Armare l’Europa per mantenere in sella le sue delegittimate élite politiche
Mentre l’iniziativa negoziale USA nei confronti di Mosca evidenzia le sue debolezze, l’UE continua ad avvitarsi nella sua spirale autodistruttiva che compromette democrazia e prosperità interna.

La proposta di un cessate il fuoco preliminare senza condizioni in Ucraina, avanzata da Washington, e il frenetico tentativo dei vertici europei di organizzare il riarmo del vecchio continente, rappresentano paradossalmente due facce della stessa medaglia: quella di un Occidente in piena crisi strategica, progressivamente logorato dalle crescenti faide interne tra le sue arroganti, quanto incompetenti e corrotte, élite politiche.
L’acceso scontro verbale dello studio ovale fra il presidente americano Donald Trump e il suo omologo ucraino Volodymyr Zelensky, aveva fatto presupporre l’intenzione di Washington di strappare dure concessioni a Kiev.
La proposta negoziale emersa dall’incontro fra la delegazione USA e quella ucraina a Gedda, in Arabia Saudita, invece segna apparentemente una vittoria di quest’ultima.
Pace o congelamento del conflitto?
L’offerta consiste in un cessate il fuoco di 30 giorni, eventualmente prolungabile e in apparenza senza specifiche condizioni annesse, per avviare negoziati fra le parti finalizzati al raggiungimento di una pace duratura.
L’annuncio ha segnato la ricucitura dei rapporti fra Washington e Kiev deterioratisi in occasione della recente visita di Zelensky alla Casa Bianca, come confermato dalla decisione americana di riattivare l’invio di armi e la condivisione di informazioni di intelligence con l’Ucraina, sospesi solo pochi giorni prima.
L’iniziativa avvantaggia nettamente Kiev, le cui forze armate sono in difficoltà su gran parte del fronte ucraino e in rotta su quello russo di Kursk. Un cessate il fuoco permetterebbe loro di riprendere fiato, ed eventualmente di riarmarsi grazie alla ripresa del flusso di aiuti militari americani.
L’offerta di cessate il fuoco sembra formulata apposta per mettere sotto pressione Mosca, che verrebbe accusata di aver affossato gli sforzi di pace qualora la rifiutasse.
Il segretario di Stato USA Marco Rubio ha dichiarato che “la palla è nel campo della Russia”, aggiungendo che “se [i russi] diranno di no, sfortunatamente sapremo dov’è l’ostacolo alla pace”.
Sulla stessa falsariga le dichiarazioni dei principali leader europei, dal premier britannico Keir Starmer al presidente francese Emmanuel Macron, alla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen.
I rappresentanti francesi e britannici hanno assiduamente consigliato Kiev su come meglio promuovere le proprie posizioni con la delegazione americana a Gedda. Jonathan Powell, un consigliere di Starmer, è in costante contatto con Andriy Yermak, capo dell’ufficio presidenziale ucraino e uno degli uomini più potenti a Kiev.
Quest’ultimo, arrivando a Gedda, ha affermato che “siamo pronti a fare qualsiasi cosa per raggiungere la pace”. Ma quale sia la sua idea di pace lo ha chiarito perfettamente in un editoriale apparso sul Guardian in coincidenza con il suo viaggio in Arabia Saudita.
Sul quotidiano britannico, Yermak ha scritto che un cessate il fuoco non giungerà solo attraverso una semplice azione diplomatica. L’Europa dovrà anche rafforzare le sanzioni contro Mosca e sequestrare i 300 miliardi di euro di asset russi congelati per aumentare i propri aiuti a Kiev.
E’ poi essenziale, scrive Yermak, che l’Europa tenga fede alla propria decisione di riarmarsi. I 150 miliardi di euro annunciati dall’UE per l’irrobustimento militare dei paesi membri, insieme a potenziali 20 miliardi per la difesa ucraina, costituiranno una deterrenza credibile per assicurare la tenuta del cessate il fuoco.
Perplessità russe
In altre parole, l’alto responsabile ucraino sembra descrivere proprio quella “pace armata” che Mosca ha sempre detto di rifiutare. Il presidente russo Vladimir Putin ha più volte ripetuto in passato che “non abbiamo bisogno di una tregua, ma di una pace a lungo termine rafforzata da garanzie per la Federazione Russa ed i suoi cittadini”.
Yuri Ushakov, uomo di fiducia del presidente e membro della delegazione russa che aveva incontrato gli americani in Arabia Saudita, ha commentato la proposta di cessate il fuoco affermando che “non è altro che una pausa temporanea per far riprendere fiato all'esercito ucraino, niente di più”.
Egli ha però chiarito che la sua era una “posizione personale”. Più tardi nella giornata di giovedì 13 marzo, Putin si è dichiarato più possibilista sulla proposta statunitense, affermando che “l’idea in sé è corretta, e certamente l’appoggiamo”.
Il presidente russo ha però aggiunto che “ci sono questioni che dobbiamo discutere” con gli americani, ed eventualmente con Trump stesso.
Putin ha sottolineato l’esigenza di definire meccanismi per controllare possibili violazioni della tregua, e ha lasciato intendere che la Russia chiederà garanzie sul fatto che l’Ucraina non sfrutti la pausa nelle ostilità per riarmarsi ed arruolare nuovi uomini nell’esercito.
Il leader russo ha precisato che “partiamo dal presupposto che il cessate il fuoco debba portare a una pace duratura e rimuovere le cause profonde della crisi”.
E’ dunque probabile che Mosca chiederà precise garanzie alla Casa Bianca prima di accettare la proposta negoziale statunitense.
Dalla risposta russa si evince che il Cremlino stia tentando di mantenere buoni rapporti con l’amministrazione Trump, e pertanto cercherà di non rispondere con un netto rifiuto all’offerta americana.
Ma l’esito delle trattative rimane estremamente incerto alla luce della distanza fra le posizioni di Mosca e Kiev, e dei comportamenti difficilmente decifrabili della Casa Bianca.
Massimalismo europeo
I negoziati sono resi ancor più difficili dalla netta presa di posizione europea al fianco dell’Ucraina, e dal ruolo di “agenti” di Kiev che paesi come Francia e Gran Bretagna si sono attribuiti anche nei confronti di Washington.
I vertici dell’UE hanno adottato posizioni massimaliste.
Invocando garanzie di sicurezza per l’Ucraina in grado di dissuadere una futura “aggressione russa”, la von der Leyen ha affermato che l’Unione deve “urgentemente” riarmare Kiev in modo da trasformare il paese in un “porcospino d’acciaio” che si riveli “indigesto per futuri invasori”.
Uno scenario ben lontano dalla richiesta russa di un’Ucraina neutrale e smilitarizzata.
La presidente della Commissione ha motivato l’annuncio di un massiccio riarmo dell’Europa con il fatto che “dobbiamo prepararci al peggio”.
Von der Leyen ha perfino fatto proprio lo slogan trumpiano “peace through strength”, affermando che la Casa Bianca non può fare a meno dell’Europa se vuole che l’Ucraina giunga a un accordo di pace “da una posizione di forza”.
Dichiarazioni similmente allarmistiche sono giunte da altri leader europei. Macron ha detto che “l’unica potenza imperiale che vedo oggi in Europa è la Russia”, ammonendo che l’aggressione di Mosca “non conosce confini”.
Toni sopra le righe sono stati utilizzati anche nei confronti della Casa Bianca, accusata di voler “abbandonare la NATO”, di aver messo l’Europa di fronte a un “momento spartiacque”, e di aver posto fine all’ordine globale.
“ReArm Europe”
Simili scenari apocalittici sono stati utilizzati per giustificare un riarmo perentorio quanto probabilmente irrealistico dell’Europa.
Il piano “ReArm Europe” prevede una spesa complessiva di 800 miliardi di euro, gran parte dei quali dovranno essere reperiti a debito dagli Stati membri, attraverso un allentamento del patto di stabilità riservato esclusivamente agli investimenti militari.
Dall’UE sarà garantito solo un fondo di 150 miliardi finanziato da un indebitamento comune a livello europeo.
Il settore europeo della difesa è impreparato ad aumentare rapidamente la produzione. Esso è frammentato nelle diverse industrie nazionali ed importa tecnologia e componentistica dall’estero.
Attualmente circa l'80% degli acquisti nel settore della difesa proviene da fornitori esterni all'UE. I due terzi delle importazioni di armi giungono dagli Stati Uniti.
Per rendere operativi i nuovi armamenti sarebbe poi necessario arruolare, addestrare e stipendiare decine di migliaia di soldati, una prospettiva di lungo periodo e dai risultati incerti nell’attuale panorama europeo.
Gli esigui margini di manovra a livello fiscale e la tendenza complessiva della popolazione europea all’invecchiamento costituiscono altrettanti limiti oggettivi a un aumento incontrollato della spesa militare.
Ancora una volta, però, il messaggio che proviene dai vertici europei è quello dell’inevitabilità delle misure di austerità, in questo caso per “difendere l’Europa”.
La segreta speranza di alcuni è che l’aumentata produzione del settore della difesa possa contribuire a risollevare le anemiche economie europee. A tal fine, in Germania vi è chi ha proposto di riconvertire a scopi bellici l’industria automobilistica in crisi.
Militarizzazione e deriva illiberale
In questi anni, l’Unione Europea da progetto di pacifica convivenza si è progressivamente trasformata in struttura verticistica con una crescente finalità militare.
La logica dell’emergenza, incarnata questa volta dalla “minaccia esterna”, viene utilizzata per giustificare questa trasformazione, allo stesso tempo garantendo lucrosi guadagni per una ristretta élite industriale.
Leader come Macron e l’uscente cancelliere tedesco Olaf Scholz sono delegittimati e impopolari (il probabile successore di Scholz, Friedrich Merz, con il 28,5% dei consensi non se la passa molto meglio).
La “minaccia russa” offre al presidente francese un ottimo diversivo, permettendogli di ricordare ai membri dell’UE lo “status nucleare” della Francia e la dimensione europea degli interessi di Parigi.
La Germania dal canto suo, dimenticando per un attimo la gravità dell’emergenza economica nella quale si dibatte, vagheggia di porsi alla guida di un continente che arrivi a rimpiazzare gli USA come leader globale.
In Gran Bretagna, il premier Starmer emerge da una serie impressionante di fallimenti, ma la “minaccia russa” gli ha improvvisamente offerto l’opportunità di ergersi a nuovo protagonista della politica europea, di svolgere un ritrovato ruolo di sicurezza nel vecchio continente approfittando della “latitanza” americana, e di giocare la vecchia carta di proporsi come “ponte” fra le due sponde dell’Atlantico.
L’Europa continentale vive un paradosso. Avendo un passato di sostenitore riluttante della leadership anglo-americana, in particolare all’inizio del conflitto ucraino, è ora fra i più ardenti fautori di una politica massimalista nei confronti della Russia.
L’adesione di Finlandia e Svezia alla NATO, e il ruolo sproporzionato giocato dai paesi baltici all’interno dell’Unione, hanno contribuito a uno spostamento verso nordest del baricentro politico dell’UE.
E poco importa che in molti paesi europei la maggioranza dei cittadini sia favorevole a una soluzione negoziata del conflitto con la Russia, o sia contraria alla politica del riarmo.
Nelle “democrazie” europee, l’opinione pubblica non è più un fattore che deve contribuire a indirizzare le scelte dei governi. Al contrario, è un elemento che va plasmato e manipolato affinché si uniformi alle decisioni delle classi dirigenti.
Così, ad esempio, il direttore dell’Eurasia Group a Berlino, Jan Techau, scrive che il prossimo governo tedesco dovrà preparare la popolazione alle decisioni “senza precedenti” che verranno prese in materia di difesa e sicurezza, e che bisogna operare un cambio di mentalità nelle persone.
Ed avviene perfino che, laddove emerge un candidato che non si uniforma al consenso espresso dalle élite europee, esso venga estromesso dal processo elettorale con il beneplacito dell’UE.
E’ il caso della Romania, dove il popolare candidato Călin Georgescu, critico nei confronti della NATO, è stato squalificato sulla base di accuse giudicate inverosimili anche da osservatori oltreoceano, senza che ciò sollevasse alcuna obiezione a livello europeo.
Al contrario, La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha respinto la richiesta di Georgescu di revocare l'annullamento del primo turno elettorale che lo aveva visto emergere vincitore.
“Guerra civile” d’Occidente
L’istinto di autoconservazione delle élite politiche europee gioca un ruolo anche nella diatriba transatlantica con Trump.
Quest’ultimo ha certamente pesanti responsabilità nell’inasprimento della dialettica fra America ed Europa, con le sue minacce di impadronirsi della Groenlandia e la sua bellicosa politica dei dazi.
Ma la tesi europea secondo cui il presidente americano si preparerebbe ad abbandonare la NATO è scarsamente fondata alla luce delle esplicite dichiarazioni rilasciate dal segretario alla Difesa Pete Hegseth alla Conferenza di Sicurezza di Monaco, secondo le quali “gli Stati Uniti si impegnano a costruire una NATO più forte e letale”.
Del resto, come ha giustamente osservato il commentatore britannico Anatol Lieven, appare poco realistico che la Casa Bianca voglia lasciare la base di Ramstein in Germania o altre basi strategiche in Europa, che fra l’altro assicurano la proiezione militare statunitense anche in Medio Oriente.
Cercando (maldestramente) una soluzione negoziata del conflitto, Trump non sta neanche “tradendo l’Ucraina”. Semmai potrebbe salvare ciò che ancora resta di questo paese il quale è stato invece tradito dalle amministrazioni americane che lo hanno spinto in un conflitto suicida con la Russia.
Un accordo di pace con Mosca arresterebbe l’avanzata russa all’Ucraina orientale, scrive Lieven, quasi 1.800 km a est della cortina di ferro che divideva in due la Germania durante la guerra fredda.
Si potrebbe aggiungere che Mosca non ha mai nemmeno manifestato l’intenzione di impadronirsi dell’Ucraina occidentale, consapevole dell’ostilità che gli ucraini di quelle regioni nutrono nei confronti della Russia. Ancor meno ambisce a conquistare altri paesi europei che, fra l’altro, a differenza dell’Ucraina sono protetti dall’articolo 5 della NATO.
Sulla base di quanto appena scritto, viene a cadere tutta la retorica europea della minaccia russa “incombente” sull’Europa.
Le élite politiche europee, però, non solo hanno legato il loro destino al “progetto ucraino” promosso dai predecessori di Trump, ma vedono l’attuale presidente americano come un avversario ideologico che appoggia le destre populiste in Europa.
Per questo, negli ambienti europei ha fatto scalpore il discorso pronunciato dal vicepresidente J.D. Vance alla recente Conferenza di Sicurezza di Monaco, nel quale egli ha affermato che la minaccia all’Europa non proviene dalla Russia ma dall’interno dei paesi europei.
Le paure dei governi del vecchio continente sono del resto condivise oltreoceano da quella componente atlantista afferente in gran parte al partito democratico, la quale ritiene che il vero obiettivo di Trump sia indebolire l’Europa “liberale e democratica” a vantaggio delle destre russofile e dello stesso Putin.
Quella a cui stiamo assistendo è dunque una sorta di “guerra civile” all’interno dell’Occidente fra correnti ideologiche in reciproca competizione.
Vi è chi ha rimarcato che, malgrado la crisi attuale, il rapporto transatlantico è imprescindibile sia per gli USA che per l’Europa, alla luce dell’elevatissimo grado di integrazione economica che sussiste fra le due sponde dell’Atlantico.
E vi è chi ha fatto notare che ciò a cui punta Trump non è una rottura di tale rapporto, ma una ridefinizione del patto transatlantico che risulti più vantaggiosa per gli Stati Uniti.
Tuttavia, lo scontro ideologico al quale stiamo assistendo potrebbe effettivamente finire per indebolire il legame transatlantico, aggravando allo stesso tempo le crisi interne in cui sia Europa che America si dibattono.
Come effetto collaterale, ciò finirebbe probabilmente per acuire le divisioni fra i paesi europei, e senz’altro per rendere più difficile una soluzione negoziata del conflitto ucraino.
"I rappresentanti francesi e britannici hanno assiduamente consigliato Kiev su come meglio promuovere le proprie posizioni con la delegazione americana a Gedda"
Suppongo che siano gli stessi che hanno "consigliato" Kiev di interrompere i negoziati di Istanbul nell'aprile 2022.
"Yermak ha scritto che un cessate il fuoco non giungerà solo attraverso una semplice azione diplomatica. L’Europa dovrà anche rafforzare le sanzioni contro Mosca e sequestrare i 300 miliardi di euro di asset russi congelati per aumentare i propri aiuti a Kiev."
Insomma, l'Europa dovrà legalizzare il furto degli asset russi, cosa non accaduta neppure durante il secondo conflitto mondiale. Ma a chi rispondono i dirigenti europei?
"Dalla risposta russa si evince che il Cremlino stia tentando di mantenere buoni rapporti con l’amministrazione Trump, e pertanto cercherà di non rispondere con un netto rifiuto all’offerta americana."
Be'... Putin non avrà risposto "con un netto rifiuto all'offerta americana" a parole (su questo torno dopo), però il giorno prima ha mandato un segnale importante, presentandosi a Kursk in mimetica (prima assoluta!), anche se Peskov poi ha cercato di sminuirne il significato.
Riguardo alle parole usate ieri da Putin, consiglio questo breve articolo di Larry C. Johnson, che cita una spiegazione di Andrei Martyanov di un particolare termine russo usato da Putin durante la conferenza stampa con Lukashenko: https://sonar21.com/regarding-a-ceasefire-putin-says-it-is-about-nuance/
Tutto da leggere e da ridere! Non dico altro, per non rovinare lettura e sorpresa. :)