Breve storia della globalizzazione, dal trionfo unipolare americano al conflitto ucraino
Gli USA vogliono tornare alla logica dei blocchi. L’Europa pagherà un prezzo altissimo
All’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina, Stati Uniti ed Europa hanno imposto sanzioni senza precedenti a Mosca: dal congelamento delle riserve della sua banca centrale, all’estromissione dal sistema finanziario di pagamenti internazionali dello Swift, all’embargo sulle importazioni petrolifere via mare dalla Russia.
Complessivamente, ciò ha avuto l’effetto di spezzare bruscamente un profondo legame commerciale che univa soprattutto Russia ed Europa, un vero e proprio sistema economico integrato che andava dalle materie prime ai prodotti tecnologici.
Mentre l’economia russa sta resistendo allo shock meglio di quanto ci si aspettava in Occidente, il contraccolpo sulle economie occidentali, ed in particolare europee, è stato pesante comportando un’ulteriore impennata dei prezzi energetici, già in aumento prima del conflitto, una minor competitività delle imprese, e nuovo impulso a un’inflazione in crescita costante da mesi.
Ho scritto altrove come una lunga guerra di logoramento in Ucraina serva a ridare slancio ad una Nato fino a poco tempo fa alla deriva ed a rinsaldare il rapporto transatlantico, a scapito tuttavia dell’autonomia e della prosperità europee.
Le sanzioni alla Russia implicano, come conseguenza, un rafforzamento degli Stati Uniti nel ruolo di fornitore di energia e materie prime per il vecchio continente, ma a prezzi mediamente molto più alti.
Inoltre, il prolungamento della guerra congela l’integrazione eurasiatica e impedisce nel vecchio continente la nascita di un’architettura di sicurezza inclusiva della Russia. Mentre consolida il controllo americano sull’Europa occidentale, uccide l’illusione della sovranità e dell’autonomia strategica europea.
La nuova cortina di ferro nel cuore dell’Europa, determinata dal conflitto e dalla guerra economica alla Russia, è tuttavia solo l’ultimo di una serie di shock economici che negli ultimi quindici anni hanno inferto duri colpi alla globalizzazione di matrice americana e al cosiddetto ordine liberale internazionale.
La guerra dei dazi di Trump, la decisione di ridefinire le catene di fornitura globali in senso più regionalizzato (si è parlato di reshoring, nearshoring, friendshoring) a seguito della crisi provocata dal Covid-19, la scelta americana di ricorrere sempre più frequentemente allo strumento delle sanzioni per regolare le dispute con i propri avversari (Iran, Siria, Russia, Cuba, Venezuela, ecc.), sono altrettante misure che hanno progressivamente minato le basi stesse della globalizzazione.
Avendo giocato un ruolo di primo piano nell’adozione di tali misure, si può dire che gli Stati Uniti siano i primi responsabili della crisi del cosiddetto ordine liberale internazionale che essi stessi avevano creato.
Era unipolare americana e trionfo della globalizzazione
Dalla sua nascita al suo declino, la globalizzazione è stata plasmata da scelte discutibili e talvolta scellerate, di cui gli attori economici più fragili – le classi svantaggiate nel Nord industrializzato, e i paesi più poveri del Sud del mondo – hanno spesso pagato il prezzo.
Il modello della globalizzazione aveva pienamente trionfato dopo la fine della Guerra fredda. L’abbattimento delle barriere tariffarie e commerciali, e l’apertura dei confini al flusso dei servizi e dei capitali, furono conseguenza dell’affermarsi delle politiche neoliberiste, diffusesi già a partire dagli anni ’70 del secolo scorso.
Tra gli anni ’80 e ’90, approfittando della crisi di governi soffocati dai debiti e incapaci di competere a livello globale, il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca mondiale avevano imposto nuovi criteri finanziari dapprima ai paesi del Sud del mondo, e poi a quelli dell’Europa dell’Est e dell’ex-Unione sovietica (criteri analoghi sarebbero stati applicati in seguito all’interno stesso dell’Eurozona).
Tali criteri (austerità, privatizzazioni, liberalizzazioni, ecc.) venivano prescritti sotto forma di “condizioni” (conditionalities) che questi paesi dovevano rispettare per accedere ai prestiti delle organizzazioni internazionali ed agli investimenti stranieri.
Nel modello globalizzato, il commercio mondiale era controllato in gran parte da compagnie multinazionali, ed organizzato in catene di fornitura che collegavano la produzione, localizzata (soprattutto nella sua componente meno specializzata) nel Sud del mondo, al consumo finale ed alla sovrastruttura finanziaria del sistema, situati essenzialmente nei paesi “avanzati” dell’emisfero settentrionale.
La delocalizzazione della produzione da parte delle multinazionali aveva spostato la concentrazione di manodopera industriale dal Nord al Sud del mondo, a partire dagli anni ’70.
Il risultato era una struttura piramidale che costringeva moltissimi paesi nel ruolo di fornitori di materie prime e prodotti semilavorati ai paesi più ricchi, ma che allo stesso tempo aveva ridotto le opportunità di impiego ed i salari nelle economie sviluppate, a causa della “concorrenza” delle centinaia di milioni di lavoratori a basso costo forniti da paesi come Cina e India.
In America, i principi dello stato sociale introdotti da Roosevelt negli anni ’30, durante il New Deal, erano stati sacrificati sull’altare della rivoluzione neoliberista di matrice reaganiana, favorendo l’aumento delle disuguaglianze e la finanziarizzazione dell’economia.
Nei paesi occidentali si è assistito a una progressiva deindustrializzazione ed alla precarizzazione del lavoro. Nel mondo anglosassone, in particolare, la deregolamentazione del sistema finanziario e le crescenti disuguaglianze hanno favorito l’indebitamento degli strati più bassi della popolazione.
La globalizzazione economica è stata poi accompagnata da una globalizzazione culturale che ha creato fenomeni di omogeneizzazione senza precedenti. Ciò ha provocato la distruzione di identità culturali sopraffatte dal modello globalizzato dominante incentrato su materialismo e consumismo.
Esplosione delle contraddizioni della globalizzazione
Se gli attacchi dell’11 settembre 2001, e la retorica dello scontro di civiltà che ne seguì, misero in evidenza le contraddizioni culturali del mondo globalizzato, le sue incongruenze economiche si sarebbero manifestate in tutta la loro violenza con la crisi finanziaria del 2008.
Per mantenere il proprio livello di consumi a fronte di una riduzione del loro potere d’acquisto, le classi medio-basse, soprattutto nei paesi anglosassoni, erano state incoraggiate a indebitarsi ricorrendo a prestiti e mutui a tasso variabile, riconfigurati dalle grandi banche sotto forma di prodotti derivati appartenenti all’arsenale della cosiddetta “finanza creativa”.
Il rischio veniva così trasferito agli acquirenti (fondi di investimento, compagnie di assicurazione, fondi pensione, ecc.) di tali prodotti, falsamente classificati come sicuri dalle agenzie di rating. L’eccessivo indebitamento di famiglie e istituzioni finanziarie rese l’intero sistema estremamente vulnerabile: lo scoppio della bolla immobiliare fu sufficiente a farlo deflagrare.
Le cinque principali banche d’investimento americane (Lehman Brothers, Bear Stearns, Merrill Lynch, Goldman Sachs, Morgan Stanley) raggiunsero livelli record di debito. Il panico si diffuse nei mercati, determinando crollo del credito, fallimento di numerose imprese, diminuzione del commercio mondiale, e una prolungata recessione.
Era il tracollo del potere finanziario ed economico statunitense che, sommandosi alle disastrose imprese militari in Iraq e Afghanistan, scuoteva le fondamenta dell’era unipolare americana sorta all’indomani del tramonto sovietico, macchiando l’immagine di Washington in qualità di garante del cosiddetto ordine liberale internazionale.
Il lungo declino americano e l’ascesa cinese
Il collasso del 2008 fu un punto di svolta. Il debito sovrano dei paesi europei raggiunse livelli difficilmente sostenibili. L’intero Occidente andò incontro ad anni di stagnazione economica e alti livelli di disoccupazione. Le misure di austerità in Europa minarono ulteriormente i diritti e il benessere della classe media, alimentando il malcontento ed i movimenti di protesta.
La reazione popolare si era intensificata a partire dalla crisi greca del 2010. Nemmeno un anno dopo, le rivolte arabe travolsero il Mediterraneo.
Le difficoltà dell’Occidente accrebbero l’influenza politica ed economica di altri paesi. La Cina, divenuta la “fabbrica del mondo” all’ombra della globalizzazione americana, si affermò come catalizzatore della crescita nel continente asiatico. L’ascesa di Pechino era stata il risultato di un sistema politico chiuso in grado di aprirsi selettivamente alla competizione globale.
Pur rappresentando modelli di minor successo, paesi come India, Brasile e Russia avevano contribuito a allontanare dall’Occidente il baricentro dell’economia mondiale.
Era Pechino, tuttavia, a costituire una sfida senza precedenti per l’egemonia americana. A differenza dell’Unione Sovietica, la Cina pur essendo un temibile avversario era profondamente integrata con gli Usa e l’Occidente a livello economico e commerciale.
La risposta elaborata da Washington fu di coniugare una strategia economica a quella militare. Quest’ultima prevedeva uno spostamento del baricentro militare statunitense verso il Pacifico (il cosiddetto “pivot verso l’Asia” annunciato dall’amministrazione Obama alla fine del 2011).
La strategia economica prevedeva invece la creazione di due enormi aree di libero scambio: la Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip), che sarebbe divenuta una sorta di Nato economica riunendo le due sponde dell’Atlantico, e la Trans-Pacific Partnership (Tpp), che avrebbe rappresentato il braccio economico dell’annunciato “pivot verso l’Asia”.
Ponendo l’America al centro di due gigantesche aree di libero scambio comprendenti gran parte del commercio mondiale, la Ttip e la Tpp avrebbero isolato economicamente la Cina.
In tali politiche si possono ravvisare i germi delle scelte attuali di Washington, ma anche i primi chiari segnali di una frammentazione della globalizzazione.
I negoziati per la creazione di aree di libero scambio regionali lasciavano infatti presagire la nascita di blocchi economici in reciproca competizione, che avrebbero incrinato la struttura multilaterale della World Trade Organization (Wto).
La battaglia per l’Europa
Alla strategia americana appena citata va poi aggiunto un ulteriore tassello: il tentativo di sottrarre l’Europa alla dipendenza energetica dalla Russia.
Fra il 2006 e il 2008 si era infatti verificata una rivoluzione negli Stati Uniti, grazie all’introduzione della tecnica dell’hydraulic fracturing, più comunemente nota come fracking, che aveva reso possibile lo sfruttamento di enormi giacimenti di shale gas, in precedenza non utilizzabili.
Hillary Clinton, divenuta segretario di Stato nel 2009, aveva deciso di fare della diplomazia energetica uno strumento chiave della politica estera americana, in una logica di contenimento della Russia.
La rivolta di Maidan sostenuta dagli Stati Uniti nel 2014, il rovesciamento del presidente ucraino Viktor Yanukovych, e la conseguente decisione di Mosca di prendere possesso della Crimea, costituirono per Washington un’opportunità per spingere l’Europa ad imporre sanzioni alla Russia ed incoraggiarla a diversificare le proprie fonti energetiche.
Negli Usa vi era chi riteneva che questa diversificazione potesse essere favorita inserendo la dimensione energetica nei negoziati legati alla Ttip. Questi ultimi avrebbero potuto ricevere nuovo slancio grazie alla ritrovata “solidarietà transatlantica” determinata dalla crisi con la Russia.
Ma le cose sarebbero andate diversamente da come si auguravano gli americani. I negoziati relativi sia alla Ttip che alla Tpp fallirono. La prima incontrò forti opposizioni in Europa, e in particolare in Germania. La seconda fu rimessa in discussione proprio dal Congresso americano, sull’onda della crescente ostilità che si respirava negli Usa nei confronti dei trattati di liberalizzazione del commercio mondiale.
Lo shale gas statunitense era poi molto più costoso e complicato da esportare del gas russo, dovendo essere liquefatto e trasportato dalle navi gasiere invece che attraverso economici gasdotti. Inoltre, non esisteva nei paesi europei un’adeguata rete infrastrutturale per ricevere il gas liquefatto.
Mentre l’ascesa della Cina apriva nuove opportunità di mercato per l’Europa, negli ambienti politici francesi e tedeschi rimaneva vivo il sogno di un rapporto di collaborazione con la Russia.
Il declino americano poneva Washington di fronte a due alternative poco allettanti: lasciar procedere l’integrazione eurasiatica, ritrovandosi con un’Europa sempre meno legata al rapporto transatlantico, oppure reclamare la propria supremazia sul vecchio continente favorendo però la nascita di un asse russo-cinese.
La prima prospettiva, oltre che nel consolidarsi di un legame economico russo-europeo, si stava incarnando sempre più concretamente nel progetto della Belt and Road Initiative, la cosiddetta nuova via della seta cinese, un gigantesco progetto infrastrutturale che avrebbe collegato i principali mercati della massa eurasiatica, avendo come proprio terminale ultimo l’Europa.
Rivalità tecnologica e commerciale con Pechino
Obama, dopo aver annunciato il “pivot verso l’Asia”, aveva invece rivolto la propria attenzione al Medio Oriente squassato dalle rivolte arabe e dai conflitti che ne erano seguiti, e poi alla crisi ucraina del 2014 ed alla rinnovata rivalità con la Russia. Il suo successore Donald Trump si sarebbe invece concentrato proprio sul gigante cinese.
Ostile alla globalizzazione nel suo complesso, ed all’insegna dello slogan “America first”, Trump aveva lanciato una guerra commerciale contro Pechino, ma anche contro gli stessi alleati degli Usa, a partire dal 2018.
Una svolta senza precedenti si ebbe però nel maggio dell’anno dopo, allorché il presidente americano inserì il gigante cinese delle telecomunicazioni Huawei nella lista dei soggetti a cui le compagnie americane non possono vendere tecnologia.
Degli oltre 90 fornitori principali di Huawei, più di un terzo erano americani, producendo elementi essenziali per la rete 5G del colosso cinese. Il bando di Trump, oltre a puntare ad estromettere Huawei dall’Europa, colpiva il cuore tecnologico della globalizzazione.
Al pari delle altre, le catene di fornitura tecnologiche si erano consolidate all’ombra dell’incontrastato dominio unipolare americano. L’emergere di catene di fornitura globali aveva come unico obiettivo quello di massimizzare l’efficienza economica, sulla base dell’illusione che il commercio non sarebbe stato più soggetto ai rischi della competizione fra grandi potenze. Con il declinare dell’egemonia americana, le vulnerabilità strategiche di queste catene di fornitura sono però cominciate ad emergere.
Le catene di fornitura sono infatti reti di produzione i cui punti nodali possono essere maggiormente soggetti al controllo di alcuni paesi piuttosto che di altri. Se la nazione che gestisce questi nodi decide di bloccarli, può paralizzare l’intera rete o una sua parte, impedendo ad altri di fruirne – come fece Trump nel caso di Huawei.
Ciò avrebbe però determinato inevitabilmente la nascita di catene di fornitura alternative, meno globalizzate e perciò più “resilienti” agli shock geopolitici, portando però a un aumento dei costi e dunque a una minore efficienza. Era un ulteriore passo in direzione di una progressiva frammentazione della globalizzazione.
Se il bando di Trump diede l’avvio alla ridefinizione delle catene di fornitura tecnologiche, i dazi imposti a partire dal 2018 su materiali come acciaio e alluminio, pur favorendo la produzione e la manodopera statunitense, determinarono maggiori costi per i consumatori americani.
Malgrado questi effetti collaterali, l’amministrazione Biden non soltanto non ha invertito la rotta in materia di guerra dei dazi, ma ha imposto sanzioni a più di una ventina di produttori cinesi di microchip.
La guerra tecnologica avviata dagli Usa non ha portato vantaggi significativi, spingendo anzi Pechino a sviluppare una propria industria dei semiconduttori sempre più autonoma, ed anzi ha determinato una carenza di microchip in Europa e in America, dando un’ulteriore spinta all’inflazione.
Covid-19: un’ “opportunità” per ridefinire la globalizzazione
La crisi del Covid-19 ha ulteriormente favorito la frammentazione della globalizzazione e il divorzio Usa-Cina. I provvedimenti adottati in risposta all’epidemia – lockdown, blocco della produzione e dei consumi, chiusura dei confini – hanno colpito in maniera sproporzionata le classi più povere ed i paesi economicamente in difficoltà.
La chiusura delle frontiere, l’interruzione dei voli, e il blocco degli spostamenti interni, hanno mandato in tilt le catene di fornitura internazionali, e rappresentato un’ulteriore spinta verso un rimpatrio (reshoring) della produzione, o quantomeno verso una ridefinizione di tali catene in senso più regionalizzato – una tendenza che, come abbiamo visto, era già in atto, incoraggiata dagli Stati Uniti.
Complessivamente, gli effetti sono stati devastanti. Nei paesi occidentali, già piagati da livelli crescenti di disuguaglianza, le misure restrittive imposte dai governi hanno favorito un’ulteriore concentrazione del capitale, scavando un solco fra “vincitori” e “vinti” della crisi pandemica.
Negli Stati Uniti, ma anche in Europa, mentre ristoranti, negozi e piccole imprese, dichiarati non essenziali, chiudevano per rispettare il lockdown, grandi gruppi come Amazon, Walmart, Instacart, McDonald’s, si impadronivano delle loro quote di mercato.
In America, le grandi corporation sono state addirittura aiutate dal governo tramite provvedimenti di stimolo all’economia che sono andati in gran parte a loro vantaggio.
I giganti della Big Tech, come Alphabet, Microsoft, Amazon, Apple e Facebook, hanno tratto enorme profitto dal trasferimento online di molte attività lavorative, dell’istruzione, dello shopping e di altri servizi.
Nel frattempo, i lavoratori manuali impiegati nell’industria, nella logistica, nel turismo, nella ristorazione, e in altri settori che richiedono una presenza fisica, e le piccole e medie imprese su entrambe le sponde dell’Atlantico, sono i soggetti che hanno sopportato il peso maggiore della crisi ed i suoi costi economici.
Ma l’impatto più duro delle misure “anti-pandemia” avrebbe interessato i paesi emergenti. Nel novembre del 2020, un articolo del Los Angeles Times ammoniva che la devastazione economica causata da tali misure avrebbe potuto uccidere più persone del virus, tra le fasce più povere della popolazione mondiale.
L’articolo citava una previsione dell’Onu in base alla quale 420 milioni di persone sarebbero sprofondate nella povertà assoluta in conseguenza della recessione globale determinata dalla crisi pandemica.
L’Fmi ed altre istituzioni economiche internazionali hanno ammonito che il Sud del mondo sarebbe andato incontro ad una crisi del debito senza precedenti.
La fine dei lockdown in Occidente ha poi determinato una ripresa della domanda nei paesi industrializzati, tuttavia in presenza di persistenti turbolenze legate alla ridefinizione delle catene di fornitura. Assieme all’aumento dei prezzi energetici, dovuto a scarsi investimenti nel settore e ad una mal concepita “transizione ecologica”, ciò ha determinato una nuova fiammata dell’inflazione negli Usa e in Europa.
Una verità lapalissiana: la crisi economica occidentale precede il conflitto ucraino
Alla vigilia del conflitto ucraino, dunque, le economie occidentali erano già afflitte da problemi energetici e di approvvigionamento delle merci, oltre che da una inarrestabile crisi del debito mai risolta dal 2008, e aggravata dalle conseguenze del Covid-19.
La risposta delle banche centrali a quest’ultima crisi era stata ancora una volta quella di iniettare liquidità nel sistema, mentre gli stati si erano ulteriormente indebitati.
In un’economia in cui i debiti complessivi erano molto maggiori dell’offerta di valuta, la risposta era stata invariabilmente quella di “stampare” nuova moneta e garantire le passività con nuove passività.
Negli ultimi quarant’anni, l’aumento del debito è sempre stato compensato con una riduzione dei tassi di interesse in modo da diminuire il costo dell’indebitamento. Ciò ha prodotto nuove bolle speculative, senza risolvere i problemi strutturali alla base della crisi. Alla fine, le principali banche centrali occidentali si sono trovate in trappola, raggiungendo tassi di interesse nulli o addirittura negativi senza aver intaccato la montagna del debito.
Ciò significava, fra l’altro, che qualsiasi crisi di produttività, dovuta a scarsi investimenti nelle materie prime o nel settore energetico, o a problemi di funzionamento dei mercati globali, avrebbe determinato un’ondata inflattiva difficile da contenere con un aumento dei tassi di interesse.
Ed è esattamente questa la situazione in cui le economie occidentali sono venute a trovarsi già prima dello scoppio del conflitto ucraino. Le sanzioni imposte alla Russia, creando ulteriore sconquasso nel mercato energetico e nelle catene di fornitura delle materie prime, si sono rivelate controproducenti, aggravando una situazione economica già precaria in Occidente.
Il disastroso esito delle sanzioni contro la Russia
Obiettivo delle sanzioni volute da Washington era creare una nuova cortina di ferro, isolando Mosca dall’Europa e, possibilmente, favorendo una crisi economica e politica all’interno della Federazione russa, che a sua volta avrebbe colpito indirettamente la Cina avendo messo in difficoltà il suo principale alleato.
Come abbiamo visto, negli ultimi anni gli Stati Uniti non hanno esitato a ricorrere a dazi, sanzioni ed altre armi economiche per tentare di contenere i propri rivali, anche a scapito del libero mercato e del cosiddetto ordine liberale internazionale.
Il libero mercato, infatti, ben si addice ad una potenza egemone, mentre un’economia declinante (com’è attualmente quella americana) o in via di sviluppo si protegge con strumenti come dazi e sussidi.
Le sanzioni si sono tuttavia rivelate un boomerang. L’esclusione di Mosca dallo Swift ha raddoppiato gli sforzi russi di creare circuiti finanziari alternativi assieme alla Cina e ad altre potenze emergenti.
Al congelamento delle riserve della propria banca centrale, ed alla confisca di beni russi, Mosca ha reagito avanzando una legislazione per nazionalizzare gli investimenti delle imprese straniere che hanno lasciato il paese.
Lo stop degli scambi commerciali fra Europa e Russia ha fatto sì che le importazioni russe calassero mentre le esportazioni di gas e petrolio proseguivano, rafforzando così il rublo invece di determinarne il crollo. Mosca sta puntando inoltre su politiche di sostituzione delle importazioni. L’effetto finale sarà che gli esportatori europei avranno perso definitivamente il mercato russo.
Le esportazioni energetiche russe, inoltre, si stanno riorientando verso l’Asia, in particolare verso Cina e India. Mosca è diventata il primo fornitore petrolifero di Pechino. E, a causa dell’aumento dei prezzi energetici, la Russia guadagna ancor più di quanto ricavava prima del conflitto.
Nel frattempo, l’Europa si trova a dover cercare affannosamente nuovi fornitori a prezzi molto più alti. Ciò accresce ulteriormente l’inflazione, e sta rendendo le imprese europee scarsamente competitive a causa dell’aumento dei costi di produzione, spingendone molte sull’orlo della chiusura.
Assistiamo dunque a un ulteriore smantellamento della globalizzazione, e ad un progressivo decoupling (cioè, a un divorzio) fra l’Occidente e il mondo non occidentale guidato da un asse composto da Cina e Russia.
Tramonto dell’Occidente?
Il principale sconfitto di questo processo è l’Europa, privata di importanti mercati e delle proprie fonti di materie prime a basso costo, e sempre più dipendente dagli Stati Uniti.
I due blocchi contrapposti che si stanno consolidando, inoltre, presentano impostazioni economiche differenti.
L’Occidente, tecnologicamente più avanzato in alcuni settori, è dominato da un capitalismo finanziario, fortemente indebitato, e caratterizzato da ridotta base industriale e scarsità di materie prime.
Il blocco non occidentale, dominato dall’asse Cina-Russia, al quale afferiscono anche paesi come India e Iran, insegue in alcuni settori tecnologicamente avanzati, ma ha una solida base industriale e grande ricchezza di fonti energetiche e materie prime.
Come ha scritto l’economista Zoltan Pozsar in un recente rapporto del Credit Suisse, “puoi stampare denaro, ma non petrolio per riscaldare o grano per mangiare”.
In altre parole, il tema delle materie prime, ovvero di risorse reali come cibo, energia, e minerali, sarà centrale nel nuovo panorama internazionale, e l’Occidente continuerà ad averne bisogno, anche nella prospettiva, al momento improbabile, di una reale implementazione della cosiddetta “transizione ecologica” (la quale richiede metalli e “terre rare”, e si basa in ogni caso su fonti energetiche meno efficienti e più costose di quelle tradizionali).
Come ha scritto Poszar:
“Le banche centrali sono brave a frenare la domanda, non a stimolare l'offerta. Energia e materie prime sono necessarie praticamente per tutto, la Russia esporta ogni cosa e, a differenza del 1973, non è solo il prezzo del petrolio, ma il prezzo di ciascuna cosa che sta aumentando”.
Con la crescita dei costi, la ridefinizione delle catene di fornitura (ed in particolare di quelle petrolifere) è destinata a rendere l’Occidente, e in primo luogo il vecchio continente, meno competitivi.
Se l’Europa è il principale sconfitto, anche Washington pagherà un prezzo salato sul lungo periodo. La decisione di utilizzare l’egemonia del dollaro come un’arma, imponendo sanzioni internazionali, congelando le riserve valutarie di altre nazioni, ed estromettendo i propri avversari dal circuito dello Swift, porterà molti paesi a non considerare più il dollaro come un bene rifugio, e a diversificare lontano dal biglietto verde le riserve delle proprie banche centrali.
Se il dollaro sarà privato del proprio ruolo di valuta di riserva internazionale, l’economia statunitense perderà quel “privilegio esorbitante” (di cui aveva parlato il ministro delle finanze francese, Valéry Giscard d'Estaing, già negli anni ’60 del secolo scorso) concessole dal ruolo egemone della valuta americana: il vantaggio di poter stampare a costo zero quei dollari che tutti gli altri paesi devono procurarsi, producendo beni e servizi, per sostenere le proprie valute e commerciare a livello internazionale.
Sarebbe l’episodio conclusivo della parabola americana, a suggello di decenni di politiche economiche disastrose che, pur depredando l’intero pianeta, hanno portato l’Occidente sull’orlo del baratro.