano apertamente di cambio di regime a Mosca. Brian Whitmore dell’Atlantic Council ha ipotizzato la “balcanizzazione della Russia”.
A chiedere un rovesciamento di Putin sono stati poi politici di rilievo come il senatore repubblicano Lindsey Graham (che ha testualmente detto: “Facciamo fuori Putin”) e il senatore democratico Joe Manchin.
E lo stesso presidente Biden ha dichiarato più volte nei mesi scorsi che Putin non poteva restare al potere.
Quanto al Consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, egli ha affermato che l’obiettivo strategico degli Stati Uniti in questo conflitto è “assicurare che l’invasione russa dell’Ucraina… sia una fallimento strategico per Putin” e che “la Russia paghi un prezzo di lungo periodo in termini degli elementi della sua potenza nazionale”.
E’ interessante anche l’esistenza di una “roadmap” dell’Atlantic Council, a firma dell’ex ambasciatore americano in Israele Dan Shapiro, per la trasformazione dell’Ucraina secondo il modello israeliano: un paese caratterizzato da una mobilitazione permanente, un bastione della Nato in grado di proiettare la potenza militare americana contro la Russia.
Mosca non può permettersi una sconfitta
Vi sono dunque tutti gli elementi per spingere il Cremlino a ritenere che l’intenzione americana sia quantomeno di sconfiggere la Russia in Ucraina, di ridimensionarla ulteriormente sotto il profilo militare ed economico, e di conservare il controllo su Kiev, impiegando l’Ucraina come un’arma puntata contro Mosca.
Ciò è sufficiente a rafforzare il convincimento dei vertici russi di dover combattere una battaglia esistenziale, dalla quale non si può uscire sconfitti pena la sopravvivenza stessa della Russia come la conosciamo oggi.
Si tratta del resto di ragioni non dissimili da quelle che hanno spinto Mosca a intervenire militarmente in Ucraina a febbraio: la prospettiva che Kiev assoggettasse definitivamente il Donbass con l’aiuto americano, riconquistasse la Crimea, di fatto ponendo fine all’egemonia russa nel Mar Nero e mettendo a rischio l’accesso russo al Mediterraneo, e finisse per ospitare missili americani in grado di raggiungere Mosca in cinque minuti.
La persuasione di essere con le spalle al muro, e di non potersi permettere una sconfitta, spinge inevitabilmente i vertici politici e militari russi a raddoppiare gli sforzi nel conflitto, come del resto era prevedibile fin dallo scoppio di questa guerra.
La decisione della Nato di armare Kiev, invece di puntare su una soluzione negoziata che ruotasse attorno allo status neutrale dell’Ucraina come richiesto da Mosca, portava in sé le premesse per l’attuale escalation.
Metamorfosi del conflitto
La scelta di Putin di annunciare una mobilitazione parziale (300.000 riservisti che hanno già esperienza militare, e che avevano svolto compiti specifici nell’esercito) rappresenta un passaggio intermedio che segna un’escalation graduale.
Tuttavia è innegabile che siamo di fronte ad un salto di qualità nel conflitto. La concomitante decisione di indire referendum nei territori ucraini sotto controllo russo (Luhansk, Donetsk, Zaporizhzhia, Kherson) per l’adesione alla Federazione Russa implica che ogni futuro attacco ucraino a queste regioni potrà essere interpretato da Mosca come un’aggressione contro il territorio russo.
Inoltre, siccome l’Ucraina è ormai sempre più chiaramente uno stato fallito dal punto di vista economico, completamente dipendente dai paesi Nato a livello finanziario e militare, è evidente che lo scontro si sta trasformando, anche de iure, da un conflitto per procura a uno diretto fra Russia e Nato.
Mosca potrà sfruttare questi elementi per decidere un’ulteriore mobilitazione, se lo riterrà necessario, o anche per passare dall’attuale “operazione militare speciale” ad uno stato di guerra aperta attraverso una formale dichiarazione di guerra.
E’ dunque chiaro che ci troviamo di fronte ad un inasprimento dello scontro che, seppur graduale, è pieno di incognite.
E’ peraltro evidente che il conflitto ucraino è solo un teatro di una contrapposizione ben più vasta per la ridefinizione degli equilibri mondiali, come conferma anche la guerra economica che si è sviluppata attorno ad esso.
Un’escalation militare sul terreno, nel contesto della polarizzazione mondiale che ho precedentemente descritto in questo articolo, introduce nuovi elementi di imprevedibilità ponendo il mondo intero su una china molto pericolosa.