Russia e Cina: breve storia di un’insolita alleanza che potrebbe cambiare il mondo
Le tappe fondamentali di un rapporto complesso, a volte problematico, trasformatosi in una partnership strategica sotto lo sguardo incredulo degli analisti occidentali.
Malgrado le grandi differenze storiche e culturali, Mosca e Pechino si sono progressivamente avvicinate negli ultimi anni, finendo per consolidare un’unione che, seppur non dichiarata, appare più salda di molte delle alleanze ufficiali che possono vantare gli Stati Uniti.
Un’unione cementata dal rapporto di fiducia personale fra il presidente cinese Xi Jinping e quello russo Putin, anch’esso rafforzatosi progressivamente negli anni fino a divenire legame di amicizia, suggellato dalla visita di tre giorni del leader asiatico a Mosca la scorsa settimana.
Potrebbe dunque materializzarsi quello che fu l’incubo di tanti strateghi occidentali, da Mackinder a Brzezinski, il consolidarsi di un’alleanza in grado di controllare il cosiddetto Heartland eurasiatico, la regione dal Volga allo Yangtze cruciale per il dominio di quella che Mackinder (considerato il fondatore della geopolitica) definì l’isola-mondo: la combinazione della massa eurasiatica e del continente africano, la più vasta, ricca e popolosa estensione continentale del globo terrestre.
Nella sua celebre opera The Grand Chessboard, Brzezinski aveva teorizzato che gli USA avrebbero dovuto impedire l’emergere di uno “sfidante” eurasiatico in grado di dominare l’isola-mondo, perché esso avrebbe minacciato l’egemonia globale degli Stati Uniti.
Nel libro, che risale al 1997, Brzezinski scriveva che
Potenzialmente, lo scenario più pericoloso sarebbe una grande coalizione di Cina, Russia, e forse Iran, una coalizione “anti-egemonica” unita non dall'ideologia ma da rivendicazioni complementari. Essa ricorderebbe, per dimensioni e portata, la sfida posta un tempo dal blocco sino-sovietico, anche se questa volta probabilmente sarebbe la Cina il leader, e la Russia il seguace. Scongiurare questa eventualità, per quanto remota possa essere, richiederà una dimostrazione dell'abilità geostrategica degli Stati Uniti sui perimetri occidentale, orientale e meridionale dell'Eurasia contemporaneamente.
Quella che lo stratega americano di origini polacche riteneva allora una possibilità “remota” appare ancora oggi difficile da credere a molti osservatori occidentali, che negli ultimi anni hanno continuato a descrivere con scetticismo il fiorire dei rapporti fra Russia e Cina.
Mosca e Pechino hanno stretto alcune alleanze nel corso della storia, risoltesi però in contrasti e rivalità.
La Russia verso il Pacifico
Trovandosi in competizione con le potenze imperialiste occidentali, durante il cosiddetto “secolo di umiliazione” della Cina, la Russia finì per espandere la propria influenza in Estremo Oriente a scapito di Pechino, malgrado l’iniziale rapporto di alleanza fra i due paesi.
Al termine della Seconda Guerra dell’Oppio (1860), durante la quale la Cina si trovò ad affrontare una spedizione anglo-francese, Pechino alla fine cedette un milione e mezzo di chilometri quadrati all’impero zarista, inclusa la riva sinistra del fiume Amur e un’area di territorio non ghiacciato sulla costa del Pacifico, dove i russi costruirono il porto di Vladivostok.
La Cina perse così la Manciuria esterna e l’accesso al Mar del Giappone.
Dopo la prima guerra sino-giapponese, nella quale Mosca aveva svolto un ruolo di mediazione a favore della Cina, nel 1896 i due paesi firmarono un trattato segreto di alleanza contro una possibile aggressione giapponese.
Pechino consentì alla Russia di costruire la Ferrovia Cinese Orientale in direzione di Vladivostok, cosa che permise a Mosca di estendere la propria influenza nella Cina nordorientale a causa dell’estrema debolezza cinese.
Seppure inizialmente con riluttanza, Mosca finì per prendere parte, sempre in competizione con le potenze occidentali, alla repressione della cosiddetta rivolta dei Boxer fra il 1899 e il 1901.
L’era comunista, fra amicizia e rivalità
I rapporti migliorarono con la nascita dell’Unione Sovietica. Joseph Stalin fornì aiuti vitali ai ribelli comunisti di Mao Zedong. Dopo la fondazione della Repubblica Popolare Cinese nell'ottobre 1949, il Partito comunista al governo si affrettò a stabilire legami ufficiali con L’URSS.
Mao generalmente accettò la supremazia di Stalin, e nei primi anni ’50 i due paesi ebbero saldi rapporti fondati sul Trattato Sino-Sovietico di Amicizia, Alleanza e Mutua Assistenza, un accordo bilaterale che favorì la cooperazione economica, militare e tecnologica.
Stalin tuttavia morì nel 1953, e le politiche di destalinizzazione di Nikita Krusciov portarono a dispute ideologiche su quale dei due governi offrisse la visione più pura di marxismo-leninismo.
Mao criticò la disponibilità di Mosca ad accettare una “pacifica coesistenza” con l’Occidente. La leadership sovietica era preoccupata dalle misure militari adottate da Mao nei confronti del governo nazionalista di Taiwan.
Il Partito comunista cinese cominciò a definire i leader sovietici “traditori revisionisti”. I due paesi iniziarono a lottare fra loro per assicurarsi la fedeltà delle altre nazioni comuniste.
Mosca appoggiò l’India contro la Cina, mentre quest’ultima criticò la decisione sovietica di scendere a patti sui missili di Cuba.
Nel 1966 Pechino sollevò la questione degli “ingiusti” trattati imposti alla Cina dall’impero zarista. Una guerra di confine scoppiò tre anni dopo. Le vittime furono modeste e il conflitto cessò rapidamente, ma la disputa rimase irrisolta per oltre vent’anni.
Nixon apre alla Cina
Le tensioni sino-sovietiche si protrassero per decenni, estendendosi dall’Africa, al Vietnam e all’Afghanistan. E gli Stati Uniti seppero sfruttare questa rivalità.
Quando Nixon diventò presidente nel 1969, insieme al suo Consigliere per la Sicurezza Nazionale Henry Kissinger cercò di stabilire una relazione con la Cina comunista per allontanarla ulteriormente dall’Unione Sovietica, considerata in quel momento il maggior avversario di Washington.
Il presidente americano inviò Kissinger a Pechino per una serie di incontri segreti di cui quasi nessuno nell’amministrazione era a conoscenza. Questi incontri portarono alla storica visita di Nixon in Cina nel 1972, al riconoscimento di Pechino (piuttosto che Taipei) come capitale cinese, ed alla nascita di un rapporto di cooperazione non facile ma crescente in diversi settori.
I rapporti diplomatici ufficiali furono allacciati solo nel 1979 sotto il presidente Jimmy Carter, ma già negli anni precedenti USA e Cina intensificarono contatti e scambi commerciali. Sebbene i due paesi fossero tutt’altro che alleati, Washington riuscì ad impedire la rinascita di una coalizione sino-sovietica assicurando l’incontrastata egemonia americana.
Distensione
Le tensioni fra Mosca e Pechino cominciarono ad allentarsi verso la fine della Guerra Fredda. Sotto Deng Xiaoping, la Cina iniziò a perseguire una politica estera più pragmatica, che portò al Vertice Sino-Sovietico del 1989, in occasione del quale il presidente sovietico Mikhail Gorbaciov si recò in visita a Pechino.
La normalizzazione dei rapporti favorì la visita del leader cinese Jiang Zemin a Mosca due anni dopo, in occasione della quale furono poste le basi per la soluzione dell’annosa disputa sui confini.
Questi sviluppi portarono ad elevare il rapporto fra i due paesi al livello di “partnership di coordinamento strategico” nel 1996, una sorta di partenariato fra paesi vicini, che non aveva tuttavia le caratteristiche di un’alleanza.
La distensione delle relazioni fra Russia e Cina, conseguenza della fine della Guerra Fredda, non faceva presagire in alcun modo la futura convergenza senza precedenti tra i due paesi.
Mosca guarda a ovest
La Russia rimaneva una potenza europea, che inseguiva una prospettiva di integrazione con l’Occidente. Nelle dichiarazioni bilaterali di Mosca e Washington dei primi anni ’90, la presidenza Eltsin sottoscriveva la visione americana di una “pace duratura” fondata sui valori comuni della democrazia e della libertà dell’economia di mercato (Dichiarazione di Camp David del 1992).
Ma soprattutto, Mosca riteneva che Stati Uniti e Russia fossero investiti della speciale responsabilità di mantenere la pace e la sicurezza internazionale in qualità di membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (Carta di Amicizia del 1992, Dichiarazione di Vancouver del 1993), divenendo così due pilastri del nuovo ordine mondiale.
Mosca credeva anche alla creazione di un’architettura di sicurezza comune in Europa, che sarebbe stata “inclusiva e non discriminatoria” (Dichiarazione di Mosca del 1994). Il Cremlino ottenne l’ingresso nel Consiglio d’Europa (1996) e nel G7 (1997). E puntò perfino all’ingresso nella NATO e nell’UE.
A Mosca, tuttavia, l’Occidente offrì un rapporto di partnership, ma non su basi di eguaglianza. In Russia, la riconversione del modello produttivo e l’avvento del libero mercato, sulla base delle ricette del Fondo Monetario Internazionale (FMI), si tradussero in una catastrofe economica e sociale, che garantì enormi ricchezze a pochi e un’abissale miseria alla maggioranza, oltre alla generale subordinazione del paese al potere economico occidentale.
Pechino come pilastro della globalizzazione americana
Dal canto suo, la Cina era sempre più integrata nella globalizzazione fondata sul modello neoliberista di Washington. Essa forniva prodotti a basso costo ai consumatori statunitensi, mentre la domanda americana favoriva la crescita cinese basata sulle esportazioni.
Aderendo al WTO nel 2001, Pechino divenne un membro a tutti gli effetti dell’ordine mondiale a guida USA. Da quel momento, per gli Stati Uniti l’elemento chiave nei rapporti con la Cina divenne la capacità di plasmare il comportamento cinese all’interno del sistema internazionale, in modo che esso rimanesse in linea con gli interessi americani.
In un discorso del 2005, l’allora vicesegretario di Stato Robert Zoellick (poi divenuto presidente della Banca Mondiale) usò l’espressione “responsible stakeholder” per descrivere il modo in cui Pechino avrebbe dovuto impiegare la sua crescente influenza. Tale espressione sottintendeva l’aspettativa che la Cina divenisse un difensore dello status quo contraddistinto dall’egemonia statunitense.
Strapotere USA
Nel frattempo Mosca e Pechino dovettero assistere, con sconcerto e crescente preoccupazione, alle guerre USA degli anni ’90 e poi del nuovo millennio, dalla prima guerra del Golfo a quelle nei Balcani (incluso il bombardamento “accidentale” dell’ambasciata cinese a Belgrado nel 1999), all’invasione dell’Iraq nel 2003, alle “rivoluzioni colorate” che portarono a cambi di governo in Georgia, Ucraina e Kirghizistan fra il 2003 e il 2005. Mosca assistette impotente all’espansione della NATO che portò l’Alleanza a ridosso dei confini russi.
La Cina, dal canto suo, non ha mai accettato la versione americana secondo cui il bombardamento della sua ambasciata in Serbia fu un errore. Anche dopo l’ascesa al potere di Xi Jinping, i media cinesi hanno continuato a sostenere che si è trattato di un’azione deliberata.
Ma già la guerra del Golfo nel 1991 aveva rappresentato un momento di svolta per gli strateghi cinesi. L’impressionante dispiegamento di forze e di armi tecnologicamente avanzate da parte americana aveva convinto Pechino della necessità di avviare con urgenza un programma di ammodernamento delle proprie forze armate e una radicale trasformazione della propria forza navale.
Un primo episodio che lasciava presagire le future tensioni fra USA e Cina si verificò nell’aprile 2001, quando un aereo spia americano entrò in collisione con un caccia cinese che lo aveva intercettato vicino all’isola di Hainan.
L’aereo statunitense fu costretto a un atterraggio d’emergenza all’aeroporto dell’isola, dove l’equipaggio fu tenuto in stato di fermo per undici giorni dalle autorità cinesi.
Poco dopo la liberazione del personale americano, l’allora presidente George W. Bush autorizzò la più imponente vendita di armi a Taiwan da quando suo padre aveva deciso di vendere all’isola aerei F-16 nel 1992.
2008: crisi del modello statunitense
Ma a mettere in crisi il rapporto di complementarietà fra USA e Cina non sarebbero state tensioni di natura militare, bensì economica. A seguito della crisi finanziaria del 2008, infatti, i dirigenti cinesi cominciarono a considerare il rapporto di interdipendenza con gli Stati Uniti non come un vantaggio, ma come un rischio da gestire e contenere.
Pechino iniziò a chiedere con crescente insistenza una ridefinizione dei rapporti di forza all’interno delle principali istituzioni finanziarie internazionali, a partire dall’FMI. All’inizio del 2009, Zhou Xiaochuan, governatore della banca centrale cinese, invocò la ridefinizione delle regole di Bretton Woods ventilando l’ipotesi che il dollaro venisse rimpiazzato come valuta di riserva internazionale.
Di fronte alla riluttanza di Washington ad accogliere le richieste cinesi, Pechino avrebbe successivamente iniziato a costruire un proprio sistema alternativo di istituzioni internazionali.
Dalla Belt and Road Initiative (la cosiddetta “nuova Via della Seta”), un gigantesco progetto di integrazione infrastrutturale dell’Eurasia, all’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), vista da alcuni come un’alternativa alla Banca Mondiale, la Cina avrebbe cominciato a promuovere un sistema parallelo all’ordine internazionale guidato dagli Stati Uniti.
Prime teorizzazioni di un assetto multipolare
Ma i germi di una rafforzata collaborazione con la Russia per la costruzione di un mondo multipolare risalgono a più di dieci anni prima allorché, insieme ai colleghi russi che avevano già vissuto le prime cocenti delusioni per mano dell’Occidente, i responsabili cinesi formularono la “Russian-Chinese Joint Declaration on a Multipolar World and the Establishment of a New International Order” nel 1997.
Un altro passo di avvicinamento fu la creazione, nel 2001, della Shanghai Cooperation Organization (SCO), uno strumento per coordinare gli interessi di sicurezza di Cina e Russia in Asia Centrale.
Per Pechino la SCO forniva una chiave d’accesso allo spazio post-sovietico, dove altri organismi internazionali erano ancora dominati dalla Russia. L’Asia Centrale era importante per la Cina sia perché confinava con la regione cinese autonoma (ed instabile) dello Xinjiang, sia perché Pechino era preoccupata per il conflitto afghano e per il dispiegamento di infrastrutture militari americane in Uzbekistan e Kirghizistan.
Essendo divenuti importatori netti di idrocarburi, i cinesi erano anche interessati ad assicurarsi direttrici terrestri per il trasporto di gas e petrolio attraverso l’Asia Centrale. Dal canto suo, Mosca non era contraria alla costruzione di gasdotti e oleodotti che dalla regione raggiungessero la Cina, poiché ciò avrebbe ridotto il desiderio dei paesi centroasiatici di cercare rotte energetiche verso l’Europa che bypassassero la Russia.
Se ancora nel 2010 il presidente russo Putin avanzava l’idea di una “grande Europa da Lisbona a Vladivostok”, in realtà dopo la crisi del 2008 il riavvicinamento fra Mosca e Pechino, e il raffreddamento dei rapporti con l’Occidente, registrarono un’accelerazione.
Le rivolte arabe del 2011, ed in particolare i conflitti in Libia e Siria che ne derivarono, consolidarono il coordinamento fra Mosca e Pechino al Consiglio di Sicurezza dell’ONU in opposizione all’interventismo “per procura” degli Stati Uniti in entrami i teatri di guerra.
Obama e il “pivot verso l’Asia”
Ma sono due gli eventi chiave che, durante la presidenza Obama, hanno ulteriormente antagonizzato sia Pechino che Mosca.
Il primo fu il cosiddetto “pivot verso l’Asia” – cioè il ribilanciamento americano verso il continente asiatico e il Pacifico – annunciato da Obama alla fine del 2011. Esso prevedeva lo spostamento del baricentro militare statunitense verso il Pacifico, e la creazione di due enormi aree di libero scambio – la Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) fra Europa e Nord America, e la Trans-Pacific Partnership (TPP) tra il continente americano e l’Estremo Oriente asiatico – che avrebbero dovuto isolare Cina e Russia.
Il progetto, poi fallito nella sua dimensione economica, rappresentò un serio campanello d’allarme in primo luogo per Pechino. Quest’ultima, non a caso, due anni dopo annunciò la già citata Belt and Road Initiative, il proprio piano di integrazione eurasiatica finalizzato, in particolare nella sua componente terrestre, a rompere l’assedio marittimo di Washington.
Isolata dall’Europa, Mosca si volge a oriente
Il secondo evento chiave fu la rivolta di Maidan, sostenuta da Washington, che portò al rovesciamento del presidente ucraino Viktor Yanukovych nel 2014. L’imposizione di sanzioni a Mosca per la sua conseguente annessione della Crimea spinse ancor di più il Cremlino a guardare verso la Cina e l’Asia.
L’iniziale reazione cinese fu cauta: Pechino approfittò del gas a basso costo offerto da Mosca, ma cercò di non esacerbare il già difficile rapporto con Washington alleandosi apertamente con un paese con cui l’Occidente stava tagliando i ponti.
La decisione americana di isolare contemporaneamente sia Cina che Russia avrebbe reso tuttavia la loro convergenza inevitabile. Momento emblematico di questa deriva furono le celebrazioni del settantesimo anniversario della vittoria sul nazismo nella seconda guerra mondiale, il 9 maggio 2015.
Alla parata commemorativa sulla Piazza Rossa, profondamente sentita in Russia a causa dell’enorme tributo pagato dal paese in termini di vite umane nella guerra più distruttiva della storia, nel palco d’onore accanto a Vladimir Putin vi era il presidente cinese Xi Jinping.
Spiccava in maniera stridente l’assenza dei leader occidentali, che avevano boicottato l’evento dopo aver presenziato in massa le celebrazioni di cinque anni prima.
Il loro rifiuto di prendere parte alla commemorazione di un momento così significativo per la storia dell’Europa e del mondo era una vivida manifestazione delle drammatiche divisioni che laceravano la comunità internazionale.
Rafforzamento degli scambi commerciali
Malgrado lo scetticismo degli osservatori occidentali, negli ultimi anni i legami economici fra Mosca e Pechino hanno continuato a rafforzarsi. La Cina era, già prima dell’invasione dell’Ucraina, il principale partner commerciale della Russia, ed il primo acquirente del petrolio e del gas di Mosca.
Pechino ha offerto un aiuto vitale all’economia russa, acquistando tutto ciò che l'Occidente non voleva, e aiutando Mosca a mantenere l'accesso ai mercati finanziari malgrado le dure sanzioni occidentali.
Lo scorso anno, le importazioni cinesi di idrocarburi russi sono cresciute del 50% rispetto al 2021, mentre gli scambi bilaterali hanno toccato livelli record. Lo scorso mese, per la prima volta lo yuan ha spodestato il dollaro come valuta maggiormente scambiata alla Borsa di Mosca, costituendo oltre il 40% degli scambi totali.
E malgrado le sanzioni volte a privare la Russia dei prodotti ad elevato contenuto tecnologico, le esportazioni cinesi di microchip verso il vicino russo sono raddoppiate nel 2022.
Alleanza eurasiatica
Già dieci anni prima, nel 2012, Putin aveva scritto che “la Russia è da tempo parte integrante della regione dell’Asia-Pacifico”, aggiungendo che “consideriamo questa regione dinamica come il più importante fattore per un futuro di successo dell’intero paese”.
Quello stesso anno, Putin fu il primo a ricevere la visita del neoeletto presidente cinese Xi Jinping.
Da qualche anno ormai, la Russia non guarda più a occidente, ma verso oriente, una novità assoluta nella sua storia.
Mosca e Pechino hanno avuto rapporti non sempre facili e amichevoli, non hanno interessi esclusivamente coincidenti, ma sono accomunate dall’ostilità di Washington nei confronti di entrambe, dispongono di due economie che si completano a vicenda, e sono guidate da due leader probabilmente destinati a governare ancora a lungo.
Entrambi sono intenzionati a forgiare una rapporto di amicizia ed alleanza fra i due paesi che, come aveva profetizzato Brzezinski, ha le potenzialità per cambiare gli equilibri mondiali.
Complimenti per l'eccellente articolo sulla convergenza Cina Russia. Grazie all'abilita' di Blinken a fine anno si potra' parlare della convergenza fra Russia e India, che cerchera' di risolvere I suoi conflitti con Pechino. Chiaramente gli USA sono una forza per la pace...
L'Europa - e soprattutto l'Italia - sta perdendo una grande occasione.