BRICS: la voce del mondo non occidentale si leva da Kazan
Nel pieno della crisi dell’attuale ordine internazionale, dal cuore eurasiatico della Russia emergono i possibili contorni di una visione alternativa del mondo.
Mentre trent’anni di era unipolare americana stanno tumultuosamente sprofondando in un crescente numero di conflitti spesso alimentati dall’ex potenza egemone, il vertice dei BRICS della scorsa settimana ci ha offerto una finestra sul mondo che potrebbe emergere da questo pericoloso periodo di transizione.
Tenutosi a Kazan, capitale della Repubblica del Tatarstan, in Russia, è stato un vertice di consolidamento, il primo dopo l’espansione del gruppo a nove membri sancita dall’incontro di Johannesburg dello scorso anno.
Durante il primo giorno, i membri originari dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) hanno dato il benvenuto ufficiale ai nuovi arrivati (Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, e Iran). Il gruppo allargato, solitamente denominato BRICS+, rappresenta più del 40% della popolazione mondiale.
Ospitando questo importante evento, il presidente russo Vladimir Putin ha dimostrato ancora una volta all’Occidente che Mosca non è affatto isolata a livello internazionale, sebbene il conflitto ucraino sia tuttora in corso. Al contrario, la Russia è uno dei principali motori di questo raggruppamento che sta attirando un crescente numero di paesi.
Almeno altre 40 nazioni hanno in varia misura espresso interesse ad aderire al gruppo.
Al vertice hanno preso parte più di 30 delegazioni, 22 capi di Stato e di governo, e i rappresentanti di diverse organizzazioni internazionali, incluso il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres.
Lo stesso che è stato recentemente dichiarato persona non grata da Israele, alleato chiave di Washington che, con il suo persistente disprezzo delle risoluzioni ONU e con i suoi ripetuti attacchi all’UNRWA in Palestina ed all’UNIFIL in Libano, continua a delegittimare l’ordine internazionale “basato su regole” a guida statunitense.
Lo spartiacque del 2008
Percepito come antioccidentale ed antiamericano in Occidente, il gruppo dei BRICS non era nato con l’intenzione di abbattere l’ordine internazionale a guida USA, ma al più di riformarlo.
Durante il primo vertice del 2009 a Ekaterinburg, in Russia, e poi durante quello di Brasilia del 2010, l’agenda dei BRIC (il Sudafrica avrebbe aderito al gruppo alla fine dello stesso anno), era stata plasmata dalla recessione globale scatenata dalla crisi finanziaria americana del 2008.
I quattro paesi invocavano un ruolo centrale del G20 e dell’ONU nella risoluzione dei problemi mondiali, e chiedevano una redistribuzione dei diritti di voto all’interno del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e della Banca Mondiale.
Nei precedenti vent’anni, gli USA avevano agito come incontrastata potenza egemone a livello globale. Dopo la crisi finanziaria del 2008, la Cina si sarebbe affermata come catalizzatore della crescita nel continente asiatico, mentre il modello di sviluppo proposto dagli USA sarebbe stato guardato con crescente sfiducia dai paesi emergenti.
Sempre al 2009 risale l’appello dell’allora governatore della banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan, a riformare l’ordine monetario internazionale denunciando le vulnerabilità del sistema dominato dal dollaro.
Washington rispose all’ascesa cinese annunciando uno spostamento del baricentro militare statunitense verso il Pacifico (il cosiddetto “pivot verso l’Asia” proclamato dall’amministrazione Obama alla fine del 2011).
Con l’inaugurazione della Belt and Road Initiative (la cosiddetta “via della seta” cinese) nel 2013, la competizione fra Cina e Stati Uniti era destinata ad inasprirsi.
L’anno successivo, la mancata integrazione della Russia nell’architettura di sicurezza europea e la continua espansione ad est della NATO sarebbero sfociate nella rivolta di Maidan, sostenuta da Washington, e nell’insediamento di un governo nazionalista e visceralmente antirusso a Kiev.
Mosca reagì annettendosi la Crimea, e andando così incontro alle prime sanzioni europee ed americane. A partire da quel periodo, Russia e Cina hanno cominciato a considerare i BRICS come uno strumento anche geopolitico nel loro confronto con l’Occidente, mentre gli altri membri hanno continuato a ritenerlo un raggruppamento finalizzato essenzialmente allo sviluppo economico e commerciale.
Tuttavia, quando l’Unione Europea ha imposto dure sanzioni alle esportazioni petrolifere di Mosca a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina nel 2022, i BRICS hanno reagito compattamente ai tentativi occidentali di isolare la Russia.
Cina e India hanno assorbito la gran parte delle esportazioni russe di greggio, mentre il Brasile è emerso come un importatore essenziale di prodotti raffinati, principalmente diesel e olio combustibile. Nel 2023, le importazioni brasiliane di diesel russo sono cresciute del 4.600%, quelle di olio combustibile del 400%.
Un ordine percepito come iniquo
Come già accennato, una delle principali rivendicazioni dei BRICS era l’ingiusta ripartizione dei diritti di voto all’interno dell’FMI. Pur rappresentando più del 25% del PIL mondiale, il gruppo allargato dei BRICS (BRICS+) detiene solo il 18,4% delle quote di voto, rispetto al 19,1% detenuto collettivamente da Germania, Gran Bretagna, Francia, Italia e Spagna (che contribuiscono complessivamente a meno del 14% del PIL globale). La Cina, in particolare, pur essendo la prima economia del mondo (a parità di potere d’acquisto) detiene appena il 6,4% delle quote di voto.
Di fronte all’indisponibilità occidentale a riformare istituzioni come l’FMI e la Banca Mondiale, i BRICS hanno iniziato a cercare soluzioni alternative. Nel 2015 fu perciò fondata la New Development Bank (NDB), con sede a Shanghai, un istituto finalmente non più dominato da americani ed europei, la cui presidenza viene assegnata a rotazione tra i suoi paesi fondatori.
Con una capitalizzazione iniziale di 50 miliardi di dollari, la NDB si dedicò al finanziamento di progetti infrastrutturali e di sviluppo sostenibile nei paesi emergenti.
Questo istituto è però tuttora integrato nel circuito finanziario mondiale legato al dollaro, pur avendo erogato anche prestiti in valute diverse da quella statunitense. Nel 2023 la banca ha perciò deciso di non considerare nuovi progetti in Russia, di fatto per evitare il rischio di incorrere nelle sanzioni americane.
Sebbene non tutti i paesi membri dei BRICS vogliano connotare il raggruppamento in senso antioccidentale, il tema delle sanzioni statunitensi ed europee rappresenta una preoccupazione condivisa.
La centralità del dollaro nel sistema finanziario internazionale, obbligando le banche di tutto il mondo ad interfacciarsi con il circuito bancario americano, assicura a Washington un enorme potere. Esso consente agli USA di isolare economicamente una nazione considerata ostile, colpendo non solo direttamente quest’ultima, ma anche tutti quei paesi che volessero mantenere scambi commerciali con essa attraverso l’imposizione di sanzioni “secondarie”.
Paesi come l’Iran o la Corea del Nord sono assoggettati da anni a questo embargo internazionale. Più recentemente, un trattamento analogo è toccato a Mosca.
Dopo l’invasione russa dell’Ucraina, l’Occidente ha scollegato le banche russe dal sistema di messaggistica interbancaria dello SWIFT, mentre gli USA hanno minacciato l’imposizione di sanzioni secondarie a quei paesi che avessero continuato a vendere a Mosca prodotti considerati “dual use”, cioè utilizzabili anche a scopo bellico.
Ciò ha portato molte banche centrali ad accumulare oro al posto del biglietto verde, ed ha spinto soprattutto gli avversari di Washington a cercare di abbandonare il dollaro nelle proprie transazioni con gli altri paesi a vantaggio delle rispettive valute nazionali.
Il primo ministro russo Mikhail Mishustin ha recentemente affermato che l’impiego delle valute nazionali negli scambi commerciali con paesi considerati “amici” (Cina, India, Turchia, Egitto) ha raggiunto il 90% del totale.
Altri paesi che temono di subire un giorno lo stesso trattamento riservato alla Russia o all’Iran vedrebbero di buon occhio l’emergere di un sistema finanziario non più assoggettato al dollaro. Lo stesso presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, che ospiterà il vertice BRICS del 2025, aveva dichiarato lo scorso anno: “Ogni notte mi chiedo perché tutti i paesi debbano basare il proprio commercio sul dollaro; chi lo ha deciso?”.
Kazan e il declino del dollaro
A Kazan, l’impiego delle valute nazionali nelle transazioni finanziarie fra i paesi BRICS ed i propri partner commerciali è stato approvato da tutti. I paesi membri hanno anche discusso la proposta russa di un sistema di pagamento unificato , denominato “BRICS Bridge” e fondato sulla tecnologia della blockchain, che possa un giorno bypassare il dollaro.
Il vertice ha visto anche l’introduzione della BRICS (Re)Insurance Company, che dovrebbe garantire una progressiva indipendenza dei paesi membri e dei loro partner dalle compagnie assicurative occidentali.
E’ stata accolta con favore anche l’iniziativa russa di creare una borsa del grano per i BRICS e i loro partner, che conferirebbe a questi paesi più voce in capitolo nella definizione dei prezzi a livello globale e potrebbe successivamente essere estesa ad altri settori agricoli.
Sebbene la stampa occidentale abbia definito “scarsi” i progressi compiuti dal vertice nel processo di dedollarizzazione, i provvedimenti allo studio potrebbero avere un effetto significativo sul medio e lungo periodo.
L’emergere di una valuta unitaria dei BRICS è difficilmente ipotizzabile allo stato attuale, ma il noto economista Mohamed El-Erian ha fatto notare che il crescente acquisto di oro da parte delle banche centrali al posto dei buoni del Tesoro americano lascia intendere un aumentato interesse nei confronti delle possibili alternative al sistema finanziario basato sul dollaro.
Secondo alcuni studi occidentali, l’impiego del dollaro come valuta di riserva internazionale potrebbe calare dall’attuale 60% al 40-45% intorno al 2050. Secondo altre stime, il calo potrebbe spingersi al 35-40%, e comporterebbe vendite massicce di buoni del Tesoro USA rendendo difficile a Washington rifinanziare il proprio debito.
La crescente tendenza ad evadere dal sistema dollaro-centrico potrebbe dunque avere conseguenze significative per la stabilità del sistema finanziario occidentale a lungo termine.
Per comprendere meglio come questa tendenza possa essere ulteriormente favorita, bisogna considerare la decisione del vertice di Kazan di istituzionalizzare la categoria dei “paesi partner” dei BRICS, che crea una sorta di sfera d’influenza BRICS attorno ai nove paesi membri.
Per la precisione, 13 paesi hanno assunto lo status di “partner”: Algeria, Bielorussia, Bolivia, Cuba, Indonesia, Kazakistan, Malaysia, Nigeria, Tailandia, Turchia, Uganda, Uzbekistan e Vietnam.
Tra essi spiccano quattro paesi del Sudest asiatico – Indonesia, Malaysia, Tailandia e Vietnam – tutti membri dell’ASEAN ma anche dell’ Indo-Pacific Economic Framework (IPEF) a guida USA. Associando questi paesi, i BRICS si avviano dunque a diventare un blocco realmente rappresentativo del Sud globale, caratterizzato da molteplici identità regionali, cosa che ne accresce il peso strategico e l’accettazione a livello globale.
Se durante la Guerra Fredda il blocco occidentale e quello comunista erano completati dallo schieramento dei paesi non allineati, per certi versi l’attuale raggruppamento allargato dei BRICS si avvia a diventare una sorta di reincarnazione di quello schieramento, rafforzata dalla presenza di due membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e di alcune fra le principali economie mondiali.
Da rilevare, a complemento di questo discorso, anche la recente distensione fra Cina e India sancita dall’accordo sul pattugliamento militare di entrambi i lati della Linea di Controllo, il confine conteso nella regione dell’Himalaya.
Tale distensione lascia presagire la possibilità di superare le divisioni presenti all’interno dei BRICS, e di procedere con una certa armonia pur nella differenza delle identità.
La proiezione eurasiatica di Mosca
Interessante anche il fatto che l’allargamento dei BRICS alla sfera dei paesi partner rifletta le priorità di Mosca sancite nella dottrina di politica estera del 2023: la costruzione di una partnership eurasiatica e il rafforzamento dei rapporti con il Sud del mondo.
A tal proposito, la scelta di Kazan come sede del vertice non è affatto casuale. Situata quasi a cavallo tra Europa e Asia, con i suoi 1,3 milioni di abitanti la capitale del Tatarstan, oltre ad essere una delle principali città del bacino del Volga, è fra le più antiche della Russia. Fondata intorno al 1005, essa è più antica di Mosca di quasi 150 anni.
Dal XIII al XV secolo la regione di Kazan fu dominata dai tataro-mongoli dell’Orda d’Oro, e sotto di essi si convertì all’Islam. Il russo e il tataro sono perciò le due lingue ufficiali dell’attuale Tatarstan, la cui capitale è una città multietnica e multiculturale.
All’interno delle mura storiche della città è stata costruita Kul-Sharif, una delle moschee più grandi d’Europa. A Kazan il potere è tradizionalmente gestito dai musulmani, che costituiscono la maggioranza nel Tatarstan.
La città è anche il terzo centro finanziario della Russia, dopo Mosca e San Pietroburgo, e la regione è uno dei poli industriali più importanti del paese. Dal 2009 Kazan è anche sede del forum “Russia-mondo islamico”.
Il fatto che il Cremlino abbia deciso di tenere il vertice dei BRICS a Kazan ha dunque un profondo significato simbolico. Tale scelta rappresenta un chiaro gesto di apertura nei confronti del continente asiatico e del mondo islamico, dove la Russia ha stretto relazioni importanti.
I rappresentanti di un raggruppamento globale come quello dei BRICS, che riunisce un’ampia varietà di religioni e identità differenti, sono stati accolti in una città nota per la pacifica coesistenza di diverse fedi ed etnie.
Le fragilità dei BRICS
Come si evince da quanto scritto fin qui, i BRICS includono anche una grande varietà di posizioni politiche, non sempre facilmente conciliabili fra loro.
Se tra i membri fondatori, India e Brasile sono quelli più intenzionati a preservare una stretta relazione con l’Occidente, la maggior parte dei nuovi membri (con l’evidente eccezione dell’Iran) è ugualmente determinata a perseguire una politica estera in grado di affiancare un solido rapporto di cooperazione con i paesi occidentali alla partnership commerciale, economica ed anche politica con Russia e Cina.
Tutti questi paesi (Brasile, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, India) ambiscono ad un ordine internazionale più equo, che dia maggior spazio ai loro interessi economici ed alle loro ambizioni di sviluppo, pur senza rinunciare ai vantaggi commerciali e tecnologici che possono derivare dalle relazioni con l’Occidente.
Essi concepiscono i BRICS come un raggruppamento non occidentale, ma non anti-occidentale. Su posizioni più radicali, seppur con diverse sfumature, si trovano invece paesi come Russia, Iran, Sudafrica, e Cina.
Tra gli imprevisti che hanno ostacolato o rallentato la progressione dei BRICS possiamo annoverare la mancata adesione di Argentina ed Arabia Saudita (fino a questo momento), due paesi che erano stati invitati ad entrare nel gruppo durante il vertice di Johannesburg dello scorso anno.
L’arrivo al potere nel dicembre 2023 dell’eccentrico presidente Javier Milei oscillante fra posizioni libertarie radicali e di estrema destra, il quale ha affermato che “il nostro allineamento geopolitico è con gli Stati Uniti e Israele”, ha posto fine al processo di adesione dell’Argentina.
I sauditi hanno invece mantenuto una posizione ambigua “rimanendo alla finestra”, riservandosi cioè la possibilità di accettare l’invito in futuro. Il principe ereditario Mohammed bin Salman non ha però preso parte al vertice di Kazan.
La creazione della categoria dei “partner dei BRICS” ha tra l’altro lo scopo di prevenire in futuro incidenti come la mancata adesione di Argentina e Arabia Saudita.
Un altro episodio spiacevole è stato tuttavia rappresentato dal veto posto dal governo brasiliano (il cui leader Lula da Silva peraltro non ha preso parte al vertice) all’acquisizione dello status di paese partner dei BRICS da parte del Venezuela del presidente Nicolas Maduro.
Quest’ultimo si è invece recato a Kazan, dove ha avuto incontri amichevoli con gli altri leader dei BRICS e con i rappresentanti di altri paesi presenti al vertice.
Per spiegare il veto di Lula, alcuni hanno ipotizzato che la partecipazione del Venezuela sposterebbe l’orientamento del gruppo – e dei paesi latinoamericani che vi aderiscono –su posizioni eccessivamente antioccidentali, uno scenario inaccettabile per il Brasile.
Il presidente russo Putin, padrone di casa a Kazan, si è tuttavia augurato che la situazione possa essere risolta attraverso un dialogo tra i due governi, che auspicabilmente porti il Venezuela ad assumere lo status di paese partner.
Gli elementi decisivi della transizione
La Dichiarazione del vertice di Kazan riflette dunque l’esigenza di conciliare diverse inclinazioni all’interno del raggruppamento, senza indulgere in prese di posizione intransigenti o suscettibili di provocare uno scontro diretto con l’Occidente. Non è pertanto un testo radicale o rivoluzionario.
Essa chiede una riforma complessiva delle istituzioni internazionali che faccia emergere un ordine mondiale più “equo, giusto, democratico ed equilibrato”. Nuovi centri di potere, nella sfera economica e politica, sono emersi a livello mondiale – sostiene la Dichiarazione – e richiedono di essere appropriatamente rappresentati.
A tal fine è necessario riformare le Nazioni Unite, incluso il Consiglio di Sicurezza, e le altre istituzioni globali, come l’FMI, la Banca Mondiale e il WTO.
La Dichiarazione chiede l’applicazione del principio di non ingerenza negli affari interni degli altri paesi, affermando che ciascun paese ha il diritto di scegliere il proprio percorso di sviluppo.
Essa afferma che i membri dei BRICS sono “profondamente preoccupati per gli effetti destabilizzanti nei confronti dell’economia mondiale, del commercio internazionale e degli obiettivi di sviluppo sostenibile, causati da misure coercitive unilaterali ed illegittime, comprese le sanzioni illegali”.
Il testo esprime inoltre grande preoccupazione per la situazione di conflitto a Gaza e in Medio Oriente e per la drammaticità della situazione umanitaria, chiede l’immediata applicazione di un cessate il fuoco permanente, condanna gli attacchi israeliani contro gli aiuti ed il personale umanitario, e riconosce le misure provvisorie adottate dalla Corte Internazionale di Giustizia nel procedimento legale avviato dal Sudafrica contro Israele, che contempla l’accusa di genocidio a danno della popolazione di Gaza.
A tal proposito, è importante rilevare che perfino i membri dei BRICS che si sentono più vicini all’Occidente condannano apertamente l’appoggio incondizionato offerto dagli USA e da molti paesi europei all’indiscriminata campagna militare condotta da Israele a Gaza e in Libano.
Essi denunciano la violazione dei principi più elementari del diritto internazionale, così come la predilezione degli Stati Uniti e dei propri alleati a ricorrere all’uso indiscriminato e sproporzionato della forza, sulla base di un fuorviante principio di deterrenza dietro il quale si nasconde l’illusione di poter plasmare a proprio piacimento l’ordine internazionale attraverso l’impiego dello strumento militare.
Il comune desiderio di porre un freno al potere unilaterale dell’Occidente può rivelarsi un potente collante in grado di rafforzare il gruppo dei BRICS al di là delle divergenze esistenti tra i suoi membri.
La sfiducia nei confronti di un ordine internazionale fondato sull’unilateralismo americano e sul predominio di una ristretta élite di paesi, e il raggiungimento di una massa critica da parte delle economie del resto del mondo, possono rivelarsi elementi decisivi per determinare la fine dell’attuale sistema globale a guida americana.
L’interrogativo tuttora senza risposta è se gli Stati Uniti giungeranno a riconoscere la necessità di una pacifica redistribuzione del potere a livello globale, o se si opporranno con ogni mezzo, incluso quello militare, al tramonto della propria egemonia. La condotta tenuta da Washington in Medio Oriente, in questi mesi drammatici, non è di buon augurio.