Vilnius. L’Ucraina sacrificata sull’altare della NATO. Il "pendolo" turco
In un clima teso, al vertice NATO nessuna reale concessione a Kiev, al di là della fornitura di armi. Nel frattempo Ankara si riavvicina all’Occidente: scelta tattica o necessità economica?

I due eventi chiave del vertice NATO tenutosi l’11 e il 12 luglio a Vilnius, in Lituania, sono la conferma che l’Ucraina non entrerà nell’Alleanza Atlantica fino alla fine del conflitto, e la decisione del presidente turco Erdogan di dare invece il via libera (condizionato) all’ingresso della Svezia.
Nel complesso, dunque, la NATO si espande, ma Kiev ne resta fuori.
Malgrado la mancata definizione di un percorso di adesione per l’Ucraina, i suoi partner occidentali continueranno a sostenerla militarmente come hanno fatto finora. Ma la gestione del conflitto con la Russia si fa sempre più problematica.
Quanto alla Svezia, il suo cammino verso l’ingresso nell’Alleanza non si chiude qui, ma dopo il nullaosta del presidente turco (tuttora subordinato all’approvazione da parte del parlamento di Ankara) ha più probabilità di andare in porto.
Vertici di guerra
Fin dal vertice NATO tenutosi in Galles nel 2014 dopo la rivolta di Maidan e la conseguente annessione della Crimea da parte di Mosca, l’Alleanza ha fatto della Russia la propria priorità e il proprio nemico numero uno.
Ma il vertice che fa realmente da prologo alla tragedia che stiamo vivendo oggi fu quello tenuto dalla NATO quindici anni fa a Bucarest (2008). In quell’occasione, i leader dell’Alleanza decisero di estendere alla Georgia e all’Ucraina la promessa di adesione alla NATO.
A poco valsero gli ammonimenti pronunciati l’anno precedente, alla Conferenza di sicurezza di Monaco, dal presidente russo Putin sui rischi che un’alterazione degli equilibri in Europa avrebbe comportato.
La decisione di Bucarest fu uno dei principali fattori che misero in moto la catena di eventi che ci ha condotto alla catastrofe attuale.
Il vertice di Vilnius ha poi avuto luogo all’ombra delle decisioni di quello tenutosi a Madrid a fine giugno dell’anno scorso, pochi mesi dopo l’inizio dell’invasione russa. Quel vertice ebbe luogo all’indomani del deliberato sabotaggio, da parte britannica e americana, degli sforzi negoziali che avevano portato russi ed ucraini sul punto di raggiungere un accordo fra marzo e aprile.
Il successivo mese di maggio, la Casa Bianca aveva deciso di fornire all’Ucraina 45 miliardi di dollari in aiuti militari.
In altre parole, Washington e Londra avevano scelto di rinunciare ad una possibile soluzione negoziata del conflitto in favore di una guerra per procura, condotta da Kiev con equipaggiamento NATO, allo scopo di giungere a quella che Julianne Smith, ambasciatore USA presso il quartier generale dell’Alleanza Atlantica a Bruxelles, definì nel maggio 2022 come la “sconfitta strategica” della Russia in Ucraina.
Il vertice di Madrid produsse una dichiarazione ufficiale che intimava alla Russia di porre immediatamente fine alla guerra e di ritirarsi dall’Ucraina, e additava la Bielorussia come “complice” di Mosca.
Allo stesso tempo, essa esprimeva il pieno sostegno dell’Alleanza all’Ucraina:
“Ribadiamo il nostro incrollabile sostegno all'indipendenza, alla sovranità e all'integrità territoriale dell'Ucraina all'interno dei suoi confini internazionalmente riconosciuti che si estendono alle sue acque territoriali. Sosteniamo pienamente il diritto intrinseco dell'Ucraina all'autodifesa e alla scelta delle proprie soluzioni di sicurezza. Accogliamo con favore gli sforzi di tutti gli alleati impegnati a fornire sostegno all'Ucraina”.
Fallimento sul terreno e velleitarismo nelle stanze NATO
A un anno da quella dichiarazione, tuttavia, Kiev è militarmente ed economicamente stremata. La tanto annunciata controffensiva ucraina, supportata dal materiale bellico occidentale e da migliaia di soldati ucraini addestrati dai paesi NATO, si è fino a questo momento inesorabilmente infranta contro le impressionanti linee di difesa russe, con gravi perdite di uomini e mezzi.
L’insuccesso in cui finora si è tradotta la controffensiva ha messo in evidenza le difficoltà di Kiev nel reperire e addestrare sempre nuovi soldati dopo aver perso decine di migliaia dei suoi uomini migliori, e l’incapacità dei suoi alleati occidentali di rifornirla adeguatamente di armi e munizioni – un’incapacità che ha messo a nudo la crisi dell’industria bellica americana ed europea.
Alla luce di questi fatti, nelle settimane che hanno preceduto il vertice di Vilnius si era infiammato il dibattito fra i paesi NATO sulla necessità di assicurare un ingresso immediato dell’Ucraina nell’Alleanza, o quantomeno di definire una chiara roadmap per l’adesione, accompagnata da robuste “garanzie di sicurezza” che avrebbero permesso a Kiev di difendersi dall’“aggressione russa” in attesa del pieno accesso al blocco occidentale.
Risultati deludenti a Vilnius
A tale riguardo l’esito del vertice è stato alquanto sconfortante per Kiev.
L’Ucraina ha infatti incassato l’inaugurazione del NATO-Ukraine Council (un forum per consultazioni congiunte fra Kiev e Bruxelles) e la decisione di esentarla dal Membership Action Plan (un programma “propedeutico” a cui devono sottoporsi i paesi candidati ad entrare nell’Alleanza) – due passaggi che apparentemente avvicinano Kiev alla NATO.
Dietro queste decisioni si nasconde però la ben più significativa scelta, non solo di scartare un ingresso immediato dell’Ucraina nell’organizzazione atlantica, ma anche di non definire alcuna roadmap rinviando l’adesione del paese a un nebuloso futuro, e in ogni caso non prima della fine del conflitto.
E’ quanto emerge inequivocabilmente dal comunicato del vertice, il cui paragrafo 11 recita: “Saremo in grado di estendere un invito all'Ucraina ad aderire all'Alleanza quando gli alleati saranno d'accordo e le condizioni saranno soddisfatte”.
Un linguaggio generico e fumoso che conferma che al momento la porta rimane chiusa, e che non è nemmeno il caso di fissare scadenze. Il segretario generale dell’organizzazione, Jens Stoltenberg, ha ulteriormente chiarito, nel corso della conferenza stampa pre-vertice, che
“la cosa più importante che possiamo fare è continuare a fornire armi, munizioni, supporto militare all’Ucraina, perché se l’Ucraina non prevarrà come nazione, come nazione democratica in Europa, non ci sarà nulla da discutere riguardo alle ‘garanzie di sicurezza’ o all’adesione alla NATO”.
In altre parole, è escluso che un’Ucraina in guerra con la Russia possa entrare nell’Alleanza. Se e quando essa emergerà dal conflitto, integra come nazione, si potrà aprire la discussione.
La peggiore condizione strategica possibile
La notizia in realtà dovrebbe far tirare a tutti un sospiro di sollievo perché, come ha spiegato l’ex ambasciatore USA presso la NATO Ivo Daalder, “portare [ora] l'Ucraina nell'Alleanza equivale a entrare in guerra” con Mosca. L’ingresso di Kiev nell’organizzazione significherebbe un conflitto diretto, e potenzialmente nucleare, fra NATO e Russia.
Lo stesso Biden, del resto, aveva chiarito alla vigilia del vertice che far entrare l’Ucraina, nel mezzo di una guerra, sarebbe stato “prematuro”.
Ma questa situazione irrisolta pone Kiev nella peggiore condizione strategica possibile.
L’Ucraina, paese confinante con la Russia e attualmente in guerra con essa, ha ribadito in ogni modo la propria determinazione a entrare nella NATO, alleanza che fa dell’ostilità nei confronti di Mosca la propria principale ragion d’essere. Ed allo stesso tempo, Kiev rimarrà al di fuori dell’ombrello protettivo della NATO fino alla fine del conflitto.
E’ evidente che in queste condizioni la Russia viene incentivata in ogni modo ad impedire che la guerra si chiuda con un’Ucraina integra, poiché Mosca sa che in questo caso Kiev andrebbe a rafforzare le file del proprio acerrimo nemico, e a sua volta sarebbe difesa da esso nell’eventualità di un nuovo conflitto con Mosca.
Dissidi e tensioni
In realtà, a ben vedere, neanche a guerra finita l’Ucraina ha una vera garanzia di ottenere l’accesso alla NATO. Il vertice di Vilnius ha infatti mostrato faglie profonde all’interno dell’Alleanza.
La stessa pubblicazione del comunicato finale è stata ritardata a causa del “chiaro disaccordo” fra gli Stati Uniti e la Germania da un lato, e i paesi nordici, alcuni paesi dell’Est europeo, e perfino alcuni paesi dell’Europa occidentale dall’altro, riguardo all’adesione dell’Ucraina.
Questo secondo schieramento era molto più incline a giungere alla formulazione di un impegno preciso, garantendo a Kiev una roadmap chiaramente definita. Ovviamente a prevalere è stato il peso politico di Washington. E tale disaccordo è candidato a permanere anche negli anni futuri.
L’assenza sia di un preciso invito all’adesione, che di una roadmap, nel comunicato del vertice ha fatto indispettire lo stesso presidente ucraino Zelensky, il quale forse si è reso conto, almeno momentaneamente, del pantano strategico in cui sta sprofondando il suo paese.
Dopo aver preso visione della bozza del comunicato, egli aveva espresso tutto il suo disappunto su Twitter affermando che “è senza precedenti e assurdo che nessun calendario preciso venga fissato né per l’invito né per l’adesione dell’Ucraina. Mentre allo stesso tempo una vaga formulazione a proposito di ‘condizioni’ viene aggiunta perfino per invitare l’Ucraina”.
Come è emerso successivamente, il tweet di Zelensky ha talmente indispettito i responsabili americani che essi hanno momentaneamente preso in considerazione l’ipotesi di cancellare dal comunicato ogni accenno ad un futuro “invito” dell’Ucraina.
Dal canto suo, il segretario alla difesa britannico Ben Wallace ha tacciato il presidente ucraino di ingratitudine, aggiungendo: “Non siamo Amazon”.
Zelensky ha poi ammorbidito le sue dichiarazioni quando ha affermato di essere giunto in Lituania con “fiducia nei partner” e in una NATO forte che “non mostra esitazioni”. Le sue ultime obiezioni sono cadute quando è emerso che le “garanzie di sicurezza”, che non erano state nemmeno formulate nel comunicato NATO, sono state assunte invece dal gruppo del G7 in sostituzione dell’Alleanza Atlantica.
Armi a oltranza (e “non è filantropia”)
Tali misure consistono nella fornitura di equipaggiamento militare, nell’addestramento delle forze ucraine, nella condivisione di intelligence, e nel sostegno nella difesa cibernetica. In pratica, esse si traducono nel prolungamento dell’assistenza militare attualmente ricevuta da Kiev.
Il motivo per cui il G7 si è sostituito alla NATO è di evitare ogni coinvolgimento diretto dell’Alleanza in quanto tale a sostegno dell’Ucraina, in modo da poter affermare formalmente che l’organizzazione non è un attore cobelligerante nel conflitto.
In sostanza, dunque, dal vertice di Vilnius non emerge nulla di rilevante, ma solo l’estensione dell’attuale gestione del conflitto ucraino, inteso come una guerra per procura a oltranza della NATO con la Russia, in cui Kiev è una pedina piuttosto che l’attore principale.
A sostenerlo candidamente è John Herbst, già ambasciatore USA in Ucraina dal 2003 al 2006 e attuale direttore dell’Eurasia Center dell’Atlantic Council, allorché sottolinea quanto sia importante che il comunicato del vertice di Vilnius abbia riconosciuto la Federazione Russa come “la più significativa e diretta minaccia alla sicurezza degli Alleati ed alla pace e alla stabilità nell’area euro-atlantica”.
“Questo è un importante promemoria”, scrive Herbst, “del fatto che il sostegno degli Stati Uniti e della NATO all'Ucraina non è filantropia, ma un modo intelligente per difendere i nostri interessi vitali”.
Ciò che Herbst trascura è che dall’inizio del conflitto i soli Stati Uniti hanno speso almeno 137 miliardi di dollari (due terzi dei quali in aiuti militari) a sostegno dell’Ucraina senza che quest’ultima si sia mostrata in grado di passare all’offensiva, ed anzi rivelando la crescente incapacità dell’industria bellica occidentale, ed americana in particolare, di tenere il passo con l’intensità del conflitto.
La recente e controversa decisione del presidente Biden di inviare a Kiev bombe a grappolo (i cui ordigni inesplosi possono rappresentare per anni un gravissimo pericolo per i civili) è, per ammissione dello stesso Consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan e dello stesso Biden, conseguenza del fatto che l’Ucraina sta esaurendo le munizioni d’artiglieria da 155 mm e gli USA non sono in grado di fornirgliele in tempi brevi.
Puntare al prolungamento del conflitto armato, escludendo ogni possibile soluzione negoziale, espone dunque Kiev alla probabilità crescente di andare incontro a serie sconfitte militari e di aggravare la distruzione del paese.
La NATO guarda oltre l’Ucraina
Ma ciò apparentemente non preoccupa più di tanto la NATO i cui obiettivi, come conferma il comunicato di Vilnius (composto da ben 90 articoli), vanno molto al di là dello scacchiere ucraino.
Essi includono l’estensione della sfera d’azione dell’Alleanza al Pacifico (come testimoniato dalla presenza al vertice dei capi di stato e di governo di Australia, Giappone, Nuova Zelanda e Corea del Sud) allo scopo di contenere la Cina, la volontà di spezzare il legame fra Mosca e Pechino, l’intenzione di rafforzare ulteriormente il rapporto fra NATO e UE (e lo stato di subordinazione di quest’ultima nei confronti della prima), e l’impegno ad espandere ulteriormente entrambe le organizzazioni coinvolgendo Georgia, Moldova e Balcani occidentali.
Passata sotto silenzio è anche l’approvazione di 4.000 pagine di piani classificati riguardanti la difesa del territorio NATO nel caso di un conflitto diretto con la Russia. In base a questi piani, l’Alleanza avrà (almeno sulla carta) 300.000 soldati pronti per essere schierati sul suo fianco orientale entro 30 giorni dall’inizio di un eventuale scontro armato – un vero e proprio ritorno alla logica della Guerra Fredda.
L’ulteriore allargamento dell’Alleanza Atlantica naturalmente include anche Finlandia e Svezia, allo scopo di completare l’accerchiamento della Russia trasformando il Baltico in un “lago NATO”. Se Helsinki ha già aderito all’Alleanza con un percorso abbreviato, Stoccolma è stata finora impedita di fare altrettanto dal veto della Turchia (e in secondo luogo dell’Ungheria).
Ed è proprio a questo riguardo che si registra una delle poche novità del vertice.
Il colpo di scena di Erdogan
Con uno spettacolare voltafaccia dopo mesi di dura opposizione, il presidente turco Erdogan ha dato quello che gran parte dei media ha definito il “via libera” all’ingresso della Svezia nella NATO, in cambio di una possibile riattivazione del processo di adesione della Turchia all’UE e di altre contropartite negoziali per Ankara.
In realtà il “via libera” al momento non è definitivo: Erdogan ha semplicemente accettato di sottoporre il protocollo di adesione di Stoccolma al parlamento turco (da egli controllato) per la ratifica.
Non vi è però una data precisa per l’approvazione e il presidente turco ha già fatto sapere, in seconda battuta, che è improbabile che essa giunga prima della pausa delle attività parlamentari la prossima settimana.
Siccome tale pausa estiva si protrarrà fino al 1° ottobre, la ratifica del protocollo di adesione della Svezia probabilmente non avrà luogo prima di tre mesi. Ciò significa che il benestare turco rimane tuttora condizionato all’ottenimento di una serie di contropartite che Ankara appare determinata ad ottenere nel frattempo.
Il presidente turco sta negoziando su tre tavoli: quello svedese (e della NATO), quello americano, e quello dell’UE.
Al tavolo svedese, egli ha già ottenuto numerose concessioni (e spera di ottenerne altre) riguardo ai membri del PKK curdo ed ai seguaci del predicatore Fetullah Gulen (entrambi considerati movimenti terroristici da Ankara), ma anche sulla vendita di armi da parte di Stoccolma.
Come recita il comunicato stampa del 10 luglio seguito all’incontro fra Erdogan, il premier svedese Ulf Kristersson e Stoltenberg, in particolare la Svezia “ha emendato la propria costituzione, cambiato le proprie leggi, esteso in maniera significativa la propria cooperazione antiterrorismo contro il PKK, e ripreso le esportazioni di armi verso la Turchia”.
Al tavolo americano, Erdogan punta a sbloccare la vendita dei caccia F-16 che dovrebbero controbilanciare almeno in parte gli F-35 che Washington sembra intenzionata a dare alla Grecia, e che ad Ankara sono ormai preclusi (dopo la decisione turca di acquistare il sistema russo di difesa aerea S-400).
Mentre Biden è favorevole all’operazione, Ankara deve vincere l’opposizione del Congresso americano.
Al tavolo europeo, pur sapendo di non poter ottenere l’ingresso nell’UE (i colloqui di adesione sono congelati dal 2018), il presidente turco spera di assicurarsi la modernizzazione dell’Unione doganale fra Turchia e UE, e la liberalizzazione dei visti.
Ankara a caccia di capitali
Ma soprattutto, la Turchia, con un’economia a pezzi ulteriormente fiaccata dal terribile terremoto dello scorso febbraio, sa che un dialogo rafforzato con l’UE, anche se non porterà mai all’adesione di Ankara, potrebbe sbloccare i capitali di cui il paese ha urgentemente bisogno.
Il leader turco ritiene che l’attuale situazione economica del paese gli imponga di guardare maggiormente verso Occidente (oltre che verso il Golfo), visto che è da lì che ancora provengono i capitali più ingenti per la Turchia.
E, secondo quanto rivelato dal giornalista investigativo americano Seymour Hersh, nell’ultimo colloquio Biden gli avrebbe addirittura promesso una tranche di oltre 11 miliardi di dollari da parte del Fondo Monetario Internazionale (FMI) in cambio del benestare turco all’adesione di Stoccolma alla NATO.
I pacchetti dell’FMI giungono sempre con pesanti condizioni annesse, e non è chiaro se Erdogan lo accetterà. A essere fuor di dubbio è che egli ha assemblato un team economico, composto dal duo Mehmet Simsek-Hafize Erkan, allo scopo di blandire i mercati occidentali.
Mehmet Simsek, doppia cittadinanza turca e britannica, già economista della Merrill Lynch, a suo agio negli ambienti della City di Londra, è stato posto alla guida del ministero del tesoro e delle finanze.
La quarantaquattrenne Hafize Gaye Erkan, cittadinanza turca e americana, ex Goldman Sachs, e per 8 anni co-CEO della californiana First Republic Bank (recentemente fallita), è la prima donna a guidare la Banca centrale turca.
Perennemente in bilico fra Oriente e Occidente
La politica estera turca ha tradizionalmente oscillato fra Oriente e Occidente. Ankara continua a mantenere stretti legami con Mosca, innanzitutto per la sua dipendenza dalle fonti energetiche russe. La Turchia nutre anche il sogno di diventare un hub energetico per la distribuzione del gas e del petrolio di Mosca. La russa Rosatom ha poi costruito in Turchia la centrale nucleare di Akkuyu.
Ma Ankara non è mai stata un alleato di Mosca (ha anche fornito armi all’Ucraina), e gli interessi turchi non sono allineati con quelli russi in diversi teatri, dalla Siria alla Libia. Erdogan potrebbe poi sentirsi minacciato da una rafforzata presenza russa nel Mar Nero se Mosca dovesse vincere la guerra con la NATO in Ucraina.
Tuttavia i rapporti economici e commerciali con la Russia continuano ad essere essenziali per Ankara. Perciò, Erdogan probabilmente è intenzionato a proseguire la sua politica non allineata. Egli non ama l’Occidente e sa di non essere amato da quest’ultimo.
L’economia turca però dipende molto dai mercati occidentali, e non ha gli anticorpi di quella russa. In una fase di ritorno a una logica bipolare a livello mondiale, la strategia non allineata di Ankara potrebbe essere costretta a scendere a compromessi.
Solo il tempo ci dirà se la recente svolta di Erdogan è l’ennesima mossa tattica di un presidente che continua a destreggiarsi fra Europa e Asia, oppure se ha una natura più strategica, dovuta alle necessità dell’economia turca.
"Passata sotto silenzio è anche l’approvazione di 4.000 pagine di piani classificati riguardanti la difesa del territorio NATO nel caso di un conflitto diretto con la Russia. In base a questi piani, l’Alleanza avrà (almeno sulla carta) 300.000 soldati pronti per essere schierati sul suo fianco orientale entro 30 giorni dall’inizio di un eventuale scontro armato – un vero e proprio ritorno alla logica della Guerra Fredda."
Ammesso e non concesso che la Russia entri in un conflitto diretto con la NATO, penso che in 30 giorni la Russia potrebbe prendersi tutti i Paesi Baltici e la Moldavia (assumendo che abbia già preso tutta l'Ucraina), se facesse un blitzkrieg come nel Febbraio 2022 ed usasse tutte le sue nuove forze che sta sviluppando, considerando anche che le scorte di munizioni della NATO sono ormai ridotte all'osso. Non capisco neanche come USA e NATO possano pensare ad un conflitto con la Cina!