Gli USA stanno cercando di trasformare la Georgia in una “piccola Ucraina”?
Una breve storia del paese caucasico, fino alle recenti proteste e alle voci di un secondo fronte contro la Russia.
Le proteste a Tbilisi, e in altre città della Georgia, contro una bozza di legge che richiedeva alle ONG del paese che ricevono più del 20% dei propri finanziamenti dall’estero di registrarsi come “agenti stranieri”, hanno aggravato le divisioni nella società e nella sfera politica georgiana.
Mentre i detrattori della bozza hanno affermato che essa si richiamava ad un’analoga legge russa volta a mettere il bavaglio alle ONG, il governo ha sostenuto che si trattava di una mera misura di trasparenza non dissimile dal Foreign Agent Registration Act (FARA) in vigore in America, e da legislazioni analoghe in altri paesi occidentali.
“I cittadini georgiani hanno il diritto di sapere quali interessi acquisiti e che tipo di finanziamenti stanno dietro alle entità che partecipano alla formulazione e all'assunzione di decisioni politiche”, aveva affermato il presidente del parlamento Shalva Papuashvili.
Sventolando bandiere dell’Ucraina e dell’Unione Europea, oltre a quelle georgiane, i manifestanti hanno però voluto ribadire, al di là della loro opposizione alla legge, la loro preferenza per il processo di integrazione europea, del resto condivisa dalla maggioranza della società e da molti partiti politici, e la loro avversione per la Russia.
Il partito di governo, Sogno Georgiano, ed il primo ministro Irakli Garibashvili, pur mantenendo il generale orientamento filo-occidentale del paese, hanno da tempo adottato un atteggiamento pragmatico nei confronti della Russia, lontano da quello russofobo del predecessore Mikhail Saakashvili, beniamino dell’amministrazione Bush ora in carcere per abuso di potere.
Questo approccio, dettato dalla realtà storico-geografica della Georgia, e dall’esigenza di avere buoni rapporti con un vicino da cui Tbilisi in gran parte dipende economicamente, ha però attirato sul governo le critiche di molti rappresentanti di Washington, che lo hanno accusato di voler allontanare il paese dall’Occidente.
Accuse moltiplicatesi dopo lo scoppio delle proteste, allorché il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price ha dichiarato che “chiunque voti questa bozza di legge sarà responsabile di mettere a rischio il futuro euro-atlantico della Georgia”.
Dal canto suo, Samantha Power, attuale responsabile dell’USAID (United States Agency for International Development) che fin dal 1992 finanzia numerose ONG georgiane, ha affermato che la citata proposta di legge “minaccia gravemente il futuro euro-atlantico della Georgia e la capacità dei georgiani di realizzare le loro aspirazioni economiche e sociali”.
Dello stesso tenore le dichiarazioni del vicesegretario di Stato Todd Robinson, questa volta direttamente da Tbilisi: “Ovviamente, questa è una legge basata sugli interessi della Russia, non sugli interessi della Georgia. Pensiamo che sia nell'interesse della Georgia lavorare più diligentemente nella direzione dell'integrazione euro-atlantica, questa legge non lo fa”.
Simili affermazioni hanno ulteriormente esacerbato un clima divenuto sempre più teso nel paese dopo lo scoppio del conflitto ucraino. Un clima nel quale, già qualche mese fa, il partito di governo aveva insinuato che “alcune forze” vicine al Movimento Nazionale Unito di Saakashvili, in Ucraina e in Occidente, erano impegnate in macchinazioni volte a spingere la Georgia ad aprire un secondo fronte contro la Russia.
Dopo che la legge è stata bloccata in parlamento, il 10 marzo, il premier Garibashvili ha ribadito queste accuse, affermando in particolare che Kiev aveva giocato un ruolo nelle proteste: “Come spiegare altrimenti che il presidente ucraino Zelensky, mentre il suo paese è in guerra, trova il tempo per rivolgere un appello a diverse migliaia di partecipanti ad un’azione distruttiva in Georgia?” (un riferimento ai manifestanti ed agli scontri occorsi con le forze di polizia).
L’influenza delle ONG finanziate dall’Occidente
L’opposizione di Washington alla bozza di legge non deve sorprendere. Migliaia di ONG, mezzi di informazione e gruppi per i diritti umani in Georgia hanno ricevuto fondi dal National Endowment for Democracy (NED) e dall’USAID negli ultimi trent’anni.
Tra i finanziatori figurano anche la Open Society Foundations del magnate americano di origini ungheresi George Soros, l’European Endowment for Democracy, e numerose ambasciate occidentali.
In Ucraina, NED e USAID giocarono un ruolo di primo piano nel sostegno e nel finanziamento dei movimenti che portarono alle proteste di Maidan 2014 e al rovesciamento del presidente Viktor Yanukovych.
Molti dei gruppi georgiani finanziati da NED e USAID – fra cui il movimento “Vergogna” (Shame Movement), uno dei principali – erano in prima linea nelle proteste delle scorse settimane.
L’opposizione alla legge sulle ONG, e la richiesta di un’accelerazione del processo di integrazione euro-atlantica nel paese, non erano però gli unici temi a cuore dei manifestanti. Vi era anche un elemento nazionalistico. Lo si è compreso quando dai cortei si è levata l’invocazione “Sokhumi, Sokhumi”, nome della capitale della regione separatista dell’Abkhazia.
Forse è questa una delle ragioni per cui i manifestanti hanno promesso di proseguire la protesta, sebbene la proposta di legge sia stata ritirata. Il nazionalismo, elemento che spesso spiega le dinamiche nei paesi ex sovietici più della ricerca della democrazia, nel caso della Georgia è inestricabilmente legato ai due territori autonomi dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud.
Nazionalismo e separatismo: un complesso retroterra storico
A tale questione, naturalmente, si lega la particolare posizione geografica della Georgia, a cavallo fra Europa ed Asia. Originariamente un piccolo regno schiacciato fra l’area d’influenza turca, quella persiana e quella russa, la Georgia, che adottò il cristianesimo a partire dal IV secolo, cercò spesso alleati in Occidente, più volte in Francia, dai tempi di Luigi IV a quelli di Napoleone.
Nel paese, le tensioni etniche precedono il dominio sovietico, il quale ebbe anzi il merito di contenerle. L’Ossezia del Sud, a cui ci si riferisce spesso semplicemente come alla regione di Tskhinvali, dal nome della sua capitale, è abitata da una popolazione, gli osseti, che parla una lingua legata al persiano.
La maggioranza degli osseti vive nella repubblica autonoma dell’Ossezia del Nord, che è parte della Federazione Russa, e il desiderio di unificazione fra le due regioni è stata una delle ragioni principali alla base del movimento separatista dell’Ossezia del Sud (la quale però include anche una minoranza georgiana).
La concessione di una forma di autonomia all’interno della Georgia fu un compromesso sovietico, che tuttavia ebbe successo solo fino a quando sopravvisse l’URSS. Il nazionalismo osseto emerse in risposta al movimento indipendentista georgiano (che a sua volta aveva una forte componente nazionalista), e fu ulteriormente motivato dal fatto che l’indipendenza della Georgia avrebbe separato le due regioni ossete tramite l’imposizione di un confine internazionale.
Alla fine del 1990, a seguito della vittoria elettorale della coalizione Tavola Rotonda – Georgia Libera caratterizzata da una retorica marcatamente anti-osseta, l’assemblea regionale dell’Ossezia del Sud dichiarò la propria “sovranità” (una via di mezzo fra autonomia e indipendenza).
Tbilisi reagì duramente inviando le proprie forze di polizia e milizie nazionaliste nella regione. A seguito dei gravissimi episodi di violenza, le truppe del ministero degli interni sovietico furono inviate per separare i contendenti.
Sebbene la Russia abbia continuato formalmente a riconoscere la sovranità georgiana sulla regione, l’Ossezia del Sud rimase un’area separata sotto la protezione militare russa. Un cessate il fuoco rimase più o meno in vigore fino all’agosto del 2008.
Nell’Abkhazia, più a ovest, si verificarono dinamiche analoghe, con la popolazione indigena (legata alle minoranze circasse del Caucaso settentrionale sotto il controllo russo) che cominciò a chiedere con crescente insistenza una separazione dalla Georgia. L’Abkhazia era stata incorporata come repubblica autonoma nella Georgia da Joseph Stalin, egli stesso georgiano, nel 1931.
Sotto Stalin, l’Abkhazia aveva subito un processo di “georgianizzazione” che aveva ridotto la popolazione indigena a un mero 19% di quella complessiva, dopo che già decine di migliaia di musulmani abkhazi avevano lasciato la regione per l’impero ottomano a seguito della conquista russa di metà ‘800.
Alla fine dell’era sovietica, i georgiani costituivano il 45,7% della popolazione dell’Abkhazia, mentre russi e armeni componevano il restante 35% (a cui va sommato il già citato 19% di abkhazi). Al referendum del marzo 1991 sul mantenimento dell’Unione Sovietica, il 98% della popolazione non georgiana dell’Abkhazia votò a favore, mentre la maggioranza di quella georgiana boicottò il voto.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la dichiarazione d’indipendenza della Georgia, la maggioranza dell’assemblea abkhaza dichiarò l’indipendenza di fatto nel luglio del 1992. Ancora una volta, milizie nazionaliste georgiane intervennero occupando la capitale Sokhumi e macchiandosi di atrocità contro i residenti abkhazi, russi e armeni.
Ciò provocò la reazione di una eterogenea coalizione di forze del Caucaso settentrionale e di truppe russe, che cacciò i georgiani dall’Abkhazia compiendo a sua volta massacri ai danni della popolazione di etnia georgiana, che in gran parte fuggì dalla regione.
Oggi la popolazione dell’Abkhazia è costituita per il 50% da abkhazi, per il 18% da armeni e per il 9% da russi. Una minoranza georgiana pari a circa il 18% degli abitanti della regione rimane nel distretto meridionale di Gali.
Come per l’Ossezia, Mosca continuò per più di un decennio a riconoscere formalmente l’Abkhazia come parte della Georgia, sebbene di fatto indipendente. Gli USA ed alcuni paesi europei fecero sporadici tentativi di negoziare un accordo di pace fondato sul ritorno dell’Abkhazia sotto il controllo georgiano in qualità di regione autonoma.
Tali sforzi fallirono in primo luogo per la contrarietà delle autorità abkhaze, e per il rifiuto di Tbilisi di permettere l’esistenza di un esercito abkhazo separato da quello georgiano.
Il problema è ulteriormente complicato dalla volontà delle autorità georgiane di ottenere il rientro in Abkhazia di tutti i profughi georgiani e dei loro discendenti, cosa che ridurrebbe nuovamente gli abkhazi ad una piccola minoranza.
La Georgia post-sovietica, da Shevardnadze a Saakashvili
Dopo la dichiarazione d’indipendenza georgiana, Eduard Shevardnadze, già ministro degli esteri sovietico sotto Gorbaciov, divenne presidente nel 1992, presiedendo negli anni successivi ad una campagna anticorruzione e ad una riforma del codice civile che incontrarono l’entusiastica approvazione di George Soros.
La modifica del codice civile, in particolare, consentì la creazione di ONG finanziate dall’estero. La sezione georgiana della Open Society Foundations, costituita già nel 1994, fece da apripista.
Grazie alla libertà concessa alle ONG, Soros iniziò a pianificare il rovesciamento di Shevardnadze all’inizio del 2003, mettendo in contatto attivisti georgiani con membri del gruppo serbo Otpor (Resistenza) che aveva contribuito a rovesciare il presidente Slobodan Milosevic grazie alla pianificazione ed ai finanziamenti forniti dall’USAID e da altre istituzioni americane.
Soros aveva anche stretti rapporti con Mikhail Saakashvili, ministro della giustizia nel governo Shevardnadze che, laureatosi all’università di Kiev (dove aveva conosciuto il futuro presidente ucraino Petro Poroshenko), aveva poi studiato in diverse università americane. Dimessosi dalla carica di ministro, Saakashvili aveva fondato il partito politico “Movimento Nazionale Unito”.
Allorché le elezioni parlamentari del 2003 sembrarono assegnare la vittoria ad una coalizione di partiti che sosteneva Shevardnadze, gruppi di attivisti antigovernativi addestrati alle tecniche di protesta serbe, provenienti da tutto il paese, assaltarono il parlamento di Tbilisi sotto la guida di Saakashvili, brandendo delle rose.
A seguito di quella che venne chiamata la “rivoluzione delle rose”, Shevardnadze rassegnò le dimissioni. Saakashvili divenne presidente nel gennaio del 2004 (lo stesso anno che avrebbe visto in Ucraina la “rivoluzione arancione”, analogamente organizzata da Washington, portare al potere il filo-occidentale Viktor Yushchenko).
Saakashvili avviò immediatamente una drastica campagna di liberalizzazioni e di lotta alla corruzione, che fu salutata con grande entusiasmo in Occidente. Tuttavia, se i livelli di corruzione, soprattutto alla base della piramide istituzionale e in alcuni apparati, crollarono, gli eccessi ai vertici dello stato spesso addirittura aumentarono.
Il presidente fu accusato di accentrare ogni potere nelle proprie mani, mentre la popolazione carceraria quadruplicò sotto il suo governo, ed emersero gravi casi di tortura e maltrattamenti, e storie di abusi da parte della polizia.
Verso la guerra del 2008
Saakashvili abbandonò anche l’accorta politica di bilanciamento fra Russia e Occidente seguita dal suo predecessore, in favore di un indirizzo di politica estera marcatamente filo-occidentale, ma anche di una rinnovata determinazione a riprendere il controllo delle regioni separatiste dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud.
Questo atteggiamento coincise con la rinnovata politica di contenimento nei confronti di Mosca promossa dall’amministrazione Buh, la quale era interessata alle risorse energetiche del Caspio e all’idea di circondare la Russia con una cintura di paesi “democratici” (e anti-russi) che avrebbe frenato ogni eventuale espansionismo russo.
In questo quadro, Saakashvili fu visto dall’amministrazione americana come una sorta di incarnazione della sua “freedom agenda” e dei suoi sforzi di “esportazione della democrazia”. Il vertice NATO di Bucarest dell’aprile 2008, in cui fu “promesso” a Georgia ed Ucraina che sarebbero divenute in futuro membri dell’Alleanza malgrado i ripetuti ammonimenti del Cremlino, aggravò ulteriormente i rapporti con Mosca.
Fra il 2007 e il 2008, Tbilisi aumentò notevolmente le proprie spese per la difesa, mentre Mosca avviò vaste esercitazioni militari vicino al confine georgiano. Le crescenti tensioni sfociarono nella guerra dell’agosto 2008.
Secondo l’European Court of Human Rights, furono le forze georgiane ad accendere la miccia bombardando la città di Tskhinvali nella regione separatista dell’Ossezia del Sud. La reazione russa fu immediata, e rapidamente soverchiò l’esercito georgiano, malgrado la disorganizzazione che all’epoca caratterizzava le forze armate di Mosca.
La guerra durò appena cinque giorni, e si concluse con il riconoscimento delle repubbliche di Abkhazia e Ossezia del Sud da parte di Mosca, ma non con la loro annessione. Anche se le truppe russe avrebbero potuto facilmente marciare su Tbilisi, Putin scelse una condotta che contraddice il cliché occidentale di uomo determinato a riconquistare i territori sovietici perduti (essendo l’intervento militare russo unicamente finalizzato a fare in modo che la Georgia, con una disputa territoriale in atto, non potesse aderire alla NATO).
Dopo gli eventi dell’agosto 2008, ha tuttavia preso piede in Georgia la retorica della “deoccupazione” delle due repubbliche separatiste, una retorica che ha caratterizzato anche le manifestazioni delle scorse settimane.
Ascesa di Sogno Georgiano e declino di Saakashvili
A seguito della sconfitta militare e della sua politica sempre più accentratrice, le sorti di Saakashvili volsero al peggio tra il 2011 e il 2012, allorché il suo partito perse le elezioni a vantaggio di una coalizione guidata da Sogno Georgiano, formazione politica fondata dal miliardario Bidzina Ivanishvili.
Non appena scese in politica nell’ottobre 2011, Ivanishvili, che aveva costruito la propria fortuna in Russia, fu accusato di essere un agente del Cremlino e si vide perfino revocare temporaneamente la cittadinanza georgiana.
Malgrado questi ostacoli, e le pesanti tattiche adottate da Saakashvili nei suoi confronti, Ivanishvili ricoprì la carica di primo ministro fra il 2012 e il 2013. Sebbene abbia lasciato la presidenza di Sogno Georgiano dal 2021, si ritiene che egli influenzi tuttora le politiche del partito.
Pur mantenendo un atteggiamento filo-europeo e perseguendo una progressiva integrazione con l’Occidente, Sogno Georgiano ha conservato rapporti di pacifica convivenza con Mosca.
Quanto a Saakashvili, dopo aver completato il suo mandato presidenziale, egli decise di lasciare la Georgia per tentare la sorte in Ucraina all’indomani della rivolta di Maidan del 2014. Dopo aver rinunciato alla cittadinanza georgiana a favore di quella ucraina, Saakashvili fu nominato governatore della regione (a maggioranza filorussa) di Odessa dal suo vecchio amico Poroshenko, divenuto presidente del paese.
Dopo essersi dimesso nel novembre 2016, accusando pubblicamente Poroshenko di bloccare i suoi sforzi di riforma, Saakashvili creò un proprio partito in Ucraina in opposizione al suo ex amico ed alleato.
Poroshenko gli revocò la cittadinanza nel 2017 ma, dopo arresti e peripezie conclusesi con il trasferimento di Saakashvili in Olanda, il neoeletto presidente ucraino Zelensky gliela restituì nel 2019 consentendogli di tornare in Ucraina.
Rientrato in Georgia nel 2021 “per salvare il paese”, malgrado una condanna in contumacia nei suoi confronti risalente al 2018, Saakashvili è stato arrestato dopo aver tentato di organizzare proteste in coincidenza con le elezioni locali. Egli è tuttora in prigione per scontare la sua condanna, ma il suo Movimento Nazionale Unito rimane il principale partito di opposizione nel paese.
Un nuovo fronte contro la Russia?
Sogno Georgiano, tuttora alla guida del governo, è stato oggetto di crescenti pressioni occidentali, dopo lo scoppio del conflitto ucraino, affinché la Georgia imponga sanzioni a Mosca ed invii armi a Kiev.
Finora il governo si è astenuto da queste azioni, sebbene abbia cercato di assecondare in parte le insistenze americane ed europee votando a favore della risoluzione dell’Assemblea generale dell’ONU del 2 marzo, che condanna l’invasione russa e chiede un ritiro immediato e incondizionato delle forze di Mosca dall’Ucraina.
Come già accennato, il primo ministro Garibashvili ha sostenuto di aver ricevuto ripetute “richieste” di aprire un “secondo fronte” contro la Russia, a partire dal 24 febbraio dello scorso anno, data di inizio dell’invasione.
Con un governo accusato di essere filorusso, due regioni separatiste che (temendo l’eventuale insediarsi a Tbilisi di un esecutivo a loro ostile) chiedono l’adesione alla Federazione Russa (richiesta finora rifiutata da Mosca), e con un movimento di protesta filo-occidentale sostenuto da Stati Uniti ed Europa che vuole rovesciare il governo, la Georgia presenta indubbiamente alcune somiglianze con l’Ucraina pre-Maidan.
Tuttavia, il paese è estremamente più piccolo e fragile dell’Ucraina, dispone di un esercito che verrebbe facilmente spazzato via da Mosca (come ammonisce l’esperienza del 2008), e non è oggetto di mire o rivendicazioni da parte russa (essendo la non adesione di Tbilisi alla NATO l’unico vero interesse del Cremlino).
Washington e Bruxelles dovrebbero tener conto di queste differenze, smussare le tensioni, ed incoraggiare una pacificazione nel paese, invece di spingerlo verso uno scontro che ne decreterebbe la distruzione.
Molto interessante la ricostruzione storica di quanto avvenuto in Georgia che ignoravo completamente, ora dovrei leggere la stessa ricostruzione fatta da un giornalista del mainstream e confrontare le versioni per farmi un'idea più completa. Grazie per il lavoro di informazione