Blinken: eccezionalismo USA, scontro fra grandi potenze, e guerra a oltranza in Ucraina
Col tramonto dell’egemonia unipolare americana, il manicheismo di Washington richiede un mondo diviso, e un conflitto armato di lunga durata che perpetui questa divisione.
“Ciò che stiamo vivendo oggi è ben più di una messa alla prova dell’ordine mondiale post-Guerra Fredda, è la sua fine”.
A pronunciare queste parole è stato il segretario di Stato USA Antony Blinken, in un discorso tenuto il 13 settembre alla Johns Hopkins School of Advanced International Studies (SAIS), uno dei “templi” del pensiero strategico americano.
La SAIS fu fondata nel 1943 da Paul Nitze, considerato uno degli architetti della politica di difesa americana durante la Guerra Fredda. Nitze fu il principale autore dell’NSC 68, un documento del Consiglio per la Sicurezza Nazionale che pose le basi per la militarizzazione della Guerra Fredda dal 1950 in poi, con l’espansione del bilancio del Pentagono, lo sviluppo della bomba all’idrogeno e l’incremento degli aiuti militari agli alleati di Washington.
Settantatré anni dopo, Blinken ci pone di fronte alla prospettiva di una nuova, e forse più pericolosa, guerra fredda contro non una, ma due potenze nucleari: Russia e Cina.
Quella di Blinken non è una visione personale, ma riflette quanto già affermato nella Strategia di Sicurezza Nazionale formulata dall’amministrazione Biden nell’ottobre del 2022.
Una crisi senza cause apparenti
Di fronte alla platea della SAIS, Blinken ha decretato la fine dell’era unipolare americana, e l’inizio di una cupa fase di conflitto.
Secondo il segretario di Stato, la fine della Guerra Fredda aveva “portato con sé la promessa di una marcia inesorabile verso una maggiore pace e stabilità, cooperazione internazionale, interdipendenza economica, liberalizzazione politica, e diritti umani”.
Tuttavia, “decenni di relativa stabilità geopolitica hanno lasciato il posto a una crescente competizione con potenze autoritarie e revisioniste”.
Blinken non spiega come ciò sia accaduto, e non fa alcuna autocritica.
Trent’anni di globalizzazione all’insegna della deregolamentazione dei mercati, di ortodossia neoliberista che ha tagliato le tasse alle grandi imprese e favorito le classi più ricche, di delocalizzazione della produzione e conseguente deindustrializzazione che ha duramente colpito la classe lavoratrice, non vengono neanche marginalmente considerati nel discorso di Blinken.
La continua erosione dei salari, della produttività e della partecipazione della forza lavoro, l’aumento esponenziale delle disuguaglianze, la promozione di un’economia di consumo di massa fondata in ultima analisi sul crescente indebitamento degli USA, sono elementi che il segretario di Stato tralascia completamente.
Trent’anni di avventurismo militare, dall’Iraq, ai Balcani, all’Afghanistan, e di interventi diretti o indiretti in Libia, Siria, Yemen, hanno avuto un ruolo determinante nel delegittimare lo status di potenza egemone, e di “leader del mondo libero”, che gli Stati Uniti si attribuivano.
Blinken non fa alcuna menzione di questi fattori che hanno contribuito ad accelerare il tramonto della supremazia unipolare americana.
La sua spiegazione è molto più semplice: “Una manciata di governi che hanno utilizzato sussidi al di fuori delle regole, proprietà intellettuale trafugata, ed altre pratiche distorsive del mercato per ottenere un vantaggio sleale in settori chiave” sono citati fra i responsabili della progressiva perdita di fiducia nell’ordine economico internazionale.
Altri elementi vengono citati da Blinken – le trasformazioni tecnologiche, le disuguaglianze – ma senza in alcun modo indagarne le cause. Si ha la sensazione che si tratti di eventi ineluttabili che è superfluo approfondire.
La “minaccia delle autocrazie”
Per il segretario di Stato americano, le democrazie “sono minacciate” – non dalle scelte compiute dalle élite politiche che le hanno governate in questi decenni, dalla corruzione del processo democratico, e dalla progressiva limitazione dei diritti sotto la spinta di continue ‘emergenze’ terroristiche, economiche, e di altra natura – ma da leader “che sfruttano risentimenti e alimentano paure, erodono magistrature e media indipendenti, arricchiscono reti clientelari, reprimono la società civile e l’opposizione politica”.
Inoltre le democrazie sono minacciate dall’esterno “da autocrati che diffondono disinformazione, usano la corruzione come arma, interferiscono nelle elezioni”.
Fra questi attori, Blinken individua immediatamente i due principali responsabili:
“La guerra di aggressione della Russia in Ucraina rappresenta la minaccia più immediata e più acuta all’ordine internazionale sancito dalla Carta delle Nazioni Unite e dai suoi principi fondamentali di sovranità, integrità territoriale e indipendenza per le nazioni, e diritti umani universali e indivisibili per gli individui”.
“Nel frattempo, la Repubblica popolare cinese rappresenta la più significativa sfida a lungo termine perché non solo aspira a rimodellare l’ordine internazionale, ma sempre più dispone del potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per far proprio questo”.
Il 2 aprile 1917, il presidente Woodrow Wilson si rivolse a una sessione congiunta del Congresso americano per chiedere una dichiarazione di guerra contro la Germania, allo scopo di “rendere il mondo sicuro per la democrazia” (secondo quello che in realtà era uno slogan creato da Edward Bernays, esperto di marketing e nipote di Freud, considerato il padre delle “pubbliche relazioni”, e uno degli ideatori della propaganda americana durante il primo conflitto mondiale).
Blinken capovolge lo slogan di Wilson e Bernays, affermando che “Pechino e Mosca stanno lavorando insieme per rendere il mondo sicuro per l’autocrazia attraverso la loro ‘partnership senza limiti’”.
“Ci troviamo quindi in quello che il presidente Biden chiama un punto di svolta. Un’era sta finendo, ne sta iniziando una nuova, e le decisioni che prendiamo ora plasmeranno il futuro per decenni a venire”.
La missione “eccezionale” degli USA
Nella visione manichea del segretario di Stato USA, di fronte a questa sfida non vi è altra strada che quella della contrapposizione.
Non avendo compiuto alcuna analisi sulle ragioni della crisi americana, Blinken non ha difficoltà ad affermare che in questa sfida gli Stati Uniti partono da una “posizione di forza”.
Aderendo pienamente ai principi dell’eccezionalismo USA, egli afferma che “abbiamo dimostrato più e più volte che quando l’America si unisce, possiamo fare qualsiasi cosa”, e che “nessuna nazione sulla Terra ha una maggiore capacità di mobilitare le altre per una causa comune”.
Tale causa consiste nella promozione di un mondo capitalistico idealizzato:
“Un mondo in cui gli individui sono liberi nella vita quotidiana e possono plasmare il proprio futuro, le proprie comunità, i propri paesi”.
“Un mondo in cui ogni nazione può scegliere la propria strada e i propri partner”.
“Un mondo in cui beni, idee, e individui possono circolare liberamente e legalmente per terra, mare, cielo, e cyberspazio, dove la tecnologia viene utilizzata per conferire potere alle persone, non per dividerle, sorvegliarle e reprimerle”.
“Un mondo in cui l’economia globale è definita da concorrenza leale, apertura, trasparenza, e dove la prosperità non si misura solo secondo il livello di crescita delle economie dei paesi, ma secondo il numero di persone che beneficiano di tale crescita”.
“Un mondo che genera una corsa verso l’alto negli standard lavorativi e ambientali, nella sanità, nell’istruzione, nelle infrastrutture, nella tecnologia, nella sicurezza e nelle opportunità”.
“Un mondo in cui il diritto internazionale e i principi fondamentali della Carta delle Nazioni Unite siano osservati, e in cui i diritti umani universali siano rispettati”.
Che le politiche americane in questi decenni abbiano perseguito e raggiunto obiettivi spesso opposti alla visione idilliaca prospettata da Blinken non è questione che il segretario di Stato ha ritenuto utile affrontare nel suo discorso.
In questa visione in bianco e nero, gli avversari di Washington hanno naturalmente concezioni totalmente contrapposte:
“Essi vedono un mondo definito da un unico imperativo: preservazione e arricchimento del regime. Un mondo in cui gli autoritari sono liberi di controllare, costringere e schiacciare la propria gente, i propri vicini, e chiunque altro ostacoli questo obiettivo totalizzante”.
La visione americana ha valore universale. Chi la contraddice, contraddice principi assoluti:
“I nostri competitori affermano che l’ordine esistente è un’imposizione occidentale, quando in realtà le norme e i valori che lo definiscono hanno un’aspirazione universale – e sono sanciti dal diritto internazionale a cui essi hanno aderito. Costoro affermano che ciò che i governi fanno all’interno dei propri confini è di loro esclusiva competenza, e che i diritti umani sono valori soggettivi che variano da una società all’altra. Essi ritengono che i grandi paesi abbiano diritto a sfere di influenza – che il potere e la vicinanza diano loro la prerogativa di dettare le proprie scelte agli altri”.
Riaffermare il primato di Washington
Una volta appurato che sostanzialmente non vi è dialogo né mediazione possibile con gli avversari dell’America, Blinken passa ad enunciare il piano volto a far prevalere gli Stati Uniti in questa nuova competizione fra grandi potenze.
Nel far ciò, egli elabora ulteriormente i principi enunciati da due suoi colleghi all’interno dell’amministrazione Biden, il segretario al Tesoro Janet Yellen, e il Consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan.
La prima aveva parlato di una forma attenuata di “disaccoppiamento” dalla Cina denominata “de-risking”, ovvero la riduzione dei rischi derivanti da una sovraesposizione delle catene di fornitura occidentali alla Cina.
Il secondo aveva per la prima volta messo in discussione alcuni dogmi neoliberisti del “Washington Consensus”, puntando a “rinnovare la leadership economica americana” attraverso l’introduzione di dazi e sussidi, ed altre misure di politiche industriale (senza tuttavia accennare ad alcuna politica sociale minimamente in grado di affrontare lo squilibrio fra capitale e lavoro in patria).
Partendo da queste basi, Blinken enuncia una strategia volta in primo luogo a rafforzare gli USA al proprio interno, attraverso le già citate misure di protezionismo e politica industriale, a cui affiancare provvedimenti finalizzati al reshoring (ritorno in patria della produzione manifatturiera) e friend-shoring (ridefinizione delle catene di fornitura in modo da riportarle nell’alveo delle alleanze americane).
A questa politica di rafforzamento interno è inscindibilmente legata una strategia di consolidamento delle alleanze all’estero (in primo luogo con gli amici storici di Washington in Europa e nel Pacifico), e di tessitura di nuovi legami con i paesi del Sud del mondo, per sottrarli all’influenza russo-cinese, ed assicurarsi le materie prime necessarie a garantire le catene di fornitura occidentali, la transizione energetica, e gli altri traguardi tecnologici della cosiddetta “quarta rivoluzione industriale”.
Strategia “a geometria variabile”
In questo quadro di rafforzamento delle alleanze, secondo Blinken gli USA devono puntare in primo luogo a rinvigorire la NATO (operazione nella quale il conflitto ucraino gioca un ruolo chiave), il G7 (da egli definito “il comitato direttivo delle democrazie più avanzate al mondo”), e l’UE, oltre a rinsaldare alcune alleanze bilaterali – in particolare con Giappone, Corea del Sud, Israele, Australia, Filippine, India, Vietnam.
In tale sforzo, gli USA devono basarsi su una diplomazia “a geometria variabile” che, nelle parole di Blinken, può essere riassunta così: “per ogni problema, stiamo mettendo insieme una coalizione adatta allo scopo”.
Per il segretario di Stato, più di 50 paesi stanno cooperando per sostenere la difesa dell’Ucraina e costruire un esercito ucraino sufficientemente forte da scoraggiare futuri attacchi.
“Abbiamo coordinato il G7, l’Unione Europea e decine di altri paesi per sostenere l’economia dell’Ucraina e ricostruire la sua rete energetica, più della metà della quale è stata distrutta dalla Russia”.
“Nel frattempo, i paesi europei, il Canada, e altri, si sono uniti ai nostri alleati e partner in Asia per affinare i loro strumenti volti a contrastare la coercizione economica della Repubblica popolare cinese. E gli alleati e i partner degli Stati Uniti in ogni regione stanno lavorando urgentemente per costruire catene di fornitura resilienti, in particolare riguardo alle tecnologie chiave ed ai materiali cruciali per realizzarle”.
Cardine di questa diplomazia a geometria variabile sono i cosiddetti “minilaterals”, accordi “minilaterali” che riuniscono pochi paesi per perseguire obiettivi limitati.
Molti di questi accordi sono in realtà intesi come strumenti che, pur operando distintamente, sono volti nel loro insieme a contenere la Cina, nell’impossibilità di costruire un unico fronte anticinese esteso.
Fra essi spiccano l’AUKUS (patto di sicurezza fra USA, Regno Unito ed Australia volto a far acquisire a quest’ultima sottomarini nucleari), il Quad (partnership diplomatica e militare fra Australia, India, Giappone e USA), e la recente intesa trilaterale fra USA, Corea del Sud e Giappone.
A questi mini-accordi si affiancano partnership più estese come la Partnership of Global Infrastructure and Investment (PGII), il Lobito Corridor in Africa, e l’IMEC, corridoio economico fra India, Medio Oriente ed Europa recentemente lanciato da Wahington al G20.
Tali collaborazioni hanno l’aspirazione di contrastare la Belt and Road Initiative (BRI) cinese, pur non avendone la portata né un equiparabile volume di finanziamenti.
La guerra ucraina come “cardine” del nuovo scontro mondiale
Cerniera essenziale di questa nuova “guerra fredda”, che (sebbene in maniera ancora confusa) vede l’emergere di un’inedita contrapposizione fra blocchi, è il conflitto ucraino.
Nelle già citate parole di Blinken, “la guerra di aggressione della Russia in Ucraina rappresenta la minaccia più immediata e acuta all’ordine internazionale sancito dalla Carta delle Nazioni Unite”.
Egli sottolinea il valore “globale” di tale conflitto, affermando che “l’invasione della Russia ha messo in chiaro che un attacco all’ordine internazionale danneggerà i popoli ovunque”.
E, per certi versi, egli riconosce che, senza questa guerra, gli USA non sarebbero stati in grado di mobilitare i propri alleati nella nuova competizione fra grandi potenze: “Abbiamo sfruttato questa presa di coscienza per riunire i nostri alleati transatlantici e dell’Indo-Pacifico nella difesa della nostra sicurezza, prosperità e libertà condivise”.
Secondo la narrazione di Blinken, “la guerra di Putin continua ad essere un fallimento strategico per la Russia”, anche grazie “al notevole coraggio e alla resilienza del popolo ucraino, e al nostro sostegno”.
La guerra ucraina ha dunque assunto un valore cruciale nella nuova narrazione di Washington.
Avendo l’amministrazione Biden annunciato un inedito scontro globale fra l’Occidente e le potenze “autocratiche e revisioniste” di Russia e Cina, una sconfitta in Ucraina rappresenterebbe un colpo durissimo per la traballante reputazione degli Stati Uniti in questa sfida appena lanciata.
Come ho scritto in un recente articolo,
gli USA hanno a tal punto investito la loro credibilità in questo conflitto, lasciandosi coinvolgere militarmente oltre ogni ragionevole cautela, che un’eventuale vittoria della Russia in Ucraina sarà devastante per il prestigio di Washington e per la coesione del fronte occidentale e della NATO.
Irruzione della realtà
Tuttavia, in Ucraina sono proprio gli eventi sul terreno a non evolvere come Washington si augurava. Pur rifiutando ogni soluzione negoziale, la Casa Bianca non ha una chiara visione di come portare avanti il conflitto.
La controffensiva ucraina estiva ha ottenuto conquiste territoriali minime a fronte di enormi perdite in termini di uomini e mezzi, in massima parte infrangendosi contro l’impressionante sistema di strutture difensive costruito da Mosca.
Se Kiev è ormai drammaticamente a corto di nuove reclute da mandare al fronte, i paesi occidentali che sostengono l’Ucraina stanno seriamente intaccando i propri arsenali, mentre i ritmi di produzione della loro industria bellica non sono al momento in grado di competere con quella russa.
Di fronte a questa realtà, i diversi esponenti dell’amministrazione Biden, da Blinken allo stesso presidente e ad altri, continuano a ripetere il medesimo vago ritornello: gli USA appoggeranno l’Ucraina “per tutto il tempo necessario”.
Dietro l’ostentata sicurezza, vi è tuttavia la crescente (seppur tardiva) presa di coscienza che le tattiche fin qui adottate non hanno funzionato, e che è necessario un cambio di strategia.
La carenza di proiettili di artiglieria e di altri tipi di munizionamento, così come la penuria di uomini, impediranno nei prossimi mesi un’offensiva su vasta scala come quella tentata quest’estate.
Le limitate disponibilità degli arsenali occidentali, e una serie di appuntamenti elettorali che culmineranno con le presidenziali americane del novembre 2024, probabilmente ridimensioneranno il flusso di aiuti militari occidentali diretti a Kiev.
Necessariamente si tornerà ad una guerra di logoramento, nella quale gli ucraini saranno costretti più a difendersi che ad attaccare. Gli strateghi americani stanno già estendendo l’orizzonte temporale del conflitto nelle loro previsioni.
Impasse strategica e rischi di escalation
Allo stesso tempo, l’attenzione dei vertici militari occidentali si sta spostando sugli attacchi con missili a lungo raggio, come gli Storm Shadow britannici, in grado di colpire le retrovie russe e scompaginare le linee di rifornimento di Mosca.
Ciò sta già avvenendo in Crimea. Simili attacchi, tuttavia, non solo vengono effettuati con armi NATO, ma con supporto logistico e di intelligence occidentale, segnando un ulteriore grado di coinvolgimento degli USA e dei loro alleati nel conflitto.
Come ha scritto Hal Brands, docente presso la stessa SAIS dove Blinken ha pronunciato il suo recente discorso, un’intensificazione degli attacchi a lungo raggio, accompagnata dalla prospettiva di una guerra a più lungo termine, comporta l’accettazione di maggiori rischi di escalation.
Tale cambio di strategia, peraltro, molto difficilmente muterà le sorti dello scontro armato. Dopo il fallimento dell’offensiva di quest’estate, Kiev vede crollare le possibilità di riconquistare i territori perduti e si avvia verso una lunga guerra difensiva, che continuerà a prosciugare le sue risorse.
Gli attacchi in profondità in Crimea e in territorio russo, a prescindere dal rischio di escalation che comportano, non altereranno in maniera significativa l’andamento di un conflitto che sta volgendo al peggio per l’Ucraina.
La guerra a oltranza che Washington vuole sostenere nel paese porterà nuove tragedie e un fardello sempre più insostenibile per Kiev, ulteriori rischi di estensione del conflitto, e un progressivo deterioramento del clima internazionale, senza tirar fuori gli USA dal vicolo cieco strategico in cui si sono cacciati.