Propaganda, psyops, guerra cognitiva: l’importanza del fronte interno
Le tecniche sempre più raffinate di manipolazione dell’opinione pubblica rappresentano una seria minaccia alla democrazia.
Se viene solitamente dato per scontato l’impiego della propaganda e della disinformazione da parte dei cosiddetti governi autocratici contrapposti all’Occidente, meno ovvio dovrebbe essere il ricorso a tecniche di guerra psicologica e di manipolazione dell’opinione pubblica che invece si registra con sempre maggiore frequenza ed evidenza all’interno dei paesi occidentali.
Il conflitto ucraino è solo l’ultimo e più eclatante esempio a questo proposito.
Soprattutto nelle sue prime fasi, propaganda e guerra di informazione sono state poste in primo piano nelle analisi strategiche sul conflitto.
Molti commentatori occidentali hanno lodato l’uso “sapiente” dell’informazione da parte del governo di Kiev per rafforzare l’immagine dell’Ucraina e raccogliere sostegno a livello internazionale.
E’ stato anche detto che i servizi segreti occidentali hanno condotto una guerra psicologica contro il Cremlino, in particolare utilizzando notizie di intelligence desecretate come parte di una guerra di informazione contro Mosca.
Intelligence e disinformazione nel conflitto ucraino
Gli Stati Uniti ed i loro alleati europei hanno alimentato la narrazione di un esercito russo militarmente non all’altezza, demoralizzato, costretto a subire perdite disastrose sul campo di battaglia, assieme all’immagine di un presidente Putin isolato, mal consigliato, e tenuto all’oscuro degli eventi dai suoi collaboratori più stretti (fatti in gran parte smentiti dalla successiva evoluzione del conflitto).
Cosa singolare rispetto al passato, numerosi responsabili Usa hanno apertamente sbandierato questo particolare impiego dell’intelligence, allo stesso tempo ammettendo che Washington ha usato l’informazione come un’arma anche quando l’accuratezza dei dati era dubbia (cioè quando le notizie di intelligence erano di scarsa affidabilità).
La giustificazione addotta per il ricorso a queste tattiche è che ciò sarebbe servito a prevenire le mosse del Cremlino, a complicarne la campagna militare, “a compromettere la propaganda di Mosca, e ad impedire alla Russia di definire come la guerra viene percepita nel mondo”, secondo quanto sostenuto da un responsabile governativo occidentale citato dalla Nbc.
Tuttavia, non si tratta solo di questo. Come ha affermato un’analisi apparsa sulla Cnn, “creare l’immagine di una guerra fallimentare aiuta anche a mantenere il sostegno alla dura posizione occidentale contro Putin”, ma soprattutto consente ai leader occidentali di “sostenere che le loro politiche stanno funzionando mentre devono gestire l'opinione pubblica sul conflitto”.
In altre parole, è evidente che la guerra di propaganda e di informazione condotta dai paesi occidentali è stata non soltanto rivolta contro i russi, ma indirizzata anche alle opinioni pubbliche interne, coinvolgendo possibilmente anche i decisori politici.
E’ così che si è affermata in Occidente la narrazione della cosiddetta “unprovoked aggression” – formula onnipresente sui media anglosassoni allorché si trattava di descrivere un’invasione russa dell’Ucraina completamente decontestualizzata e destoricizzata.
Ciò è avvenuto con il contributo determinante di mezzi di informazione sempre più propensi a fare da megafono alle fonti governative ufficiali piuttosto che a produrre informazione indipendente e giornalismo d’inchiesta (anche in conseguenza del fatto che la proprietà dei media, in America ma anche in Europa, è sempre più concentrata nelle mani di pochi).
Analogamente notizie false, poi rivelatesi prive di fondamento, sono state fornite all’opinione pubblica, come quelle secondo cui i russi erano pronti a ricorrere all’uso di armi chimiche, e Mosca aveva chiesto aiuti militari alla Cina, o anche le ripetute descrizioni delle distruzioni “indiscriminate” compiute dalle forze armate russe, in parte smentite da esponenti della stessa intelligence militare americana (pur nel quadro di una guerra che, come tutti i conflitti armati moderni, rimane per propria natura estremamente distruttiva).
L’intelligence da strumento di analisi ad arma in una “guerra di narrazioni”
Nel marzo del 1992, l’allora direttore della Cia Robert Gates, trattando il tema della politicizzazione dell’intelligence (intesa come “deliberata distorsione di analisi o giudizi volta a favorire una prescelta linea di pensiero indipendentemente dalle prove”), affermò che “l’assoluta integrità della nostra analisi è il più importante dei valori fondamentali della Central Intelligence Agency. I decisori politici, il Congresso, ed il popolo americano devono sapere che le nostre opinioni – giuste o sbagliate – rappresentano il nostro sforzo migliore e più obiettivo possibile di descrivere le minacce e le opportunità che gli Stati Uniti devono affrontare. Essi devono sapere che le nostre valutazioni sono il prodotto della più alta qualità e della più onesta analisi di intelligence disponibile in qualsiasi parte del mondo”.
Non sembra essere questo lo standard a cui si sono richiamate le agenzie di intelligence americane ed occidentali nel corso dell’attuale conflitto, o più in generale in tempi recenti.
Vi è anzi stata negli ultimi anni una crescente pressione da parte di esponenti del Pentagono e dell’intelligence Usa per utilizzare informazioni desecretate come arma di propaganda in “campagne di influenza” – definite anche come psychological operations (o psyops) – in certo qual modo “scavalcando” le lungaggini “burocratiche” del Dipartimento di Stato, soprattutto alla luce dell’urgenza causata dalla rinnovata competizione fra grandi potenze che vede gli Stati Uniti opporsi a Cina e Russia.
Peraltro, se è vero che tali operazioni sono solitamente rivolte contro governi e paesi “ostili”, è altrettanto vero che il confine tra operazioni condotte all’estero ed in patria diventa estremamente labile nella misura in cui contrastare la presunta “influenza maligna di avversari stranieri in patria” è diventata una delle priorità dell’establishment Usa.
Come diventa labile il confine fra intelligence e propaganda nel momento in cui gli esponenti della comunità dell’intelligence ritengono non più di essere portatori di un’interpretazione, che (per quanto basata su analisi approfondite e meticolose) è inevitabilmente soggetta ad errori, ma della “verità”.
Sembra di cogliere questa deriva, ad esempio, in una nota firmata da nove comandanti militari americani nel 2020, nella quale si esortava la comunità dell’intelligence statunitense a declassificare più informazioni per contrastare la propaganda di Mosca e di Pechino.
Solo “portando la verità nella sfera pubblica contro gli sfidanti dell’America nel XXI secolo”, Washington potrà rafforzare l’appoggio proveniente dai propri alleati, si sosteneva nella nota.
“Chiediamo questo aiuto per consentire agli Stati Uniti, e per estensione ai loro alleati e partner, di vincere senza combattere, di combattere adesso nelle cosiddette zone grigie, e di garantire munizioni nella guerra di narrazioni attualmente in corso”, scrivevano i nove comandanti, aggiungendo che “sfortunatamente, continuiamo a perdere occasioni per chiarire la verità, contrastare le distorsioni, denunciare false narrazioni e influenzare gli eventi in tempo per fare la differenza”.
L’intelligence, così, da strumento di analisi e interpretazione della realtà, diventa un’arma in una guerra di propaganda e di informazione, volta non ad avvicinarsi alla verità, ma ad assicurare il prevalere di una narrazione indipendentemente da quanto essa sia veritiera.
Guerra psicologica e finzione cinematografica
L’obiettivo della propaganda, della guerra di informazione, delle psyops, è di influenzare governi, uomini di potere, e cittadini comuni. Come spiega il sito web dell’esercito americano appositamente dedicato al settore, la missione chiave degli agenti delle psyops è influenzare “le emozioni, le osservazioni, il ragionamento e il comportamento di governi e cittadini stranieri”, e “ingannare deliberatamente” le forze nemiche.
Un video di reclutamento alquanto inquietante, pubblicato proprio recentemente dal 4° Gruppo dell’Esercito americano per le operazioni psicologiche, pone agli spettatori la seguente domanda: “Ti sei mai chiesto chi sta tirando le fila?”.
Il video, organizzato come il trailer di un film, con tanto di effetti sonori di sottofondo e musica piena di suspense, cerca di creare un’atmosfera allarmante e allo stesso tempo coinvolgente. Esso compie esattamente ciò che gli agenti delle psyops si prefiggono di fare: influenzare un pubblico. “Ogni cosa è un arma”, recita il testo che appare in sovrimpressione, lasciando intendere che anche questo video lo sia.
Un prodotto di questo tipo suscita numerosi interrogativi.
Innanzitutto ci si potrebbe chiedere come questo approccio, improntato alla manipolazione e all’inganno, si concili con gli sbandierati valori occidentali di libertà e democrazia che caratterizzerebbero l’Occidente.
In secondo luogo ci si può domandare cosa succederebbe se queste tecniche, teoricamente indirizzate contro un nemico esterno, venissero applicate dalle agenzie di intelligence americane (ed occidentali) alla popolazione e ai decisori politici degli Stati Uniti e dei loro alleati.
Uno scenario tutt’altro che fantasioso (ed anzi, come abbiamo visto, probabilmente già verificatosi), se si pensa all’ossessiva insistenza con cui simili centri di intelligence sottolineano la cosiddetta “guerra di narrazioni” che sarebbe in atto fra l’Occidente e i suoi avversari, ma anche l’esigenza di contrastare l’influenza “maligna” che tali avversari eserciterebbero sull’opinione pubblica occidentale.
E’ peraltro utile ricordare che nessuna delle principali campagne di influenza attribuite a simili avversari, ed in particolare alla Russia – dal cosiddetto Russiagate alle presunte ingerenze di Mosca nella Brexit – è stata confermata o supportata da prove credibili (il che naturalmente non significa che Mosca e Pechino non facciano a loro volta ricorso alla propaganda).
Infine, risulta inquietante la continua propensione a cancellare ogni confine tra realtà e fiction, tra verità e contraffazione, come se il reale potesse essere manipolato ed alterato ad libitum, senza alcun vincolo.
Ciò è tanto più rilevante se si tiene conto che la competizione fra grandi potenze pone in concreto dei vincoli ferrei, costituiti dai rapporti di forza economici, politici, militari, geostrategici, che una guerra psicologica o d’informazione può intaccare solo marginalmente.
In altre parole, di fronte a una manifesta inferiorità non c’è manipolazione della realtà che tenga.
Questa predilezione ossessiva per le psyops, la guerra di narrazione, la fiction come strumento di propaganda, la realtà virtuale, il “futurismo” (intesi come panacea e sostituto di una efficace pianificazione politica), da parte di istituzioni come il Pentagono, è stata perfino sottolineata e messa a fuoco da esperti americani di difesa e politica estera come un sintomo di declino e di possibile rischio per la sicurezza nazionale.
Nato e “guerra cognitiva”
Ma si tratta evidentemente di un problema che non riguarda solo gli Stati Uniti, come ha messo in luce, fra le altre, una recente inchiesta di The Grayzone.
Fino a poco tempo fa, la Nato suddivideva la guerra in cinque differenti domini operativi: aria, terra, mare, spazio, e dominio cibernetico. Ma, con lo sviluppo delle strategie di guerra cognitiva, l’Alleanza sta prendendo in esame un sesto ambito: il “dominio umano”.
Secondo uno studio promosso dalla Nato nel 2020, “la mente sarà il campo di battaglia del XXI secolo”, gli esseri umani diventeranno il “dominio conteso”, e “i futuri conflitti avverranno probabilmente fra le persone dapprima a livello digitale e successivamente fisico in prossimità di centri di potere politico ed economico”.
Prendendo in esame sia tattiche difensive che offensive, il rapporto afferma dichiaratamente che “l’obiettivo della guerra cognitiva è di colpire le società e non solo gli eserciti”. Esso sottolinea l’esigenza di “militarizzare” le scienze umane e sociali per sviluppare le capacità di guerra cognitiva.
La militarizzazione della società in ogni suo aspetto si riflette nell’approccio paranoico dello studio, che ammonisce sulla presenza, nel tessuto sociale, di “quinte colonne” i cui membri, consapevolmente o inconsapevolmente, agirebbero “secondo i piani di uno dei nostri competitori” (ancora una volta impersonati principalmente da Cina e Russia).
In altre parole, come abbiamo già visto in precedenza a proposito della Cia e del Pentagono, questo documento mostra che anche all’interno della Nato vi sono ambienti che considerano le proprie popolazioni come una potenziale minaccia, potendo ospitare al proprio interno agenti perfino inconsapevoli, o “cellule dormienti”, al servizio del nemico e in grado di destabilizzare le “democrazie occidentali”.
Ci si rende facilmente conto di quanto distruttivo per la democrazia possa essere un simile approccio, di fatto in grado di marchiare automaticamente ogni forma di dissenso come un’operazione al servizio di potenze straniere.
Il paragrafo conclusivo dello studio chiarisce oltre ogni dubbio che l’obiettivo finale di questa forma di guerra cognitiva promossa dalla Nato non si riduce al controllo fisico, ma include anche il controllo della mente delle persone.
Secondo il rapporto, infatti, “la guerra cognitiva può rivelarsi l’elemento mancante che consente la transizione dalla vittoria militare sul campo a un durevole successo politico. Il dominio umano può rivelarsi decisivo […]; solo il dominio umano può raggiungere la piena vittoria finale”.
Edward Bernays e la psicologia delle masse
Per quanto pericolose per ogni forma di democrazia, simili idee non sono però affatto nuove. L’interesse per la psicologia delle masse ed il loro controllo emerse già alla fine del XIX secolo.
Nel 1895, Charles-Marie Gustave Le Bon, un poliedrico studioso francese i cui interessi spaziavano dall’antropologia alla psicologia, alla sociologia ed alla medicina, pubblicò la Psychologie des Foules, considerata un’opera pionieristica nello studio della psicologia delle masse.
Importanti furono anche i lavori di Walter Lippmann, scrittore, giornalista e commentatore americano che nel 1922 pubblicò Public Opinion, considerato il libro fondativo del giornalismo moderno, e di Wilfred Trotter, pioniere inglese della neurochirurgia e della psicologia sociale, noto per la sua introduzione del concetto di “istinto di gregge” che espose nella sua opera Instincts of the Herd in Peace and War (1916), considerata un classico fra i primi studi di psicologia delle masse.
Ma una figura chiave a questo proposito è quella di Edward Bernays, considerato il padre delle “pubbliche relazioni”.
Nipote di Sigmund Freud, Bernays fece carriera in America come consulente d’affari ed esperto di marketing, lavorando per grandi corporation americane come Procter & Gamble e General Electric.
Bernays fu uno degli inventori delle moderne tecniche di persuasione per orientare al consumo di massa. La sua arte consisteva nel mostrare alle imprese americane come spingere le persone a bramare cose di cui non avevano reale bisogno, trovando il legame fra prodotti di massa e desideri inconsci dei loro potenziali acquirenti.
Tra le sue campagne di successo vi fu quella per convincere le donne a fumare, persuadendole che le sigarette erano un simbolo di libertà (“torce di libertà”) e indipendenza.
Ma egli applicò le sue tecniche di persuasione anche alla politica, contribuendo a orchestrare il golpe organizzato dalla Cia ai danni del governo democraticamente eletto del Guatemala nel 1954.
Basandosi sul lavoro di autori come Le Bon, Trotter, Lippmann e lo stesso Freud, Bernays descrisse le masse come soggetti irrazionali dominati dall’istinto di gregge, evidenziando come “professionisti qualificati” potessero indirizzarle nella maniera desiderata ricorrendo alla psicoanalisi e alla psicologia delle masse.
Queste tesi sono esplicitate in due dei suoi lavori principali, Crystallizing Public Opinion (1923) e Propaganda (1928).
In quest’ultimo libro, in particolare, egli sostenne che:
“la manipolazione intelligente e consapevole delle opinioni e delle abitudini organizzate delle masse è un elemento importante della società democratica. Coloro che manipolano questo meccanismo nascosto della società costituiscono un governo invisibile che è il vero potere direttivo. Siamo governati, le nostre menti sono modellate, i nostri gusti formati, le nostre idee suggerite, in gran parte da uomini di cui non abbiamo mai sentito parlare”.
Secondo Bernays, coloro che “governano” costituiscono una classe dominante invisibile che “comprende i processi mentali e i modelli sociali delle masse”.
Anche Cia e Pentagono compresero fin da subito l’importanza di influenzare l’opinione pubblica americana tramite la stampa e l’intrattenimento (cioè Hollywood).
Nel 1977, il giornalista Carl Bernstein studiò per mesi il rapporto fra Cia e mezzi di informazione negli anni della Guerra fredda. Bernstein scoprì che più di 400 giornalisti statunitensi avevano svolto incarichi assegnati dalla Cia, ed occasionalmente agenti della Cia avevano operato come giornalisti all’estero.
Talvolta, interi articoli furono scritti da autori della Cia, contenendo disinformazione volta ad avvantaggiare gli Stati Uniti.
Scienza comportamentale e Covid-19
In anni più recenti, tecniche di scienza comportamentale sono state utilizzate da molti governi occidentali per indirizzare i propri cittadini nella direzione desiderata. Queste tecniche, anche note come “nudging” (letteralmente, “persuadere o incoraggiare gentilmente qualcuno a fare qualcosa”), puntano a modificare il comportamento delle persone sotto la spinta di una pressione o di un disagio emotivi.
Si tratta di una deviazione dai tradizionali metodi utilizzati dai governi per influenzare il comportamento dei propri cittadini – metodi che solitamente ricorrono alla legislazione, alla somministrazione di informazioni ed all’argomentazione razionale.
Il nudging ricorre invece ad una pressione emotiva ottenendo un cambio di comportamento che però solitamente avviene sotto la soglia del ragionamento e del pensiero consapevole.
Questa tecnica si usa anche nel marketing, manipolando deliberatamente le possibilità che sono presentate al consumatore. L’obiettivo è di influenzarne le scelte, o per indirizzarlo verso le opzioni offerte dal venditore, o semplicemente per incrementare le vendite.
Il Regno Unito fece da apripista in questo campo, istituendo nel 2010 il Behavioural Insights Team (Bit) come prima istituzione al mondo dedicata all’applicazione della scienza comportamentale alla politica.
Fondato dal governo, il Bit si sviluppò rapidamente in una società a scopo sociale operante in numerosi paesi. Un riassunto complessivo delle tecniche psicologiche utilizzate dal Bit è fornito dal documento MINDSPACE.
Diversi esponenti del Bit sono poi divenuti membri del Scientific Pandemic Insights Group on Behaviours (Spi-B), organismo di consulenza del governo britannico in materia di strategie della comunicazione sulla pandemia.
Sia il Bit che lo Spi-B hanno incoraggiato l’adozione di tecniche di scienza comportamentale nella risposta del governo all’epidemia da Covid-19.
Tre tecniche, in particolare, hanno però suscitato critiche: lo sfruttamento della paura (accrescendo i livelli della minaccia percepita), il ricorso al sentimento della vergogna (identificando il rispetto delle norme imposte dal governo con la definizione di comportamento virtuoso), e la pressione ambientale (dipingendo coloro che sceglievano di non conformarsi alle norme come una minoranza deviata).
In particolare, sulla base della consapevolezza che una popolazione spaventata è obbediente, venne assunta la decisione strategica di accrescere i livelli della paura in tutta la popolazione britannica.
La Gran Bretagna, naturalmente, è solo un esempio. Tattiche analoghe sono state utilizzate nella maggior parte dei paesi occidentali, ottenendo gli stessi risultati.
Sia nel caso della crisi da Covid-19, sia in quello del conflitto ucraino ed in altre occasioni, la tendenza prevalente nei governi occidentali, soprattutto negli anni più recenti, è stata quella di trattare le proprie popolazioni come soggetti passivi (se non addirittura come fonte di potenziali minacce) da indirizzare verso determinati comportamenti e persuasioni, facendo ricorso a tecniche di manipolazione comportamentale e dell’informazione.
Ciò è avvenuto sia nella gestione di crisi interne che nel quadro della rinnovata competizione geopolitica internazionale, facendo capire che le élite governative intendono lasciare ben poco spazio alle loro popolazioni in una fase di cruciale importanza per la definizione del futuro dei paesi occidentali.