India: il G20 come paradigma della frammentazione internazionale
Putin e Xi disertano. Washington corteggia Nuova Delhi. India, Emirati e Arabia Saudita giocano su due tavoli. Italia, Francia e Germania sperano in un velleitario corridoio economico.
Il vertice del G20 tenutosi il 9 e 10 settembre a Nuova Delhi, in India, poco più di due settimane dopo quello dei BRICS svoltosi a fine agosto in Sudafrica, ha confermato l’esistenza di profonde divisioni fra le principali potenze mondiali, di una crescente competizione a livello internazionale, e di gravi fratture nel tessuto della globalizzazione.
Mettendo a confronto i due vertici, si ha un perfetto esempio di quello che potrà essere il nascente mondo multipolare, un mondo (come avevo accennato nel mio articolo precedente) caratterizzato da blocchi non sempre definiti, da alleanze variabili, e da paesi – soprattutto le “medie potenze” – che giocheranno su più tavoli, giostrandosi fra i diversi blocchi senza aderirvi pienamente. Si tratta dei cosiddetti swing states, come sono stati talvolta definiti.
Il vertice del G20 si è contraddistinto per l’assenza del presidente russo Putin e di quello cinese Xi Jinping, per la difficoltà di giungere a una posizione unanime sul conflitto ucraino, per il ruolo da protagonista giocato dall’India (palesemente corteggiata da Washington come potenziale contrappeso alla Cina), per l’importante ingresso nel gruppo dell’Unione Africana, e per l’annuncio di un nuovo corridoio economico che dovrebbe collegare l’Europa all’India attraverso il Medio Oriente, e che molti hanno visto come un’iniziativa in chiara competizione con la Belt and Road Initiative (BRI) cinese.
La lenta ascesa del Sud del mondo
Il G20 emerse nel 1999, dopo la crisi finanziaria asiatica, come un forum dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali. Il suo obiettivo era di riunire i più importanti paesi industrializzati ed in via di sviluppo per discutere questioni legate alla stabilità finanziaria ed economica internazionale.
Per far fronte alla crisi del 2008, il gruppo fu rafforzato introducendo un vertice annuale a livello dei capi di stato e di governo. Esso comprendeva 19 paesi (Arabia Saudita, Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Corea del Sud, Francia, Germania, India, Indonesia, Italia, Giappone, Messico, Regno Unito, Russia, Stati Uniti, Sudafrica, Turchia) e l’Unione Europea.
Dopo aver dato un importante contributo a contenere gli effetti più gravi del tracollo del 2008, il G20 era stato criticato negli anni successivi per la sua scarsa incisività, ed in particolare per la sua risposta inadeguata alla crisi determinata dal Covid-19.
Fin dalla sua nascita, il gruppo ha rappresentato abbastanza stabilmente circa l’80% del PIL mondiale, oltre il 75% del commercio internazionale, e circa due terzi della popolazione del pianeta. Con l’ingresso dell’Unione Africana (UA), organizzazione che comprende 55 paesi e circa un miliardo e mezzo di persone, il G20 acquisisce effettivamente una dimensione globale. Ma la sua reale efficacia rimane un’incognita.
Washington cerca di correggere la rotta
L’appoggio all’adesione dell’UA al G20 era stato ufficializzato dal presidente americano Biden durante il vertice USA-Africa dello scorso dicembre. L’allargamento del G20 costituisce senza dubbio una risposta a raggruppamenti come quello dei BRICS.
L’incredibile ascesa di quest’ultimo, che proprio al recente vertice in Sudafrica ha annunciato l’inclusione di ben 6 nuovi membri, aveva suscitato a Washington il timore che il G20 potesse scivolare verso una progressiva irrilevanza.
La Casa Bianca ha però compreso che proprio il G20 rappresentava l’unico forum che avrebbe potuto permettere all’Occidente di riconnettersi con il Sud del mondo.
Ciò a cui stiamo assistendo è in effetti un tentativo di correggere la rotta da parte di Washington, tornando a blandire i paesi in via di sviluppo.
Dopo aver mostrato la propria determinazione a tornare a una logica di contrapposizione fra blocchi, spingendo gli alleati europei a rompere ogni rapporto con la Russia a seguito del conflitto ucraino, ed accelerando il “disaccoppiamento” economico dalla Cina, gli USA hanno compreso che il blocco occidentale non può permettersi di lasciare a Pechino i paesi del “Sud globale”.
Queste nazioni, lungamente trascurate da Washington, sono in realtà di importanza cruciale per assicurare le materie prime di cui gli USA e l’Europa (sempre in una logica neocoloniale) hanno bisogno per la propria rinascita industriale.
Corteggiamento dell’India
Da qui la decisione di Biden di appoggiare l’adesione dell’UA al G20, e di investire nel successo del summit di Nuova Delhi, cercando di promuovere il primo ministro indiano Narendra Modi come leader del raggruppamento, insieme a Biden stesso, in un certo senso favorito in ciò dall’assenza del suo principale rivale Xi Jinping.
Al corteggiamento americano ha fatto riscontro la disponibilità di Modi a giocare la parte del corteggiato. Infatti, se l’India ha un ottimo rapporto con la Russia, lo stesso non si può dire delle sue relazioni con la Cina, percepita come un competitore, con cui Nuova Delhi ha anche irrisolte e pericolose dispute di confine.
L’India, pur rimanendo un membro chiave dei BRICS, ne rappresenta per certi versi un anello debole, non essendo disposta a barattare l’attuale ordine internazionale con uno dominato da Pechino. E vi è perfino chi pronostica (forse prematuramente) una possibile uscita di Nuova Delhi dai BRICS per puntare tutte le proprie carte sul raggruppamento del G20.
Biden, promuovendo la figura di Modi, sostenendo l’ingresso dell’UA, ed organizzando a margine del vertice di Nuova Delhi un incontro congiunto con Brasile, India e Sudafrica (tre membri chiave dei BRICS) per ribadire il comune sostegno di questi paesi al G20, è riuscito apparentemente a ridare centralità a questo raggruppamento nell’arena internazionale.
L’insolita assenza di Xi
Mentre l’assenza di Putin al summit era abbastanza scontata, visto che il presidente russo non ha preso parte ai recenti incontri internazionali, la stampa americana ha consumato fiumi di inchiostro per cercare di spiegare l’assenza del presidente cinese Xi Jinping, che aveva sempre partecipato ai vertici del G20.
Si è detto che l’intenzione di Pechino era di umiliare l’India, che l’assenza del leader cinese fosse dovuta alle tensioni legate alle dispute di confine con Nuova Delhi, ma anche che Xi avesse rinunciato al vertice a causa dei problemi interni della Cina, o addirittura perché era malato.
In realtà, il presidente cinese ed il premier indiano Modi avevano avuto un incontro cordiale al vertice dei BRICS in Sudafrica, ed è più probabile che la persona che Xi Jinping non aveva intenzione di incontrare fosse il suo omologo americano.
Sebbene infatti l’amministrazione Biden abbia recentemente adottato toni più concilianti con la Cina, come testimonia anche la sequela di responsabili USA che recentemente si sono recati a Pechino (il segretario di stato Antony Blinken a giugno, l’inviato speciale per il clima John Kerry a luglio, ed il segretario al commercio Gina Raimondo ad agosto), Washington continua a fornire armi a Taiwan, ed a tessere alleanze militari nel Pacifico che irritano fortemente Pechino.
L’assenza del presidente cinese è però andata a vantaggio di Biden, che ha trasformato il vertice in un evento volto a contenere l’influenza di Pechino, fra l’altro in coincidenza con una data estremamente simbolica, quella del decimo anniversario dell’annuncio della Belt and Road Initiative (BRI) proprio da parte di Xi Jinping.
Nessuna condanna della Russia
Pur di preservare la coesione dei partecipanti al summit, il presidente americano ed i suoi alleati occidentali hanno perfino accettato una dichiarazione finale che faceva genericamente riferimento alla “guerra in Ucraina”, invece di accusare specificamente Mosca per il conflitto.
Come ha sottolineato il ministro degli esteri indiano Subrahmanyam Jaishankar, la dichiarazione in realtà riflette un dato di fatto, e cioè l’esistenza di opinioni differenti a livello internazionale sulla guerra e sulle ragioni che l’hanno scatenata. L’assioma occidentale della “aggressione non provocata” è un punto di vista che molti, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, non condividono.
Sebbene questa presa d’atto, sancita dalla dichiarazione, sia ben lontana dall’aprire la strada ad un possibile negoziato, la soluzione di compromesso escogitata ha finito per scontentare solo il governo ucraino, dopo che per settimane si era temuto che, a causa di questo scoglio, il vertice potesse concludersi senza una dichiarazione unanime.
Del resto, come già sottolineato, il focus della stessa amministrazione Biden in questo vertice non era sul conflitto ucraino, ma sulla necessità di ristabilire un rapporto fra gli USA (e l’Occidente più in generale) e i paesi del Sud del mondo.
Un risveglio tardivo – e insincero
Mentre per decenni le politiche americane nei confronti dei paesi in via di sviluppo, basandosi sul modello neoliberista, hanno ruotato attorno alla rimozione dei dazi e di altre barriere commerciali al fine di favorire l’arrivo delle compagnie americane in questi paesi (le quali a loro volta avrebbero dovuto portare industrializzazione e sviluppo), l’attuale piano della Casa Bianca è fondato sugli investimenti.
E’ ciò che fece la Cina dieci anni fa, cominciando a iniettare centinaia di miliardi di dollari in progetti infrastrutturali e di sviluppo in oltre 130 nazioni in tutto il mondo con il gigantesco piano della BRI, la nuova via della seta.
I responsabili americani sono consapevoli di aver accumulato un notevole ritardo. C’è ansia a Washington. Secondo Politico, “i responsabili della sicurezza nazionale sono terrorizzati all’idea che molte nazioni del mondo si schiereranno dalla parte della Cina sia nel commercio di tutti i giorni che nei momenti di crisi, come ad esempio in un futuro conflitto nello Stretto di Taiwan”. Il rifiuto di molti paesi in via di sviluppo di prendere le parti dell’Ucraina dopo l’invasione russa avrebbe ulteriormente ingigantito le paure americane.
Washington intende correre ai ripari in due modi. Il primo consiste nell’idea di accrescere massicciamente i finanziamenti della Banca Mondiale. La Casa Bianca ha chiesto 25 miliardi di dollari al Congresso ed ha esortato il G20 a mobilitare ulteriori risorse della Banca Mondiale per progetti di sviluppo. La speranza è di riuscire a raccogliere fino a 200 miliardi di dollari nel prossimo decennio.
Scetticismo dal “Sud globale”
Ma economisti e diplomatici delle nazioni in via di sviluppo hanno espresso scetticismo sulle promesse americane. Molti sottolineano che i finanziamenti occidentali non si avvicineranno neanche lontanamente ai trilioni di dollari di cui i paesi del Sud avrebbero bisogno, anche per rispondere alle sfide del cambiamento climatico.
Inoltre vi è un’antipatia e diffidenza radicata nei confronti della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale in molti di questi paesi, i quali ricordano le misure di austerità e le dure condizionalità imposte in passato da queste istituzioni in cambio dei loro prestiti.
Vi è poi la richiesta dei paesi del Sud di non essere meri fornitori di materie prime in cambio degli aiuti occidentali, ma di essere protagonisti attivi del nuovo sviluppo attraverso il trasferimento di tecnologie e capacità.
Questi paesi temono infine di finire vittime di una “green shock therapy” sulla falsariga della “shock economy” neoliberista imposta loro in passato, ovvero dell’imposizione brutale di un’economia “green” che li obblighi a una decarbonizzazione a tappe forzate, con pesanti conseguenze per il loro sviluppo.
Un corridoio per legare gli alleati
Vi è però una seconda iniziativa avanzata da Washington, quella dell’India-Middle East-Europe Economic Corridor (IMEC), che dovrebbe promuovere la connettività e l’integrazione economica fra il subcontinente indiano, la penisola araba e l’Europa.
Esso si compone di un corridoio orientale marittimo fra India e penisola araba, e di un corridoio settentrionale, terrestre e marittimo, che unirà quest’ultima all’Europa attraverso la Giordania ed Israele.
Il progetto prevede di unire trasporto marittimo e ferroviario (quest’ultimo si svilupperà dai porti sul Golfo Persico fino ad Israele, attraverso la penisola araba). Il corridoio così concepito permetterà di evitare il canale di Suez. Esso sarà completato da cavi sottomarini per la trasmissione di dati e il trasporto di elettricità, e da una pipeline di idrogeno da Israele all’Europa.
Nel continente europeo, i paesi maggiormente coinvolti saranno Francia e Italia (dove avranno sede i terminal marittimi del corridoio settentrionale), e la Germania. Washington offre così ai tre paesi europei un piccolo incentivo ad allentare i loro rapporti economici con la Cina. L’Italia, che ha appena rinunciato a rinnovare il memorandum d’intesa sulla via della seta, potrà rafforzare i propri rapporti con l’India, gli Emirati Arabi Uniti (EAU), e Israele.
Al di là degli obiettivi economici, dunque, il progetto ha chiari scopi geopolitici. L’India, che è uno dei pochi paesi in Asia che non prendono parte alla BRI, avrà la possibilità di rafforzare i propri rapporti con l’Europa e gli USA.
L’IMEC dovrebbe inoltre consentire a Nuova Delhi di bypassare il (nemico) Pakistan, l’Afghanistan, e l’(amico) Iran, e raggiungere invece l’Europa stringendo i propri legami con le monarchie del Golfo (Arabia Saudita ed EAU) – un chiaro interesse strategico di Washington, che storicamente era stato dell’impero coloniale britannico.
Il progetto dovrebbe poi favorire la normalizzazione dei rapporti fra Arabia Saudita ed Israele, un obiettivo a cui Washington sta lavorando alacremente al fine di giungere ad un “grande accordo” fra i due paesi – un obiettivo tuttavia irto di ostacoli, a cominciare dall’insolubile questione palestinese, e dalle relazioni ultimamente deteriorate fra Washington e Riyadh.
E’ anche interessante notare che, mentre nel progetto sono stati inclusi paesi che non fanno parte del G20, come Israele, Giordania ed EAU, da esso è stata esclusa la Turchia, membro del gruppo e letteralmente ponte geografico fra Europa e Medio Oriente.
Promuovendo progetti di connettività intra-regionale, l’IMEC dovrebbe anche ridurre le rivalità fra le monarchie del Golfo – un altro interesse di Washington, che ha spesso sofferto della “litigiosità” dei suoi alleati arabi.
Multilateralismo o “minilateralismo”?
E’ utile ricordare, poi, che sia l’India che l’Arabia Saudita e gli EAU fanno parte del gruppo dei BRICS (questi ultimi due paesi ufficialmente a partire dal 1° gennaio 2024). L’adesione di queste nazioni all’IMEC sottolinea come esse siano interessate a giocare “su più tavoli”, evitando di aderire esclusivamente a un determinato schieramento.
Alcuni analisti hanno affermato che questi paesi non hanno una vera vocazione multilateralista, prediligendo accordi a geometria variabile con un numero limitato di partner (come il Quad, che riunisce India, Giappone, Australia e USA, o come l’I2U2, che comprende India, Israele, EAU e USA) – i cosiddetti “minilaterals”.
Washington utilizza questi accordi “minilaterali”, che riuniscono pochi paesi ed hanno obiettivi contenuti (l’AUKUS, che raggruppa Australia, Regno Unito e USA, ne costituisce un altro esempio), come strumento per contenere la Cina davanti all’impossibilità di creare un fronte più ampio e coeso.
Il fenomeno dei “minilaterals” è un altro segnale di progressiva frammentazione della globalizzazione, e di scivolamento verso un mondo multipolare caratterizzato da una competizione spesso disordinata.
Lo stesso IMEC, pur accorpando un numero maggiore di paesi, non ha di certo la portata né la ricchezza di finanziamenti della BRI con cui pretenderebbe di competere.
Una sfida con molte incognite
Anzi, quella degli effettivi fondi a sostegno dell’IMEC rappresenta una delle maggiori incognite del progetto. Al momento, nessun dettaglio è stato rivelato su costi e finanziamenti. Le prime informazioni su fondi e tempistiche verranno fornite tra due mesi.
Precedenti progetti americani (come il Build Back Better World) ed europei (come il Global Gateway) che avrebbero dovuto competere con la BRI si sono finora rivelati non all’altezza.
L’IMEC presenta non soltanto possibili problemi di finanziamenti, ma anche ostacoli geo-economici e politici. Va ricordato, innanzitutto, che l’India non è paragonabile alla Cina come potenza industriale e manifatturiera. Questo è già un primo elemento che limiterà notevolmente i flussi di merci verso l’Europa rispetto ad un progetto come la BRI.
In secondo luogo, una serie di tensioni politiche irrisolte, come quelle fra Arabia Saudita ed Israele, potrebbe mandare a monte il progetto.
In conclusione, se il G20 ha confermato che i paesi del Sud del mondo saranno uno dei principali teatri della competizione fra USA e Cina, molto meno scontato è che le iniziative americane annunciate al vertice saranno in grado di rappresentare una vera sfida per Pechino.
Mi pare di capire che l'India in Asia sia un po' come la Turchia in Europa: entrambe cercano di tenere un piede in due scarpe!
Credo che la natura del regime di Modi meriti un approfondimento. Il coraggioso discorso di Arundhati Roy in occasione del premio Veillon dell'altro giorno aiuta https://www.youtube.com/watch?v=ihMeaFtsdOk