Modello neoliberista ucraino: come l’Occidente sta saccheggiando il paese
Smantellamento dello Stato, economia di guerra, ricostruzione: agli ucraini non resterà nulla.
Mentre il conflitto ucraino sembra destinato a protrarsi a tempo indeterminato, due questioni essenziali si pongono all’attenzione del fronte occidentale che appoggia Kiev: come sostenere lo sforzo bellico di uno Stato ormai sull’orlo del fallimento economico, e come assicurarne la ricostruzione se e quando la guerra finirà.
Il governo ucraino ha appena approvato in seconda lettura la bozza di bilancio per il 2023: 35 miliardi di dollari di entrate e 70,5 miliardi di spese, di cui 27 per difesa e sicurezza (più del 18% del PIL).
Secondo uno studio pubblicato quest’estate dalla Banca Mondiale insieme alla Commissione Europea, il volume della produzione economica ucraina si ridurrà di un terzo rispetto allo scorso anno.
La povertà grave (meno di 5,5 $ al giorno a persona) finora è stata relativamente contenuta, ma minaccia di salire al 21% della popolazione.
L’inflazione, che potrebbe arrivare al 30% alla fine dell’anno, spingerà il tasso di povertà complessivo intorno al 40% entro il 2022, e forse addirittura al 58% l’anno prossimo.
Alla fine di ottobre, il primo ministro ucraino Denis Shmigal ha ammonito che, se Bruxelles non consegnerà tempestivamente tutti i 9 miliardi di dollari promessi a maggio, Kiev potrebbe non essere più in grado di pagare stipendi e pensioni.
L’UE ha assicurato che erogherà all’Ucraina un sostegno finanziario di 1,5 miliardi di dollari al mese nel 2023, ma finora non è riuscita a consegnare un terzo dei suddetti 9 miliardi.
La Commissione UE sta cercando di raccogliere quasi 18 miliardi di dollari, che girerà al governo di Kiev sotto forma di prestiti e sovvenzioni per coprire parte del buco di bilancio previsto l’anno prossimo.
L’UE raccoglierà almeno parte di questi fondi indebitandosi a sua volta, cosa dovrebbe avvenire insieme al programma di emissione di debito per finanziare il recovery fund post-pandemico. Ciò fra l’altro dovrebbe permettere di offrire a Kiev un periodo di esenzione di 10 anni per la restituzione.
Perché, appunto, una parte consistente dei soldi erogati all’Ucraina sono prestiti che il paese dovrà in ogni caso restituire.
“Un compito per le generazioni a venire”
Nel frattempo, si sta già pensando alle esigenze della ricostruzione post-bellica. Con il pomposo nome di International Expert Conference on the Recovery, Reconstruction and Modernisation of Ukraine, si è tenuto a fine ottobre un importante evento a Berlino sotto gli auspici del G7 (di cui la Germania ha al momento la presidenza) e della Commissione Europea.
Alla conferenza, il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha affermato che ricostruire l’Ucraina sarà “un compito per le generazioni a venire”, visto che ci vorranno decenni per rimettere in piedi le infrastrutture e l’economia del paese quando la guerra sarà finita.
Scholz ha aggiunto che “ciò equivale a non meno della creazione di un nuovo Piano Marshall per il 21° secolo”.
Secondo un rapporto del mese scorso, curato dalla Commissione Europea, dal governo ucraino e dalla Banca Mondiale, i costi per la ricostruzione ammonterebbero a 349 miliardi di dollari. Ma le stime variano e sono destinate ad aumentare.
Una questione chiave, ovviamente, sarà fino a che punto Kiev affronterà “le riforme strutturali che sono da tempo necessarie nell’economia ucraina, e la misura in cui ciò può essere fatto quando hai un’economia di guerra”.
Tali riforme sono necessarie per il processo di adesione dell’Ucraina all’Unione Europea e, come già avvenuto in passato, sono invariabilmente riforme di natura neoliberista.
“Sopravvivere e prosperare”
A settembre, L’European Council on Foreign Relations (ECFR), un think tank euro-americano con sede principale a Berlino (finanziato fra gli altri da Bill Gates, George Soros e dalla famiglia Rockefeller), ha pubblicato un paper strategico intitolato, quasi provocatoriamente, Survive and Thrive (Sopravvivere e prosperare) in una guerra destinata, secondo il think tank, a protrarsi per anni.
Il paper suggerisce una “partnership per l’allargamento” volta a favorire l’integrazione di fatto dell’Ucraina nell’UE prima della sua adesione formale all’Unione. Tale partnership dovrebbe promuovere l’accesso di Kiev al mercato unico europeo in una fase in cui all’Ucraina non sarebbe concesso di prendere parte attiva alle decisioni dell’UE volte a plasmare tale mercato.
Secondo il paper, all’Ucraina dovrebbero essere concesse “4 libertà”: libertà di movimento delle persone, dei beni, dei servizi e dei capitali. Ciò creerebbe “enormi opportunità di sviluppo… in pochi anni”, e garantirebbe l’afflusso di “investimenti privati in Ucraina quasi immediatamente, soprattutto in quelle aree meno colpite dalla guerra”.
Questo studio ha ricevuto critiche, perfino all’interno dello stesso ECFR, dove altri hanno fatto notare che l’Ucraina non potrebbe competere nel mercato unico europeo, e che “esporre il paese a questo livello di competizione e di liberalizzazione di mercato potrebbe aggravare il suo collasso socioeconomico”.
Malgrado queste critiche, la strada sembra però ormai imboccata.
USA e UE si contendono la ricostruzione
Anzi, può succedere che l’ordoliberismo di matrice europea venga scavalcato dal neoliberismo puro di stampo americano, soprattutto se Washington decide che la ricostruzione ucraina non può essere lasciata in mano all’UE.
E, a quanto pare, è proprio ciò che sta accadendo.
Sempre a settembre, il German Marshall Fund (think tank statunitense con sede centrale a Washington e uffici in capitali europee come Berlino, Bruxelles, Parigi, Varsavia e Bucarest) ha elaborato un proprio paper strategico in collaborazione con diverse agenzie del governo USA, nel quale si afferma che una “leadership forte” è essenziale per il successo della ricostruzione.
Tale leadership non può essere garantita dalla Commissione Europea, che “manca del necessario peso politico e finanziario”, ma piuttosto dal G7. Secondo il paper, il “primo coordinatore” della ricostruzione dovrebbe essere “un americano con una statura globale”.
Ne è nata una polemica con Bruxelles, dove si è cercato di sottolineare il fatto che all’Ucraina è stato concesso lo status formale di candidato all’UE.
A fine ottobre, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen e Olaf Scholz hanno cofirmato un articolo nel quale hanno suggerito – in una sorta di proposta di compromesso – che “ciascuno dovrebbe farsi carico” della ricostruzione ucraina: l’UE, il G7, e “tutti gli altri nostri partner”. I due hanno ribadito che l’UE avrebbe giocato un ruolo di rilievo.
La conferenza per la ricostruzione tenutasi a Berlino, e organizzata congiuntamente dall’UE e dal G7, non rappresenta la fine di questa guerra di potere.
Smantellamento dello Stato
Ma lo studio forse più interessante è quello pubblicato dal Centre for Economic Policy Research (CEPR), con sede a Londra, a firma di un gruppo “stellare” di economisti europei ed americani.
Intitolato Macroeconomic policies for wartime Ukraine, il rapporto si pone l’obiettivo di affrontare le problematiche tipiche di un’economia di guerra.
Ma, laddove ci si attenderebbe il tentativo di promuovere misure economiche e sociali di tipo solidaristico per rafforzare il fronte ucraino interno, il team di economisti del CEPR fa esattamente l’opposto, chiedendo una radicale deregolamentazione.
In sostanza, lo studio promuove la visione di uno sforzo bellico senza Stato, poiché quest’ultimo verrebbe progressivamente smantellato attraverso liberalizzazioni e privatizzazioni:
“... sebbene i governi in tempo di guerra di solito si assumono il compito di allocare le risorse, le circostanze ucraine richiedono meccanismi di allocazione maggiormente basati sul mercato per garantire soluzioni efficienti che non sovraccarichino le capacità dello Stato, non aggravino i problemi esistenti (come la corruzione) né incoraggino attività (non tassate) di mercato nero. A tal fine, l'obiettivo dovrebbe essere quello di perseguire un'ampia e radicale deregolamentazione dell'attività economica, evitare il controllo dei prezzi e facilitare una riallocazione produttiva delle risorse”.
La tesi degli economisti del CEPR è che
“l'allocazione delle risorse… richiede capacità istituzionale. L'Ucraina attualmente non dispone di tale capacità di microgestire i flussi di beni e servizi per soddisfare le esigenze del settore civile e della difesa. Pertanto, la capacità del governo di dirigere l'economia dovrebbe essere utilizzata con parsimonia... i meccanismi basati sul mercato possono essere utili per rinvigorire l'economia, fornendo così una base imponibile più ampia. A tal fine, il governo dovrebbe ridurre al minimo la regolamentazione e altre formalità burocratiche che possono limitare o rallentare la riallocazione di manodopera, capitali e materiali nell'economia. Nel complesso, sono preferite le allocazioni basate sul mercato.”
Il rapporto si spinge fino a sostenere che funzioni essenziali del governo, inclusa l’assistenza sanitaria, dovrebbero essere esternalizzate:
“Medici senza frontiere può fornire servizi medici di base, mentre l'ONU e la Croce Rossa possono procurare (e pagare) forniture mediche. La spesa per i programmi culturali (come la protezione di musei e gallerie) può essere coperta da organizzazioni e ONG internazionali.”
E ancora:
“la spesa non dovrebbe essere vincolata a linee guida o obiettivi prebellici... Ad esempio, dato che molti bambini e giovani adulti hanno lasciato il Paese, è possibile ricalibrare numero, sedi e budget di scuole e università, liberando risorse per altri usi.”
Quello che si propone qui è letteralmente la demolizione dello Stato in ogni sua forma per dedicare tutte le risorse del paese allo sforzo bellico, trasformando l’economia ucraina in una sorta di “selvaggio west”:
“Il governo ha incoraggiato le aziende a trasferirsi nell'Ucraina occidentale, dove i rischi di sicurezza sono inferiori, ma questa politica ha avuto solo effetti modesti (meno di 1.000 aziende si sono trasferite [ci si potrebbe chiedere come mai: forse perché esiste realmente una differenza fra est e ovest del paese, e la società ucraina ha un carattere coeso e monolitico solo nella propaganda occidentale? (n.d.r.)] ). Questo problema può essere affrontato con una radicale liberalizzazione dei mercati per accelerare il flusso della forza lavoro e dei capitali verso settori/regioni in cui l'economia può operare in modo robusto. Ad esempio, il governo ha allentato drasticamente le normative sul mercato del lavoro (ad esempio, le aziende possono licenziare i lavoratori in modo relativamente semplice e sospendere unilateralmente elementi dei contratti di lavoro; i lavoratori che vorrebbero dimettersi non devono dare preavviso ai loro datori di lavoro). Questo approccio dovrebbe essere applicato ad altre aree. La regolamentazione del territorio, l'accesso all'elettricità, e altre infrastrutture, dovrebbero essere razionalizzati per consentire una più facile riallocazione per le imprese. ... Eventualmente, il governo potrebbe nominare un funzionario di alto livello (ad esempio un ‘responsabile della deregolamentazione’) per coordinare e promuovere la deregolamentazione.”
L’agenda Zelensky
Come si può rilevare da quest’ultimo passaggio, il rapporto del CEPR si schiera apertamente con la controversa agenda di deregulation portata avanti dal governo Zelensky e dai suoi sostenitori nel parlamento ucraino e nella comunità degli affari.
Tale agenda è già in fase avanzata di realizzazione. Come scrive Adam Tooze, storico inglese e professore alla Columbia University, la deregolamentazione del mercato del lavoro fu inizialmente bloccata nel 2020 dall’opposizione interna e dalla crisi pandemica.
Ma fu reintrodotta nel 2021 anche sulla base di una consulenza finanziata dall’ambasciata britannica, che intravide nelle crescenti tensioni con la Russia un’opportunità per far passare simili misure. Esse furono definitivamente trasformate in legge lo scorso agosto malgrado le proteste dell’ International Labor Organization (ILO).
La legislazione introdotta da Zelensky sottrae il 70-80% della forza lavoro del paese alla protezione della legge nazionale sul lavoro, introducendo una sorta di regime parallelo, privato delle garanzie essenziali.
I fautori ucraini della deregulation sono ben consapevoli del fatto che essa comporta una radicale ridefinizione dell’ordine post-sovietico nel loro paese. E questo è certamente uno degli obiettivi di una simile operazione.
Ma portare avanti un’iniziativa così radicale in tempo di guerra, mentre lo spazio lasciato al dibattito pubblico, all’opposizione, e alla possibilità di scioperare, è ridotto praticamente a zero, conferma ulteriormente che Kiev ha imboccato una strada che sta allontanando sempre di più il paese dalla democrazia.
Un progetto neocoloniale
Per altro verso, come già accennato, la realizzazione di questa agenda è propedeutica all’implementazione del cosiddetto “Piano Marshall per l’Ucraina”, di cui si era già parlato a luglio, a Lugano in Svizzera.
Le idee circolate a Lugano sono basate in gran parte su un precedente piano messo a punto dal CEPR già ad aprile: A Blueprint for the Reconstruction of Ukraine. Esso sviluppava 6 punti principali:
1) introdurre contratti di lavoro più flessibili, ed eliminare la legislazione sul lavoro che preclude lo sviluppo di una politica economica liberista;
2) fornire incentivi governativi al fine di attrarre aziende straniere;
3) privatizzazioni su larga scala, comprese le maggiori banche ucraine;
4) sostegno prioritario al credito per il settore dell’export;
5) ricorso a opere pubbliche ad alta intensità di manodopera poco qualificata, per la sistemazione delle infrastrutture;
6) istituire un'agenzia tecnocratica per distribuire gli “aiuti” internazionali.
Questo modello probabilmente porterà a un’ulteriore precarizzazione del lavoro, alla svendita di molti settori produttivi alle grandi multinazionali straniere, e al mantenimento della natura principalmente estrattiva dell’economia del paese.
In altre parole, siamo di fronte all’ennesimo progetto neocoloniale dell’Occidente.
Conquistare lo spazio post-sovietico
Tale progetto ha del resto radici lontane, che risalgono al crollo del blocco sovietico.
Sappiamo che la transizione a tappe forzate verso l’economia di mercato, basata sulla cosiddetta shock economy che venne imposta all’Ucraina come ad altre repubbliche ex-sovietiche e alla stessa Russia, favorì il rafforzamento di una forma di cleptocrazia incentrata sul potere di famiglie e gruppi privilegiati, e caratterizzata da una diffusa corruzione.
Negli anni che seguirono, l’Occidente impoverì ulteriormente il paese: le ricchezze ucraine saccheggiate dagli oligarchi locali furono infatti regolarmente riciclate nei paradisi fiscali europei e oltreoceano.
Secondo alcune stime, questo processo raggiunse il suo culmine proprio sotto la presidenza di Viktor Yanukovych, solitamente descritto come “filorusso” dai media occidentali, e poi rovesciato durante la rivolta di Maidan del 2014 (in quel periodo l’economia del paese perse qualcosa come 100 miliardi di dollari).
Ma il saccheggio dell’Ucraina proseguì inalterato con i governi filo-occidentali insediatisi a Kiev dopo il 2014.
Come ho scritto in un precedente articolo:
Nel periodo post-Yanukovych, le riforme imposte dall’Fmi hanno ulteriormente spianato la strada ai capitali americani nel settore agricolo e in quello delle materie prime. L’agribusiness statunitense, da Cargill a Monsanto, ha ottenuto lucrosi contratti in un paese che è fra i principali esportatori mondiali di grano e mais.
Più di recente, i programmi per la digitalizzazione dell’Ucraina, avviati in collaborazione con il World Economic Forum, hanno determinato l’arrivo dei giganti della Big Tech, da Apple a Microsoft.
A ciò si è affiancato l’ingresso di un colosso dell’industria bellica statunitense come Raytheon che, usufruendo di finanziamenti del governo americano, ha addestrato 8.000 agenti di frontiera, attrezzato 25 centri doganali, e costruito un sistema di sorveglianza su 3.730 km di confine in Ucraina.
Siamo dunque alle ultime battute del processo di spoliazione di un paese che gli USA hanno progressivamente spinto verso un conflitto suicida con il vicino russo.
Alla luce di questi fatti e dell’immane tragedia della guerra attuale, appare realmente difficile continuare a sostenere che la rinuncia alla neutralità del paese, per inseguire il miraggio di un’adesione alla NATO e di un ingresso nel “paradiso” europeo, sia davvero nell’interesse degli ucraini.
Bisognerebbe fare una accurata ricostruzione, nel suo consueto stile colto e ben documentato, di quanto è avvenuto negli anni '90 dopo il "vento di liberalizzazioni" e privatizzazioni che ha travolto il mondo intero, Italia inclusa. Nei paesi come la Russia, ad esempio, lo stravolgimento è stato colossale e ha permesso l'avvento dei famosi oligarchi, spesso di prigini non russe, che hanno preso possesso anche con la forza o l'inganno delle immense infrastrutture del paese e del valore delle risorse energetiche senza peraltro ammodernare o estendere gli impiamti esistenti. È un modo di fare che ci è purtroppo ben noto...
La narrazione di coloro che, qui tra noi in Italia, alludendo più o meno velatamente ad un annientamento della Russia o alla sua umiliazione quali migliori soluzioni del conflitto in atto, non fanno altro che corroborare la tesi di una proxy war, presuppone che un 'Ucraina integrata nell'economia occidentale, con la sua sola esistenza, intonerebbe una sorta di canto delle sirene, tale da alienare il consenso della maggioranza del popolo russo dalla sua attuale classe dirigente. In sintesi, Putin sarebbe terrorizzato dal fatto che i Russi potrebbero guardare ai loro vicini di casa come i tedeschi di Neubrandeburg guardavano ai berlinesi dell' Ovest negli anni 70'. Le favole del liberismo sono ingenue almeno tanto quanto lo sono quelle del sovranismo, ma forse sono più disoneste.