Xi Jinping a Mosca: i vagiti del nuovo (dis)ordine mondiale
Mentre a Mosca si gettano le basi di un nuovo sistema economico internazionale, il conflitto ucraino rimane la più grave minaccia alla pace del pianeta.
Si può affermare senz’ombra di dubbio che la visita di tre giorni compiuta dal presidente cinese Xi Jinping a Mosca, sullo sfondo di una crisi senza precedenti dell’ordine mondiale, sia di portata storica, sia per i suoi significati simbolici che per i suoi risultati pratici.
Essa suggella un inedito asse Russia-Cina che plasmerà i futuri sviluppi internazionali, rinsaldando i rapporti bilaterali come mai era accaduto in passato, proponendo l’intesa russo-cinese come polo di attrazione alternativo all’Occidente, e sancendo il nuovo ruolo globale della Cina in contrasto con la crisi di leadership degli USA.
Alcune indicazioni lasciano intendere che la data della visita sia stata anticipata dal presidente cinese sotto la pressione degli eventi internazionali: l’inasprirsi delle tensioni legate al conflitto ucraino, anche in vista di possibili successi militari russi sul terreno, la presentazione del documento programmatico sull’Ucraina (il cosiddetto “piano di pace” cinese) e di altre iniziative diplomatiche internazionali da parte di Pechino, il rapido deterioramento dei rapporti fra Stati Uniti e Cina.
Xi Jinping era stato invitato ufficialmente dal presidente russo Putin durante la videoconferenza tenutasi fra i due lo scorso 30 dicembre, ma Pechino non aveva dato una risposta. Anche dopo che la visita era stata annunciata, la data era rimasta incerta, ed è stata resa nota solo la scorsa settimana.
Simbolismi della visita
Significativo il fatto che il leader cinese sia giunto a Mosca a pochi giorni dall’incriminazione di Putin da parte della Corte Penale Internazionale (CPI), e dalla visita del presidente russo in Crimea ed a Mariupol.
Altamente simbolica anche la coincidenza fra l’arrivo di Xi a Mosca e la celebrazione della conferenza “Russia-Africa in un mondo multipolare” nella capitale russa, con la partecipazione delle delegazioni di 40 paesi africani, anch’esse giunte a dispetto della recente incriminazione di Putin da parte della CPI.
Un’immagine (attentamente preparata) di un emergente mondo multipolare che si raccoglie attorno all’asse Mosca-Pechino, la quale era impensabile fino a pochi anni fa.
L’incontro fra i due presidenti è stato preceduto dalla pubblicazione di due articoli, sulla Rossiiskaya Gazeta e sul cinese People’s Daily rispettivamente. Il primo, a firma del presidente cinese, descrive Russia e Cina come “partner strategici” impegnati in una “cooperazione a tutto campo” e celebra “l’eterna amicizia” fra i due paesi.
Il secondo, a firma del suo omologo russo, afferma che i rapporti fra i due paesi “superano per qualità le alleanze politico-militari dell’era della Guerra Fredda”, descrivendo una relazione in cui “nessuno ordina costantemente e nessuno costantemente obbedisce”, una relazione “senza limiti né tabù”.
Simili concetti vengono ribaditi e ulteriormente ampliati nella Dichiarazione Congiunta rilasciata al termine dell’incontro Putin-Xi. Essa rappresenta un vero e proprio manifesto non solo sullo stato dei rapporti bilaterali fra Mosca e Pechino, ma sulla loro visione condivisa di un nuovo ordine mondiale fondato sul multilateralismo in opposizione all’attuale sistema unipolare dominato dagli Stati Uniti, caratterizzato da “un approccio egemonico e unilaterale”.
La dichiarazione sottolinea che
“i paesi hanno differenti storie, culture, condizioni nazionali, e ciascuno ha il diritto di scegliere indipendentemente il proprio percorso di sviluppo. Non vi è ‘democrazia’ che sia superiore ad altre. Entrambe le parti rifiutano l’imposizione di valori nazionali ad altri, rifiutano l’impiego dell’ideologia per tracciare linee di demarcazione, rifiutano la narrazione ipocrita della cosiddetta ‘democrazia contro l’autoritarismo’, e rifiutano l’uso della democrazia e della libertà come un pretesto e uno strumento politico per esercitare pressioni su altri paesi e politiche.”
Il ruolo globale di Pechino
I concetti qui espressi sono direttamente derivati dalla Global Civilization Initiative, terzo documento programmatico cinese, presentato a metà marzo, che segue la Global Development Initiative del 2021, e la Global Security Initiative pubblicata lo scorso 21 febbraio – quest’ultima una piattaforma per la risoluzione dei conflitti internazionali attraverso un approccio multilaterale fondato su concetti chiave quali rispetto della sovranità e integrità territoriale di tutti i paesi, principio di non interferenza negli affari interni, reale implementazione della Carta dell’ONU, promozione della “sicurezza indivisibile”.
Con la pubblicazione di queste iniziative, la Cina si propone come nuovo attore globale che intende assumere un inedito ruolo politico e diplomatico a livello internazionale, oltre a quello economico tradizionalmente giocato negli ultimi decenni.
Il fatto che nella dichiarazione congiunta di Putin e Xi si affermi esplicitamente che “la Russia attribuisce grande importanza alla Global Civilization Initiative” indica che Mosca è pronta a riconoscere il nuovo ruolo che Pechino intende assumere a livello internazionale.
Integrazione economica
Al di là delle dichiarazioni di principio, la visita del presidente cinese ha preso corpo e sostanza in una serie di accordi economici firmati dalla due controparti. Durante l’incontro fra Xi e il primo ministro russo Mikhail Mishustin, sono stati concordati 79 progetti per un valore complessivo di 165 miliardi di dollari nei settori dell’energia, dell’alta tecnologia, dei corridoi logistici e dei trasporti.
Gli accordi sui corridoi logistici, in particolare, si inseriscono nel quadro dell’estrema importanza attribuita dalla Cina all’integrazione della Belt and Road Initiative (BRI) cinese con l’Eurasian Economic Union (EAEU) russa, come ha dichiarato lo stesso Xi Jinping.
La cooperazione include alcuni progetti energetici chiave in Russia, fra cui Yamal-LNG, Arctic LNG 2, Amur Gas Chemical Plant e il complesso di processamento del gas Ust-Luga.
Secondo Gazprom, le esportazioni di gas russo verso la Cina attraverso il gasdotto Power of Siberia 1 hanno raggiunto un record di 15 miliardi di metri cubi (mmc) nel 2022, ma si tratta ancora di un decimo dei 150 miliardi che la Russia esportava in Europa.
Per colmare parzialmente questo divario, il Power of Siberia 1, che ha una capacità massima di 34 mmc, sarà affiancato nei prossimi anni dal Power of Siberia 2 che avrà una portata di 50-60 mmc. “Quasi tutti i parametri di questo accordo sono stati concordati”, ha dichiarato Putin al termine degli incontri di martedì.
La Russia in questo momento è anche il principale fornitore di petrolio della Cina, avendo superato l’Arabia Saudita. E’ certamente Pechino a trarre maggior vantaggio dalla cooperazione energetica con Mosca, potendo alimentare la propria economia con il petrolio e il gas russi a prezzi fortemente scontati. Malgrado ciò, da tale cooperazione Mosca riesce ad ottenere gli introiti che le permettono di resistere alle sanzioni occidentali.
Gli scambi commerciali hanno raggiunto un livello record lo scorso anno, crescendo di circa un terzo malgrado le sanzioni occidentali contro la Russia. Secondo Putin, l’obiettivo dei 200 miliardi di dollari di interscambio, fissato da Mosca e Pechino per il 2024, potrebbe essere raggiunto già quest’anno.
In pratica, ciò che promette la cooperazione russo-cinese è assicurare maggiori fonti energetiche all’economia di Pechino in cambio della tecnologia e dello sviluppo che le compagnie cinesi possono portare in Russia.
Si tratta di un accordo non dissimile da quello recentemente proposto da Pechino all’Arabia Saudita ed alle altre monarchie petrolifere del Golfo in occasione della visita di Xi Jinping a Riyadh lo scorso dicembre.
Dedollarizzazione
L’insieme di questi scambi potrebbe progressivamente avvenire sostituendo la valuta cinese al dollaro, come sta già abbondantemente succedendo per le transazioni commerciali fra Mosca e Pechino. Durante l’incontro con Xi, Putin ha suggerito un’ulteriore estensione degli scambi in yuan, che coinvolga anche altri paesi, secondo uno schema equivalente (e alternativo) a quello del petrodollaro americano.
Oltre ad incrementare le proprie riserve auree, il ministero delle finanze russo ha aumentato fino al 60% la quota permessa di riserve in yuan nel Fondo di Ricchezza Nazionale.
La Reuters ha rivelato che la quota di scambi in yuan sul mercato valutario russo è cresciuta dall'1% al 40-45% in meno di un anno. Allo stesso tempo, gli scambi in dollari sono calati dall'80% al 40% del volume di scambi alla Borsa di Mosca.
Si prospetta dunque una progressiva integrazione economica del continente asiatico alimentata in primo luogo (ma non esclusivamente) dal ruolo guida assunto dalla Cina. Questa integrazione potrebbe coagulare attorno a sé anche altre parti del mondo non occidentale, dall’Africa all’America Latina, e vedrebbe lo yuan sostituire almeno parzialmente il dollaro come valuta di riserva e di scambio.
Si tratta tuttavia di un processo che si preannuncia lungo e complesso, e non privo di pericoli e scossoni alla luce delle tensioni internazionali già in atto, e del fatto che molti di questi paesi (fra cui la stessa Cina) hanno economie parzialmente o notevolmente integrate con quelle occidentali.
Fra i pericoli maggiori vi è la possibilità che il deterioramento dei rapporti fra Washington e Pechino trascini anche la Cina in un conflitto aperto con gli Stati Uniti, scenario che porrebbe davvero il pianeta sull’orlo della catastrofe.
Sergey Glazyev, ministro incaricato dell'integrazione e della macroeconomia presso la Commissione Economica Eurasiatica, uno di più ferventi sostenitori in Russia di una progressiva dedollarizzazione, prospetta uno scenario complesso e difficile, in cui non sarà Mosca, soggetta a pesanti sanzioni, ad assumere la leadership nella creazione di un nuovo sistema finanziario globale, bensì la Cina.
Glazyev vede come inevitabile la divisione del mondo in due blocchi: quello occidentale (inclusa l’eurozona) dominato dal dollaro, e quello del “Sud del mondo” che avrà un proprio sistema finanziario ed una propria valuta di scambio per i commerci internazionali. Internamente le nazioni di questo blocco continueranno ad utilizzare le proprie valute nazionali (che, nella fase di transizione, saranno parzialmente impiegate anche negli scambi internazionali in sostituzione del dollaro).
Una Russia subalterna alla Cina?
In un simile scenario, molti osservatori vedono una Russia che, anche qualora dovesse vincere il conflitto ucraino, isolata economicamente dall’Occidente finirà per dipendere dalla Cina, forse con qualche appoggio fra i paesi del Sud del mondo, ma complessivamente con un’influenza ridotta.
Secondo Fyodor Lukyanov, direttore della ricerca presso il Valdai Club e direttore della rivista Russia in Global Affairs, il riavvicinamento Russia-Cina ha gli stessi limiti di quello Russia-Occidente, e quando Mosca avvertirà la possibilità di perdere la propria indipendenza strategica, comincerà a distanziarsi ed a cercare contrappesi.
La partnership privilegiata con la Cina tuttavia sarà cruciale per lo sviluppo della Russia nei prossimi anni, in primo luogo a causa del conflitto fra Mosca e l’Occidente, ma anche perché Pechino sarà in ogni caso una fra le due maggiori superpotenze mondiali ed è il principale vicino della Russia, con cui è inevitabile mantenere buone relazioni.
Pechino non è una potenza che tesse alleanze, bensì partnership più o meno rilevanti per i propri obiettivi. Tuttavia a spingere i due paesi l’uno verso l’altro è in primo luogo l’approccio ostile di Washington nei confronti di entrambi. Dunque, sebbene gli interessi russi e cinesi non coincidano, è proprio l’atteggiamento dell’Occidente a cementare la loro intesa.
Il fallimento strategico di Washington
Nel suo libro The Grand Chessboard del 1997, Zbigniew Brzezinski, Consigliere per la Sicurezza Nazionale durante la presidenza Carter ed eminenza grigia della politica estera americana, definì "i tre grandi imperativi della geostrategia imperiale" americana in questi termini: "impedire la collusione e mantenere la dipendenza in materia di sicurezza tra i vassalli, mantenere i tributari arrendevoli e protetti, e impedire ai barbari di allearsi".
Mettendo in pratica questi principi, negli ultimi due decenni della Guerra Fredda gli Stati Uniti entrarono in una stretta cooperazione con la Cina in chiave antisovietica, al punto da vendere armi ai cinesi al culmine delle tensioni fra Mosca e Pechino alla fine degli anni ’70.
La “triangolazione” delle relazioni americane con Cina e Unione Sovietica fu una mossa strategica che consentì a Washington di superare le difficoltà derivanti dalla sconfitta in Vietnam.
Ma dopo la fine della Guerra Fredda, gli USA hanno cominciato ad inimicarsi Pechino, spingendola così a collaborare con Mosca, mentre con quest’ultima Washington non ha mai cercato una vera pacificazione, neanche dopo il crollo del blocco sovietico.
Il dilemma strategico di un’America sempre più bellicosa all’estero ma sempre più fragile internamente, la cui forza viene progressivamente erosa dalla propria paralisi politica interna e dalla propria disgregazione economica e sociale, è dunque interamente frutto delle scelte compiute dalle amministrazioni succedutesi negli ultimi trent’anni.
Culmine e metafora insolubile (alla luce delle predilezioni americane) di questa impasse strategica è il conflitto ucraino, cercato da Washington come grimaldello per smantellare una globalizzazione in cui non era più in grado di competere, e trasformatosi tuttavia in un nodo pericolosissimo che però gli USA non sanno e non vogliono sciogliere.
Gli USA temono la mediazione cinese
Da qui l’ammonimento statunitense, essenzialmente rivolto al presidente ucraino Zelensky, a rifiutare qualunque proposta negoziale cinese che preveda un cessate il fuoco senza il previo ritiro delle forze russe.
Ammonimento che ha reso il tentativo di mediazione avanzato da Pechino la componente di minor successo del viaggio di Xi Jinping a Mosca, e che spiega anche perché l’annunciata telefonata del presidente cinese a Zelensky non si sia ancora concretizzata.
Non bisogna tuttavia pensare che la proposta diplomatica cinese sia priva di valore o inevitabilmente destinata al fallimento. A Mosca Xi ha ottenuto la disponibilità russa a negoziare purché i colloqui di pace tengano conto delle “realtà geopolitiche” (ovvero dei territori annessi dalla Russia), come già preannunciato da Putin nel suo editoriale sul People’s Daily.
Quella russa potrebbe apparire una concessione ipocrita. Ma dovrebbe essere evidente che Mosca non può accettare un ritiro come precondizione di un negoziato, il quale equivarrebbe in questo caso ad una resa. I russi rinuncerebbero infatti a priori a tutto il loro potere contrattuale, ottenuto al prezzo di gravi perdite e di un enorme sforzo bellico ed economico, senza aver alcuna garanzia in cambio da parte dell’Occidente.
Non bisogna nemmeno concludere che la proposta cinese sia schiacciata sulle posizioni russe. Pechino trarrebbe addirittura vantaggio da una conclusione del conflitto e da una riduzione delle tensioni internazionali, può tollerare che il Cremlino faccia delle concessioni, ma non può permettersi una sconfitta o una resa russa che lasci Mosca isolata e stremata, perché ciò a sua volta indebolirebbe la posizione cinese nello scontro con Washington.
Ed è per questo motivo che il documento programmatico cinese sull’Ucraina contiene principi come la rimozione delle sanzioni unilaterali e la garanzia della “sicurezza indivisibile”, in base alla quale la sicurezza di un paese non deve andare a spese di quella degli altri.
Pechino ha adottato una retorica più moderata verso gli USA rispetto a quella russa, poiché vorrebbe scongiurare uno scontro aperto con Washington ed evitare di essere a sua volta oggetto delle sanzioni occidentali. La Cina essenzialmente preferirebbe riformare l’attuale ordine internazionale piuttosto che sovvertirlo.
Ma l’intolleranza di Washington per un ruolo diplomatico cinese che possa attrarre il consenso del mondo non occidentale, e per una soluzione del conflitto che non equivalga ad una sconfitta russa, spinge inesorabilmente la Cina verso le posizioni di Mosca.
Il risultato è che il conflitto in Ucraina, e la contrapposizione fra gli USA da un lato, e Russia e Cina – sempre più condannate ad affrontare un destino comune, sia esso di vittoria o di sconfitta – dall’altro, diventano via via più insanabili.