Lo scontro Russia-Nato e i rischi di un’escalation nucleare
Una minaccia non immediata, ma reale, che non può essere sottovalutata.
Gli eventi degli ultimi giorni vanno in direzione di un inasprimento del conflitto in Ucraina, con un maggiore coinvolgimento sia degli Stati Uniti che dei paesi europei.
In occasione della recente visita in Ucraina in compagnia del segretario di Stato Antony Blinken, il capo del Pentagono Lloyd Austin ha affermato: “Vogliamo vedere la Russia indebolita al punto da non poter fare il tipo di cose che ha fatto invadendo l’Ucraina”.
Il giorno dopo, in coincidenza di un incontro ufficiale alla base americana di Ramstein in Germania, che ha visto la partecipazione di oltre 30 paesi e dello stesso Austin, Berlino ha annunciato l’invio di 50 semoventi corazzati antiaereo Gepard a Kiev.
La decisione è stata presa sebbene, pochi giorni prima, il cancelliere tedesco Scholz avesse dichiarato: “Dobbiamo fare di tutto per evitare un confronto militare diretto fra la Nato e una superpotenza pesantemente armata come la Russia, una potenza nucleare”. Egli aveva aggiunto: “Farò di tutto per evitare un’escalation che potrebbe portare alla terza guerra mondiale – non può esserci una guerra nucleare”.
Le armi tedesche si aggiungono agli ingenti quantitativi che altri membri della Nato – e, soprattutto, gli Stati Uniti – stanno inviando al governo ucraino per contrastare l’avanzata russa.
Sul piano delle dichiarazioni, invece, l’affermazione di Austin sulla necessità di “indebolire la Russia” si somma alla frase pronunciata dal presidente Biden in occasione della sua visita a Varsavia alla fine di marzo: "Per l'amor di Dio, quest'uomo [Putin] non può rimanere al potere".
Non solo Biden non ha ritrattato l’idea di un cambio di regime a Mosca, ma tale idea è stata reiterata anche da altri a Washington (tra cui il senatore repubblicano Lindsay Graham), ed è radicata da anni negli ambienti governativi statunitensi. Si tratta, in altre parole, di un’opzione che continua a essere sul tavolo dei decisori americani, e che accresce enormemente il senso di insicurezza del Cremlino.
Mentre, al momento, tale opzione non è una scelta politica esplicitamente dichiarata o perseguita da Washington, la decisione di indebolire militarmente la Russia, enunciata da Austin, è stata confermata dal portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale: “Vogliamo che l’Ucraina vinca, vogliamo trasformare questa invasione in un fallimento strategico per la Russia”.
Nato pienamente coinvolta
Se si eccettua l’invio di truppe occidentali sul terreno, gli Stati Uniti e gli altri paesi della Nato sono ormai attori pienamente cobelligeranti (anche da un punto di vista giuridico) al fianco dell’Ucraina contro la Russia. L’Alleanza fornisce a Kiev armi, addestramento, supporto logistico e di intelligence.
Washington ha stanziato miliardi di dollari in armi da inviare a Kiev, a cui si aggiungono aiuti finanziari ed umanitari, per un pacchetto iniziale complessivo del valore di 13,6 miliardi. In segno di ulteriore escalation, Biden ha appena chiesto al Congresso altri 33 miliardi, più del doppio di quelli già stanziati.
Grazie al suo sofisticato sistema di aerei spia attorno ai confini dell’Ucraina, il Pentagono fornisce all’esercito ucraino informazioni di intelligence dettagliatissime, in particolare sulla dislocazione delle truppe russe, contribuendo così alla distruzione di mezzi corazzati e aerei di Mosca.
Sul terreno vi sono probabilmente consiglieri militari americani, così come vi sono forze speciali britanniche, e verosimilmente francesi e di altri paesi. E il ministro delle forze armate britanniche, che fornisce armi di ultima generazione a Kiev, ha incoraggiato il governo ucraino a colpire in profondità il territorio russo.
Che questa sia una ricetta per un pericoloso inasprimento del conflitto dovrebbe essere evidente. E lo ha rimarcato lo stesso ministro degli esteri russo Sergej Lavrov in una recente intervista, nella quale ha affermato che, pur non volendo accrescere artificiosamente i rischi di un conflitto nucleare, “il pericolo è serio, reale e non può essere sottovalutato.”
Lavrov ha sottolineato come molti dei trattati di non proliferazione, che in passato riducevano tale rischio – dal Trattato Abm (Anti-Ballistic Missile), al Trattato Inf (Intermediate-Range Nuclear Forces), al Trattato Open Skies – non esistono più perché abbandonati dagli Stati Uniti.
Secondo Lavrov, per rassicurare Washington sul fatto che i missili Iskander dispiegati nell’enclave russa di Kaliningrad (tra Polonia e Lituania) non violino i parametri del Trattato Inf, Mosca aveva proposto agli Usa, su una base di reciprocità, visite di esperti americani a Kaliningrad in cambio dell’accesso russo alle basi Usa in Polonia e Romania, che invece destano la preoccupazione del Cremlino. Ma l’offerta sarebbe stata rifiutata dagli Stati Uniti.
Dottrine nucleari a confronto
Un dibattito sulla possibilità di un conflitto nucleare è in corso anche fra gli esperti statunitensi, a conferma del fatto che il rischio esiste. Ma prima di addentrarci in tale dibattito, sarà utile ricordare che tutte le principali potenze atomiche hanno elaborato un’articolata “dottrina nucleare” che dovrebbe disciplinare il loro ricorso a questo tipo di armi.
Mentre la dottrina sovietica era incentrata sul principio del “no-first-use”, cioè sulla promessa di ricorrere all’arma atomica solo in risposta a un attacco con tali ordigni, nel 1993 la Russia abbandonò questo principio per compensare l’inferiorità delle sue forze armate convenzionali nei confronti della Nato.
Secondo la dottrina nucleare russa, tuttavia, il ricorso all’arma atomica rimane confinato a casi di estrema gravità. Il documento ufficiale aggiornato al 2020 indica che Mosca potrebbe ricorrere ad armamenti nucleari in risposta all’uso di tali armi, o di altre armi di distruzione di massa, da parte di una dato avversario contro la Federazione russa e/o i suoi alleati. O anche in caso di un attacco che metta a rischio il potere di deterrenza nucleare russo, o nell’eventualità di un’aggressione con armi convenzionali “qualora sia messa in pericolo l’esistenza stessa dello Stato”.
Dal canto loro, gli Stati Uniti non hanno mai adottato una “no-first-use” policy. In base alla loro dottrina nucleare, essi si impegnano a non ricorrere alle armi atomiche contro la maggior parte dei paesi sprovvisti di un programma nucleare militare, ed in generale a farne uso solo “in circostanze estreme per difendere gli interessi vitali degli Stati Uniti o dei loro alleati e partner”. Tuttavia, tali circostanze non sono specificate. Washington dunque mantiene una politica di “ambiguità calcolata” in ambito nucleare.
Il dibattito nucleare negli Usa
Sulla base di quanto scritto, e considerato che – a differenza di ciò che insistentemente sostiene la propaganda occidentale – sia Putin che i vertici militari russi sono attori pragmatici e razionali, la tesi di Siegfrid Hecker (noto esperto americano di sicurezza nucleare), secondo cui per i russi non ci sarebbe più una vera discontinuità fra armi convenzionali e nucleari, appare esagerata.
Sia Graham Allison (Harvard) che Gideon Rose (Council on Foreign Relations), dal canto loro, pensano che Mosca non ricorrerà alle armi nucleari. Con diverse sfumature, entrambi ritengono che i russi raggiungeranno alcuni obiettivi minimi riguardo al controllo del Donbass e delle regioni costiere meridionali dell’Ucraina.
A quel punto, gli scenari elaborati da entrambi prevedono che si giungerà ad uno stallo ed ambedue le parti belligeranti, logorate militarmente e fiaccate economicamente, negozieranno un cessate il fuoco. Si perverrà così ad un conflitto congelato che negherà una vera vittoria a Mosca, ma non le infliggerà nemmeno una reale sconfitta.
Rose, in particolare, aggiunge però che, per evitare un’escalation, la Nato non dovrà effettuare attacchi in territorio russo, né tentare di decapitare il Cremlino o di mettere Putin in una posizione disperata. Allo stesso modo, non dovranno essere dispiegate truppe Nato sul terreno, e non dovrà essere imposta alcuna no-fly zone.
Ma proprio tali condizioni essenziali rischiano di essere erose dal crescente coinvolgimento di Washington e della Nato. Se l’obiettivo diventa quello recentemente dichiarato dall’amministrazione Biden – cioè di far vincere l’Ucraina e sconfiggere la Russia, indebolendo militarmente Mosca – il rischio di un inasprimento del conflitto, potenzialmente candidato a sfociare in uno scontro nucleare, aumenta considerevolmente.
Una “vittoria” dell’Ucraina implicherebbe la riconquista di tutti i territori attualmente controllati dalla Russia, inclusa la Crimea, e ciò potrebbe avvenire solo a seguito di una guerra estremamente distruttiva che vedrebbe un massiccio coinvolgimento della Nato (anche in assenza di truppe occidentali sul terreno), e sarebbe disastrosa per la popolazione ucraina.
Kiev, infatti, non dispone di forze sufficienti per una simile impresa, mentre i russi hanno impiegato solo una quota limitata del loro potenziale bellico. Inoltre, la Crimea è considerata dal Cremlino a tutti gli effetti territorio russo e, ospitando la base navale di Sebastopoli, ha un enorme valore strategico per Mosca.
Condizioni per un allargamento del conflitto
Le condizioni per un inasprimento/allargamento del conflitto esistono già, e sono numerose:
- I consiglieri militari e le forze speciali occidentali, che aiutano l’esercito ucraino a identificare e distruggere obiettivi russi, possono essere oggetto di rappresaglie da parte di Mosca.
- Diversi attacchi ucraini e altre azioni di sabotaggio in territorio russo, probabilmente con aiuto logistico e di intelligence occidentale, si sono già verificati (colpiti, in particolare, una raffineria a Bryansk e un deposito di munizioni a Belgorod, a cui vanno aggiunti vari incendi, probabilmente frutto di azioni di sabotaggio, nel paese).
- Rimane elevata la possibilità di attacchi “sotto falsa bandiera” in Ucraina, che coinvolgano incidenti di natura biologica, chimica o radioattiva volti ad incolpare l’avversario (attacchi per i quali ha un incentivo soprattutto il governo di Kiev, desideroso di un impegno sempre più diretto della Nato nel conflitto). Nel paese vi sono numerosi biolaboratori, industrie chimiche e impianti nucleari.
- L’affondamento della Moskva, l’ammiraglia russa nel Mar Nero, rimane un mistero che coinvolge direttamente i fragili equilibri in questo bacino. Per la sua complessità, difficilmente l’operazione è stata condotta solo dagli ucraini, e potrebbe aver visto il coinvolgimento di intelligence, e forse anche di armi, della Nato. Mosca potrebbe cercare una rappresaglia asimmetrica, anche su teatri estranei al conflitto ucraino.
- Lo scorso 25 aprile, si sono registrate diverse esplosioni vicino al ministero della Sicurezza di Stato a Tiraspol, capitale della Transnistria, regione separatista della Moldova sotto controllo russo dal 1992. Due giorni dopo, sono state distrutte delle torri di trasmissione nel villaggio di Maiac. La Transnistria ospita il maggior deposito di armi dell’Europa dell’Est, a soli 2 chilometri dal confine ucraino sudoccidentale. Sebbene i russi abbiano espresso il desiderio di unire la regione separatista alla Crimea, prendendo il controllo dell’intera fascia costiera ucraina, il raggiungimento di tale obiettivo non appare imminente. Uno scenario di destabilizzazione della Transnistria potrebbe però includere mire ucraine e moldave, con il possibile coinvolgimento della vicina Romania (che è membro della Nato).
- La Polonia (altro membro Nato) rimane la retrovia più importante del governo di Kiev, da cui proviene la maggior parte delle armi e dei rifornimenti. Il paese ha ospitato almeno 2,6 milioni di profughi ucraini. Le basi polacche di Mielec e Rzeszow pullulano di soldati americani. Varsavia nutre anche rivendicazioni storiche nei confronti dell’Ucraina occidentale. Dopo che i russi hanno ritirato le proprie truppe dai dintorni di Kiev, è proprio dalla Polonia che potrebbe partire un’eventuale missione di “peace-keeping” confinata all’Ucraina occidentale che, però, potrebbe avere paradossalmente effetti destabilizzanti.
- Vi sono poi altri teatri che potrebbero portare a un allargamento del conflitto, o quantomeno ad un inasprimento delle tensioni – dal Caucaso (conflitto del Nagorno-Karabakh) al Kazakistan (vittima di un recente tentato golpe), alla Siria (dove vi è una presenza militare russa e americana), alla Finlandia (e in second’ordine alla Svezia) nel caso di un ulteriore allargamento della Nato a questi paesi.
Mosca non può tirarsi indietro
Per ragioni che ho spiegato altrove, Mosca è intervenuta militarmente quando si è convinta che non vi fossero più alternative negoziali. La neutralità dell’Ucraina, o quantomeno un ulteriore cuscinetto che separi la Russia dalla Nato, sono obiettivi vitali a cui il Cremlino ritiene di non poter rinunciare. A maggior ragione, dopo le durissime sanzioni imposte dall’Occidente. Una sconfitta in Ucraina avrebbe inevitabilmente pesanti ripercussioni in Russia.
Un ultimo elemento, che è stato ampiamente trascurato in Occidente, va poi sottolineato. La Russia ha finora combattuto “con un braccio legato dietro la schiena”, come confermano fonti dell’intelligence militare americana.
La designazione di “missione miliare speciale” conferita dal Cremlino all’intervento in Ucraina, pur contenendo un inevitabile elemento di propaganda, riflette anche un dato di fatto. E cioè che effettivamente Mosca non aveva puntato inizialmente su una guerra tradizionale, ma su un’azione rapida che, causando minimi danni collaterali, costringesse il governo ucraino al negoziato, sotto l’effetto della pressione militare, o addirittura determinasse un cambio di regime a Kiev. Questo mancato obiettivo riflette un fallimento dell’intelligence, piuttosto che una sconfitta dell’esercito.
Ad oggi, non vi è una piena mobilitazione militare in Russia, perché non è stato dichiarato lo stato di guerra. Vi sono però indicazioni di un crescente malumore nell’esercito, e di una spaccatura fra i militari ed i servizi di intelligence dell’Fsb, considerati dai primi responsabili dell’iniziale fallimento.
Sta perciò aumentando la pressione nei confronti del presidente Putin, affinché venga dichiarato lo stato di guerra e si faccia ricorso all’intero potenziale della macchina bellica russa, a cominciare dalla sottoutilizzata aviazione.
Ed è proprio a questo risultato che potrebbe portare l’escalation militare occidentale, qualora a Mosca si radicasse definitivamente la convinzione di dover fronteggiare non l’esercito ucraino, ma una vera e propria aggressione da parte della Nato.
Non bisogna mettere il Cremlino con le spalle al muro
In un circolo vizioso, una piena mobilitazione militare da parte della Russia richiederebbe un ulteriore coinvolgimento della Nato per essere arrestata. L’Ucraina pagherebbe un prezzo altissimo in termini di devastazioni. E i rischi di allargamento del conflitto sarebbero enormi. Inoltre, a quel punto Mosca sarebbe davvero costretta a giocarsi il tutto per tutto in una vera e propria battaglia per la propria sopravvivenza.
Una sconfitta russa, al termine di un conflitto nel quale il Cremlino avrebbe sacrificato una parte consistente della propria potenza militare, rischierebbe infatti di destabilizzare internamente la Russia. Una pericolosa riduzione delle capacità convenzionali di Mosca, e un indebolimento dello Stato, avvicinerebbero le condizioni sotto le quali la stessa dottrina militare russa considera lecito il ricorso alle armi nucleari.
Senza contare che un eccessivo indebolimento della Russia, o addirittura un suo crollo, sarebbero inaccettabili per Pechino, aprendo così le porte a una nuova serie di imprevedibili rischi di escalation.
Da parte dell’Occidente, dunque, la decisione di puntare sulla piena sconfitta di Mosca può portare a conseguenze di portata incalcolabile.
Ammetto che non sono ferrato su queste questioni, ma mi sembra la storia di ogni guerra recente, dalla WWII in poi... azioni militari che dovevano essere "veloci" e poi invece si rivelano essere i primi passi di un conflitto ben più grande e lungo..