Ucraina: la pace impossibile?
Alla luce delle posizioni inconciliabili di Kiev e Mosca, del massimalismo europeo, e della scarsa incisività di Trump, la prospettiva di una risoluzione della guerra ucraina sembra allontanarsi.
I colloqui di Istanbul del 16 maggio, i primi fra Russia e Ucraina da tre anni a questa parte, hanno messo in evidenza tutti gli ostacoli al raggiungimento di un accordo di pace fra Mosca e Kiev.
Ostacoli confermati dalla telefonata fra il presidente americano Donald Trump e il suo omologo russo Vladimir Putin tre giorni dopo.
L’incontro di Istanbul ha pur sempre segnato un passo avanti, se si pensa che ancora tre mesi fa il governo ucraino rifiutava persino l’idea di un dialogo con il Cremlino, ritenendolo illegale, e chiedeva il ritiro russo da tutti i territori dell’Ucraina come precondizione per un negoziato.
Ma lo svolgimento dei colloqui è rimasto incerto fino all’ultimo, e teso nella sua breve durata (meno di due ore).
Come ha lamentato il diplomatico russo Rodion Miroshnik, la delegazione ucraina era composta in gran parte da membri degli apparati militari e dell’intelligence, a conferma del fatto che era giunta a Istanbul solo per negoziare i dettagli di un eventuale cessate il fuoco.
Pochissimi erano i diplomatici e le figure politiche, in grado di discutere gli elementi di una pace duratura. Ma fino all’ultimo il presidente ucraino Volodymyr Zelensky aveva chiesto l’implementazione di un cessate il fuoco di trenta giorni come precondizione per l’inizio di una trattativa.
Richiesta ribadita da Trump nel successivo colloquio telefonico con Putin, sebbene in questo caso egli si sia fatto essenzialmente portavoce di Kiev e dei suoi alleati europei.
Questo è però un presupposto che Mosca ha sempre rifiutato, considerandolo un pretesto di Kiev per riorganizzarsi militarmente, mobilitare nuovi uomini e riarmarsi.
D’altra parte, i paesi occidentali alleati dell’Ucraina a loro volta non hanno mai accettato la richiesta russa di una cessazione delle forniture militari a Kiev come condizione per un cessate il fuoco.
Strategia negoziale russa
I colloqui di Istanbul erano stati resi possibili dalla proposta di Putin di avviare negoziati diretti fra le parti, e poi messi a rischio allorché Zelensky aveva rilanciato chiedendo un incontro diretto fra lui e il presidente russo.
Il leader ucraino si aspettava che Putin avrebbe rifiutato, e intendeva sfruttare tale diniego per sottolineare la presunta indisponibilità russa a negoziare. Insieme a lui, gran parte della stampa occidentale ha definito quella inviata dal Cremlino a Istanbul una “delegazione di basso profilo”, enfatizzando che ciò dimostrerebbe la scarsa serietà dei russi.
Normalmente, però, in un conflitto aspro e complesso come quello ucraino, i leader dei paesi coinvolti si incontrano solo al termine di lunghe e approfondite trattative condotte dai loro diplomatici, i quali hanno il compito di definire la cornice e i dettagli di un possibile accordo.
Indicando Istanbul come sede dei colloqui, l’intento russo appariva invece molto chiaro, quello cioè di ripartire dalle trattative russo-ucraine che si erano svolte nella metropoli turca nel marzo del 2022, quando il conflitto era appena iniziato, e che furono sabotate da inglesi e americani.
Lungi dall’essere una compagine di basso profilo, la delegazione russa era guidata da Vladimir Medinsky, fidato consigliere di Putin, lo stesso che aveva condotto i negoziati del 2022.
Una conferma del fatto che i russi intendevano impostare i nuovi colloqui come diretta prosecuzione di quelli che erano stati sul punto di sfociare in un accordo di pace tre anni fa.
Ex ministro della cultura, Medinsky è uno storico e politologo che ben conosce l’Ucraina e il suo rapporto con la Russia, fra l’altro essendo nato nell’oblast di Cherkasy, a sud di Kiev – altro elemento che denota come la questione russo-ucraina sia ben più intricata della versione che solitamente viene diffusa dai media occidentali.
Condizioni russe per la pace
A Istanbul, Medinsky ha ancora una volta messo in chiaro le condizioni della Russia per il raggiungimento di un accordo:
1) Neutralità dell’Ucraina, con l’impossibilità di schierare nel paese truppe straniere o armi di distruzione di massa;
2) Reciproca rinuncia a qualsiasi richiesta di riparazioni di guerra;
3) Riconoscimento dei diritti degli ucraini russofoni, in accordo con gli standard europei sui diritti delle minoranze;
4) Non opposizione dell’Ucraina alla rivendicazione russa di cinque regioni: Donetsk, Luhansk, Kherson, Zaporizhzhia, e Crimea). Mosca intende ottenere il riconoscimento internazionale dell’annessione russa di queste regioni;
5) Un cessate il fuoco potrà essere raggiunto quando le forze ucraine si ritireranno da queste regioni, consegnandole alla Russia nella loro interezza.
Di fronte alla palese ritrosia ucraina ad accettare simili condizioni, Medinsky avrebbe anche affermato che la Russia “"non vuole la guerra, ma è pronta a combattere per uno, due, tre anni, non importa quanto tempo ci vorrà. Abbiamo combattuto con la Svezia per 21 anni [il riferimento è alla Grande guerra del Nord, protrattasi dal 1700 al 1721]. Quanto a lungo siete pronti a combattere? Forse qualcuno seduto a questo tavolo perderà altre persone care. La Russia è pronta a combattere per sempre".
Il capo negoziatore russo ha inoltre ammonito che se l’Ucraina non accetterà l’accordo e la guerra dovesse proseguire, Kiev finirà per perdere altre quattro regioni (alcuni hanno ipotizzato si tratti di Sumy, Kharkiv, Odessa e Nikolayev; altri hanno inserito Dnepropetrovsk e Chernihiv fra quelle possibili).
Risolvere le cause profonde del conflitto
All’indomani dei colloqui di Istanbul, Putin ha chiarito che Mosca punta a raggiungere una “pace sostenibile e duratura”, ma anche che la Russia ha “sufficiente forza e risorse per portare alla sua logica conclusione ciò che ha iniziato nel 2022”.
Alla vigilia della telefonata fra Trump e Putin, il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha spiegato che Mosca rimane aperta alla possibilità di raggiungere i propri obiettivi per vie pacifiche. Egli ha mostrato apprezzamento per la mediazione americana, osservando che “se essa ci aiuterà a raggiungere i nostri obiettivi con mezzi pacifici, sarebbe certamente preferibile”.
Quali siano tali obiettivi lo ha ribadito Putin per l’ennesima volta all’indomani di tale telefonata, allorché ha dichiarato che “la posizione della Russia è chiara: eliminare le cause profonde di questa crisi è ciò che ci interessa di più”.
Tali “cause profonde” erano già state esposte nella bozza di trattato che Mosca aveva proposto a Washington nel dicembre del 2021 per scongiurare la guerra in Ucraina, e possono essere così riassunte:
1) la continua espansione a Est della NATO; 2) il dispiegamento di forze NATO e basi missilistiche in Romania e Polonia; 3) il rovesciamento illegale del presidente ucraino Viktor Yanukovych nel 2014; 4) la progressiva infiltrazione della NATO in Ucraina, e l’addestramento e il riarmo dell’esercito di Kiev in preparazione di un’adesione del paese all’Alleanza Atlantica; 5) la sproporzionata influenza di gruppi politici e armati di estrema destra e di affiliazione neonazista nei governi insediatisi a Kiev dopo il 2014; 6) la conseguente aggressione alla popolazione etnicamente russa del Donbass; 7) la mancata implementazione degli accordi di Minsk del 2015 che avrebbero garantito i diritti e l’autonomia delle regioni del Donbass, ma anche l’integrità territoriale dell’Ucraina (ad eccezione della Crimea) e la fine del conflitto.
In particolare, è in riferimento ai punti 4) e 5) che Mosca ha sempre indicato la “demilitarizzazione” e “denazificazione” dell’Ucraina come due obiettivi chiave dell’operazione militare russa.
Neutralità dell’Ucraina
Come già accennato, altro obiettivo imprescindibile per Mosca è ristabilire la neutralità dell’Ucraina.
A tal proposito, sarà forse utile ricordare che al raggiungimento dell’indipendenza l’Ucraina si autodefinì come Stato neutrale. Così recita l’articolo IX della Dichiarazione di sovranità statale del 1990, secondo il quale lo Stato ucraino “dichiara solennemente la sua intenzione di diventare uno Stato permanentemente neutrale che non partecipa a blocchi militari”.
Quella promessa fu poi inserita nella costituzione, che impegnava l’Ucraina alla neutralità e le proibiva di aderire a qualsiasi alleanza militare, ovviamente inclusa la NATO.
E’ su questa base che la Russia riconosce la sovranità dell’Ucraina. Come ribadì il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov nel 2023, Mosca “ha riconosciuto la sovranità dell'Ucraina nel 1991, sulla base della Dichiarazione di Indipendenza, adottata dall'Ucraina al momento dell’uscita dall'Unione Sovietica”.
Può anche essere utile ricordare che, perfino dopo la rivolta di Maidan del 2014, secondo un sondaggio condotto dall’americano International Republican Institute (affiliato al partito repubblicano) una netta maggioranza della popolazione ucraina rimaneva contraria a un’adesione del paese alla NATO.
Fu solo nel 2019 che il governo dell’allora presidente Petro Poroshenko emendò la Costituzione per includervi l’obiettivo di aderire all’Alleanza Atlantica, senza ricorrere a un referendum popolare.
Ed è proprio il ripristino della neutralità dell’Ucraina (e la conseguente fine della guerra appena iniziata) che stava per essere raggiunto durante i negoziati di Istanbul del 2022 quando essi furono boicottati dall’intervento anglo-americano.
E’ però evidente che la prosecuzione del conflitto è andata (e continuerà ad andare) a scapito di Kiev, che è destinata a perdere una porzione di territorio maggiore rispetto al 2022, ed ancor più rispetto a quanto previsto negli accordi di Minsk del 2015.
Dovrebbe dunque essere interesse del governo ucraino porre fine alle ostilità il prima possibile, sebbene a condizioni più svantaggiose di quelle che avrebbe ottenuto in passato.
Valore strategico della penisola di Kinburn
Rispetto alle condizioni avanzate da Mosca, la proposta negoziale americana, presentata dall’inviato presidenziale Steve Witkoff ai partner europei a Parigi lo scorso aprile, cerca di limitare i danni per l’Ucraina.
Essa propone il riconoscimento giuridico dell’annessione russa della Crimea da parte americana, e il riconoscimento di fatto dell’annessione della regione di Luhansk e delle regioni di Donetsk, Zaporizhzhia e Kherson (ma solo delle porzioni attualmente controllate dalla Russia, dunque non nella loro interezza).
La proposta USA prevede inoltre che l’Ucraina riacquisisca la sovranità sulla centrale nucleare di Zaporizhzhia, seppur delegandone il controllo agli Stati Uniti i quali dividerebbero la produzione elettrica della centrale fra la parte ucraina e quella russa.
Un aspetto meno noto della bozza americana è che essa richiede alla Russia di permettere alle imbarcazioni ucraine il libero transito del fiume Dnieper, e di riconsegnare a Kiev la penisola di Kinburn, un’esile lingua di terra che separa l’estuario del fiume Dnieper dal Mar Nero.

In termini navali, la penisola di Kinburn costituisce un chokepoint, un passaggio obbligato di importanza strategica attraverso cui transita un’elevata quantità di traffico marittimo.
Chiunque controlla questa penisola determina quali navi possono accedere al Dnieper, la più grande via d’acqua dell’Ucraina e il suo principale sbocco commerciale sul Mar Nero.
Di fronte all’estremità occidentale della penisola di Kinburn si trova il porto di Ochakiv, mentre a nord e a est si trovano i porti di Mykolaiv e Kherson.
Il traffico navale proveniente da questi porti è potenzialmente sotto il tiro dell’artiglieria russa. Per altro verso, tale penisola è una potenziale porta di accesso alla Crimea, situata a sudest.
Per queste ragioni la penisola di Kinburn è stata storicamente una lingua di terra sempre ambita. Ed è stata aspramente contesa durante l’attuale conflitto.
Appare alquanto improbabile che i russi cedano all’Ucraina un lembo di terra così strategico, soprattutto qualora a Kiev dovesse rimanere un governo ostile a Mosca.
L’ostacolo delle forze nazionaliste ucraine
Sebbene la proposta americana escluda esplicitamente un’adesione dell’Ucraina alla NATO, essa prevede però “robuste garanzie di sicurezza” per il paese, e che fra i garanti figurino paesi europei.
La condizione non viene ulteriormente specificata, lasciando aperta la possibilità che i paesi europei non solo forniscano assistenza militare a Kiev nel caso di un nuovo conflitto armato con la Russia, ma continuino ad armare il paese anche in tempo di pace. Un’eventualità inaccettabile per Mosca.
La possibilità che a Kiev rimanga l’attuale governo, inoltre, contravviene in linea di principio al già citato obiettivo russo di “denazificazione” dell’Ucraina, ovvero di un’Ucraina che sia non soltanto nominalmente neutrale ma concretamente non ostile a Mosca.
Al di là delle preferenze russe, la permanenza di fazioni nazionaliste di estrema destra in posizioni di potere nel governo ucraino mette a rischio il successo del negoziato anche sulla base della proposta americana.
Esse sono infatti contrarie a qualsiasi concessione territoriale ed a qualsiasi riconciliazione con Mosca. Data la loro influenza nel governo e negli apparati militari e di intelligence, Zelensky è di fatto ostaggio di queste forze.
Già in passato, sia lui che il suo predecessore Poroshenko abbandonarono gli sforzi di implementare gli accordi di Minsk a causa delle pressioni e minacce provenienti da questi gruppi.
Essi si considerano i guardiani dell’interesse nazionale ucraino, e sono pronti a “prendere in mano la situazione” qualora dovessero percepire il governo come debole o “traditore”.
Se Zelensky dovesse propendere per un compromesso negoziale, perfino sulla base della proposta USA (non necessariamente accettabile per i russi, come abbiamo visto), le forze nazionaliste potrebbero decidere di rovesciare il governo gettando il paese nel caos.
Difficile dunque pensare a una soluzione negoziata senza il previo smantellamento di queste forze all’interno degli apparati di sicurezza e del governo di Kiev, un’operazione forse attuabile solo con mezzi militari (e certamente questa potrebbe essere la persuasione di Mosca).
Le posizioni intransigenti di queste forze finora hanno trovato riflesso nell’atteggiamento dell’esecutivo guidato da Zelensky, che infatti si è detto contrario alla proposta americana.
Massimalismo europeo
L’Ucraina ha perciò presentato una controproposta negoziale che prevede un cessate il fuoco senza condizioni prima dell’inizio di qualsiasi trattativa, “robuste garanzie di sicurezza a Kiev anche da parte degli USA” (di fatto una misura equivalente all’articolo 5 della NATO, sebbene l’Ucraina rinunci all’adesione formale all’Alleanza), nessuna restrizione alle forze armate ucraine ed alla presenza di armi e truppe di paesi alleati sul territorio ucraino.
Una proposta sotto ogni profilo inaccettabile per Mosca, prima ancora di entrare nel merito delle dispute territoriali, proprio perché prefigura quello scenario per scongiurare il quale la Russia ha iniziato la guerra.
Sulla base di una simile proposta, le posizioni di Kiev e Mosca appaiono del tutto inconciliabili. Ma l’aspetto forse più rilevante è che tale proposta è stata appoggiata dagli alleati europei dell’Ucraina, in primo luogo Francia, Gran Bretagna e Germania.
Questi stessi paesi, insieme alla Polonia, hanno reagito duramente all’esito dei colloqui tenutisi il 16 maggio a Istanbul, definendo “inaccettabile” il rifiuto russo di un cessate il fuoco senza condizioni, ed esortando Trump ad imporre nuove sanzioni alla Russia.
Fin dall’elezione di Trump, i partner europei dell’Ucraina hanno puntato, insieme all’UE, a sabotare ogni trattativa, hanno incoraggiato Zelensky a mantenere posizioni intransigenti, proposto di inviare truppe europee in Ucraina (come forza di peacekeeping o di “rassicurazione”, sebbene essi siano evidentemente parti cobelligeranti nel conflitto), ed imposto ulteriori pacchetti di sanzioni alla Russia, l’ultimo dei quali all’indomani della telefonata fra Trump e Putin del 19 maggio.
Scarsa incisività di Trump
Il presidente americano, dal canto suo, deve fare i conti con gli esponenti russofobi presenti all’interno della sua stessa amministrazione, primi fra tutti il suo inviato, ed ex generale, Keith Kellogg ed il segretario di Stato Marco Rubio.
Fino a questo momento Trump si è dimostrato restio a impiegare strumenti reali di pressione su Zelensky, come la sospensione dell’invio di armi o dell’indispensabile assistenza d’intelligence da parte americana.
Dopo la telefonata con Putin, Trump ha ventilato la possibilità che il Vaticano subentri come mediatore fra Mosca e Kiev, lasciando presagire un possibile disimpegno di Washington dalle trattative, sebbene gli Stati Uniti rimangano coinvolti nel conflitto a livello militare.
Dal canto suo, Mosca, anche attraverso la nomina di un nuovo comandante delle forze russe di terra, il generale Andrey Mordvichev distintosi nel sanguinoso assedio di Mariupol del 2022, ha fatto capire di essere pronta a puntare sulla soluzione militare qualora non vengano affrontate le ragioni che hanno provocato il conflitto.
La poco allettante prospettiva di un fragile cessate il fuoco, durante il quale Kiev avrebbe modo di riorganizzarsi e riarmarsi, e di un conflitto congelato in grado di riesplodere in qualsiasi momento, non è certo l’obiettivo a cui il Cremlino aveva puntato quando aveva iniziato la campagna militare in Ucraina.
Tutto considerato, dunque, la prospettiva di una risoluzione della guerra ucraina sembra tragicamente allontanarsi, e probabilmente non è mai stata a portata di mano malgrado le pretenziose dichiarazioni rilasciate da Trump all’inizio del suo mandato.
Chi c'è dietro queste scelte a dir poco scellerate? Quali interessi sono in gioco? Gli ultra nazionalisti sono solo gli "utili idioti '