La Russia e i biolaboratori americani in Ucraina
Perché le denunce russe sollevano una questione di portata globale
Fra le tante accuse incrociate che Mosca e Washington si sono scambiate dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina, spiccano le dichiarazioni russe secondo cui gli Stati Uniti gestirebbero sul territorio ucraino biolaboratori nei quali si sviluppano anche armi biologiche.
Sebbene sia stata bollata come “disinformazione” dall’amministrazione americana e dai principali media occidentali, la questione è rilevante rientrando nella problematica più ampia della proliferazione di biolaboratori a livello mondiale nella pressoché totale assenza di efficaci regolamentazioni internazionali.
Le accuse russe
Lo scorso 6 marzo, il Ministero della difesa russo ha affermato di essere entrato in possesso di prove documentali che confermerebbero la collaborazione di Ucraina e Stati Uniti nello sviluppo di armi biologiche. In coincidenza con l’invasione russa, gli impiegati dei laboratori ucraini avrebbero ricevuto urgenti istruzioni americane di distruggere pericolosi patogeni in loro possesso: peste, antrace, tularemia, colera e altri agenti letali.
Una delle ricerche ucraine condotte in collaborazione con gli Usa avrebbe riguardato la trasmissione di pericolose infezioni tramite gli uccelli migratori. Un altro studio sulla trasmissione di patogeni dai pipistrelli all’uomo sarebbe stato invece condotto in un biolaboratorio cogestito dagli americani in Georgia, un altro paese al confine con la Russia.
Lo stesso ministro degli esteri russo Sergei Lavrov ha accusato il Pentagono di aver creato decine di biolaboratori militari sul territorio ucraino come parte del proprio programma di disseminare biolaboratori in tutto il mondo, in violazione della Convenzione sulla proibizione delle armi biologiche.
Il Ministero della difesa russo ha anche fatto alcuni nomi, in particolare quello di Robert Pope, direttore del Cooperative Threat Reduction Program (Ctrp) del Dipartimento della difesa Usa, e promotore dell’idea di creare a Kiev un deposito centrale di agenti patogeni ad alta pericolosità. Lo testimonierebbe una lettera da lui inviata all’allora ministro ucraino della salute Ulana Suprun, (cittadina americana di origini ucraine), in cui la ringraziava per aver garantito agli specialisti americani l’accesso ai biolaboratori ucraini.
Altri nomi sono stati fatti. Fra essi spiccano Joanna Wintrol, alla guida dell’ufficio ucraino della Defense Threat Reduction Agency (Dtra) del Pentagono, e responsabile del coordinamento dei progetti biologici nel paese. Lance Lippencott, responsabile in Ucraina della società Black & Veatch, un contractor del Pentagono. David Mustra, coordinatore di Metabiota, altra società strettamente legata al Dipartimento della difesa americano. E Mary Guttieri, già vicepresidente di Metabiota e “confidente” di Hunter Biden (figlio del presidente), secondo la corrispondenza di cui sarebbero in possesso i russi.
L’11 marzo, la Russia ha chiesto una riunione d’urgenza del Consiglio di sicurezza dell’Onu per discutere le “attività biologiche degli Usa sul territorio ucraino”. Il rappresentante permanente della Russia all’Onu, Vassily Nebenzia, ha confermato la scoperta di una rete di almeno 30 biolaboratori, in particolare a Odessa, Kiev, Lvov, Kharkov, Dnipro, Kherson, Ternopol, Uzhgorod, Vinnytsiache, che avrebbero lavorato al potenziamento di agenti patogeni letali. Tutti i documenti sono stati resi disponibili dal Ministero della difesa russo.
Le accuse russe in realtà precedono l’invasione dell’Ucraina di diversi anni. Già nel 2015, il segretario del Consiglio di sicurezza russo Nikolai Patrushev denunciava che “il numero dei biolaboratori controllati dagli Usa intorno alla Russia è aumentato di 20 volte”.
Nel 2017 lo stesso presidente russo Vladimir Putin aveva sollevato dubbi sulle finalità che potevano avere gli americani nel raccogliere materiale genetico specifico dei differenti gruppi etnici che abitano la Russia. Tale attività di ricerca era portata avanti in quel momento dallo US Air Education and Training Command (Aetc). Nel 2018 Mosca aveva chiesto chiarimenti a Washington sul “perché agenti tossici ed armi biologiche vengono conservati presso il Richard Lugar Public Health Research Center”, un laboratorio presso la capitale georgiana Tbilisi.
Secondo un reportage investigativo della giornalista bulgara Dilyana Gaytandzhieva, il Pentagono ha finanziato diversi progetti di ricerca in questa struttura, comprendenti studi sui pipistrelli e i coronavirus dell’Asia occidentale.
Nell’ottobre 2021, in piena pandemia, Mosca aveva nuovamente puntato il dito, questa volta insieme a Pechino, sulla possibilità che Washington utilizzasse agenti biologici come armi.
Le smentite americane
Washington naturalmente si è sforzata di screditare le accuse russe, ma le smentite americane non sono parse convincenti. Fin dall’inizio dell’invasione russa, lo stesso Robert Pope aveva lanciato l’allarme sui rischi per la sicurezza di una “rete di laboratori legati agli Usa in Ucraina che lavorano con pericolosi patogeni”.
Pope aveva negato che tali strutture operassero con armi biologiche, affermando tuttavia che alcuni di essi avrebbero potuto possedere ceppi patogeni appartenenti al vecchio programma sovietico di armi biologiche “conservati in congelatore per scopi di ricerca”.
Diverse testate statunitensi hanno pubblicato articoli volti a screditare la campagna di “disinformazione” russa. Ma Washington non ha fornito nessuna risposta conclusiva.
Il problema, come ha spiegato il professor Greg Koblentz, direttore della scuola di biodifesa alla George Mason University, è che molti dei patogeni e gran parte dell’attrezzatura che vengono utilizzati in un programma di armi biologiche sono impiegati anche a scopi civili, come ad esempio nella produzione di vaccini.
In altre parole, gran parte della ricerca che viene svolta nei biolaboratori è intrinsecamente dual-use, ovvero può essere impiegata sia per scopi benevoli che malevoli (questi ultimi includono le armi biologiche e il bioterrorismo).
Pope ha affermato che gli Stati Uniti stavano cercando di impedire ai russi di entrare in possesso dei patogeni conservati nei laboratori poiché, se ciò fosse avvenuto, Mosca avrebbe potuto “fabbricare prove” a supporto della loro “campagna di disinformazione”.
Il sottosegretario agli affari politici Victoria Nuland, fra i principali responsabili dalla politica americana in Ucraina, ha in qualche modo fornito la stessa versione, tuttavia accrescendo i sospetti invece di sopirli.
Comparendo di fronte alla Commissione affari esteri del Senato, la Nuland ha risposto con una certa indecisione alla domanda postale dal senatore Marco Rubio: “L’Ucraina possiede armi chimiche o biologiche?”.
Invece di smentire categoricamente, la Nuland ha risposto che “L’Ucraina ha strutture di ricerca biologica delle quali, in effetti, siamo piuttosto preoccupati che le forze russe possano cercare di entrare in possesso, per cui stiamo lavorando con gli ucraini per impedire che qualcuno di questi materiali di ricerca cada nelle mani delle forze russe”.
Il programma sovietico di armi biologiche
L’origine del coinvolgimento americano nei biolaboratori ucraini risale al 1991, quando venne istituito il Cooperative Threat Reduction Program (Ctrp) allo scopo di smantellare le armi di distruzione di massa in possesso dei paesi dell’ex-Urss, in base agli accordi di disarmo stipulati con Mosca.
Il Ctrp fornì fondi e know-how a Russia, Ucraina, Georgia, Azerbaigian, Bieolrussia, Uzbekistan e Kazakistan per mettere in sicurezza e progressivamente distruggere i loro arsenali di armi nucleari, chimiche e biologiche, ma anche per trovare un nuovo impiego alle migliaia di scienziati ex-sovietici che avevano lavorato al programma di armi di distruzione di massa dell’Urss.
Nato come una risposta emergenziale al caos che rischiava di travolgere il blocco ex-sovietico, il Ctrp si sviluppò negli anni successivi in un programma più ampio volto a impedire a “Stati canaglia” e gruppi terroristici di entrare in possesso di tali armi.
Secondo gli americani, bisognava impedire in primo luogo che gli scienziati ex-sovietici venissero arruolati dall’Iran, che avrebbe manifestato interesse nei loro confronti a partire dalla primavera del 1997.
Il primo accordo per la non-proliferazione delle armi di distruzione di massa fra Ucraina e Stati Uniti risale al 1993, ma venne notevolmente ampliato nel 2005, all’indomani della “rivoluzione arancione” che portò alla presidenza Viktor Yushchenko con il diretto sostegno americano.
Il nuovo accordo, che venne approvato dal governo ucraino grazie alla “sollecitudine” dell’allora primo ministro Yuliya Tymoshenko, riguardava la cooperazione fra Washington e Kiev nel prevenire la “proliferazione di tecnologie, patogeni, e competenze che potrebbero essere usati nello sviluppo di armi biologiche”.
Esso prevedeva la possibilità di trasferire negli Usa i patogeni conservati nei laboratori ucraini, e la ristrutturazione di laboratori “anti-peste” ritenuti facilmente accessibili da parte di potenziali terroristi. L’assistenza fornita dal dipartimento della difesa americano includeva la ricerca biologica e il rilevamento di potenziali minacce biologiche.
In base all’accordo, i patogeni pericolosi erano custoditi in laboratori centralizzati in stretta collaborazione con il Dipartimento della difesa Usa. L’articolo VII dell’accordo assegnava al Pentagono il compito di stabilire quali informazioni legate alla ricerca di laboratorio fossero considerate “sensibili”, e di conseguenza designate come “informazioni riservate” non divulgabili. Per contro, alcune informazioni e tecnologie classificate come “segreto di Stato” in base alla legge ucraina potevano essere condivise con il dipartimento della difesa statunitense.
Accordi non dissimili vennero stipulati da Washington con Armenia, Georgia e Kazakistan. Negli anni, inoltre, il Pentagono ha esteso le sue collaborazioni in Africa, Medio Oriente, Asia meridionale e Sudest asiatico.
Varrà la pena, a questo punto, ricordare la summenzionata dichiarazione della Nuland, così come le ammissioni di Pope sulla possibile presenza di ceppi patogeni risalenti al programma sovietico di armi biologiche “conservati nei congelatori per scopi di ricerca”.
“Non mi stupirei”, aveva aggiunto Pope, “se alcune di queste collezioni in qualche laboratorio annoverassero ancora ceppi patogeni che risalgono alle origini di quel programma”.
In altre parole, sulla base di quanto scritto fin qui, non solo è ragionevole ritenere che il programma sovietico di armi biologiche non sia mai stato smantellato del tutto, ma anche che gli Stati Uniti abbiano avviato nuovi programmi di ricerca in diversi paesi ex-sovietici, Ucraina inclusa, anche nel campo della biodifesa.
Il rinnovato interesse americano alla “biodifesa”
Vi è però un confine molto labile fra biodifesa e ricerca finalizzata alla guerra biologica (biowarfare), per ragioni non dissimili da quelle per cui i biolaboratori hanno applicazioni intrinsecamente dual-use.
Teoricamente la biodifesa consiste nello sviluppo di contromisure sanitarie volte a prevenire e contrastare una minaccia biologica (dal bioterrorismo alle armi biologiche), inclusa la produzione di medicinali e vaccini.
Fra queste contromisure, tuttavia, figura anche la produzione in laboratorio di patogeni potenziati al fine di creare vaccini che li neutralizzino.
Fra le tecniche impiegate a tale scopo vi è la controversa ricerca gain-of-function (letteralmente “acquisizione di funzione”) che, attraverso la creazione di virus geneticamente modificati, accresce la trasmissibilità e la virulenza dei patogeni, e talvolta consente loro di effettuare il cosiddetto “salto di specie” e di contagiare l’uomo.
I virus così potenziati sono di fatto delle armi biologiche, anche se vengono teoricamente prodotti a scopo di biodifesa.
Naturalmente, come l’Unione Sovietica anche gli Stati Uniti hanno una lunga storia nella produzione di armi biologiche. Dopo aver ufficialmente terminato il proprio programma militare nel 1973, Washington ha mostrato rinnovato interesse agli ambiti legati alla biodifesa a partire dal nuovo millennio. Ciò coincise con l’ascesa al potere dei neocon.
Nel 2000, una publicazione del Project for the New American Century (Pnac), influente think tank neocon, affermava che “forme avanzate di guerra biologica che possono ‘prendere di mira’ specifici genotipi potrebbero trasformare la guerra biologica da strumento di terrorismo a utile strumento politico” (“Rebuilding America’s Defenses”, p. 60).
Meno di un anno dopo, l’amministrazione Bush rifiutò di adottare un protocollo rafforzato della Convenzione sulle armi biologiche (approvata nel 1975) i cui negoziati a livello internazionale si protraevano dal 1995.
Bush approfittò poi dei misteriosi attacchi all’antrace, verificatisi negli Stati Uniti subito dopo gli attentati dell’11 settembre, per dirottare ingenti fondi sulle ricerche nel campo della biodifesa. Ciò avrebbe dato inizio ad una pericolosa proliferazione di biolaboratori dapprima negli Stati Uniti e poi a livello mondiale, visto che altri paesi si ritennero costretti ad inseguire gli Usa su questo terreno.
Alla luce di questi fatti, le attività di ricerca americane nei laboratori ucraini possono giustamente suscitare sospetti e apprensione agli occhi di Mosca.
Dopo la firma dell’accordo ucraino-americano del 2005, tali attività si sono progressivamente intensificate. Invece di essere dismessi, diversi biolaboratori vennero rinnovati. Un nuovo laboratorio BSL-3 (il numero indica il livello di biosicurezza, su una scala crescente di 4) per lo studio di antrace, tularemia ed altri pericolosi patogeni venne inaugurato ad Odessa nel 2010.
Decine di milioni di dollari vennero assegnati a diverse compagnie americane per portare a compimento tali progetti. Tra esse figurano in particolare Black & Veatch e Metabiota. La prima è una società ingegneristica, già contractor del Pentagono in Iraq e Afghanistan, responsabile della realizzazione dell’appena citato laboratorio di Odessa, e assegnataria di altri progetti in collaborazione con il governo ucraino, per un valore complessivo di 87 milioni di dollari fino al 2017.
Metabiota, Hunter Biden e l’Ucraina
Metabiota, dal canto suo, ha una storia ancor più degna di attenzione. Essa fu fondata nel 2008 dal virologo Nathan Wolfe, inizialmente con il nome di Global Viral Forecasting Initiative, e finanziata da Google. La compagnia annoverava fra i suoi principali obiettivi la prevenzione pandemica e la catalogazione dei virus in svariate zone del mondo.
Wolfe, “laureato” Young Global Leader presso il World Economic Forum, scrisse nel 2011 un libro sinistramente intitolato “The Viral Storm: The Dawn of a New Pandemic Age”, in cui prefigurava una nuova era di pandemie e di “prevenzione pandemica”.
Egli ha anche un rapporto di collaborazione con la EcoHealth Alliance, controversa società al centro dello scandalo degli esperimenti gain-of-function condotti presso il laboratorio di Wuhan in Cina, che potrebbero essere all’origine dell’epidemia da Covid-19 (una tesi ingiustamente e volutamente screditata, di cui ho scritto approfonditamente qui).
EcoHealth Alliance e Metabiota erano infatti entrambe partner del progetto PREDICT, parte del programma Emerging Pandemic Threats finanziato dall’americana Usaid. Il progetto mirava a rafforzare la capacità di rilevamento di virus con potenziale pandemico, e fu il predecessore del più ambizioso Global Virome Project (Gvp). Quest’ultimo è un progetto di mappatura mondiale dei virus con potenziale zoonotico (cioè potenzialmente in grado di effettuare il salto di specie contagiando l’uomo).
In un classico esempio di “porte girevoli”, nel 2016 Metabiota assunse Andrew Weber, un membro del Council of Foreign Relations, probabilmente il più influente think tank americano. Funzionario governativo di alto livello e diplomatico di lungo corso, Weber fu tra i promotori del Ctrp del Pentagono e fu sottosegretario alla difesa durante la presidenza Obama, occupandosi dei programmi di difesa nucleare, chimica e biologica.
Le fonti di finanziamento di Metabiota sono molteplici. Tra esse figurano In-Q-Tel, una società che investe in compagnie high-tech per conto della Cia, e Rosemont Seneca Technology Partners, un fondo di investimento cogestito da Hunter Biden, figlio dell’attuale presidente americano.
Mail recuperate dal suo computer portatile, la cui autenticità è ormai comprovata, confermano che Hunter Biden contribuì ad assicurare milioni di dollari di finanziamento a Metabiota. Egli introdusse anche Metabiota ad una società energetica ucraina, Burisma, essendone membro del consiglio di amministrazione dal 2014 (subito dopo la rivolta di Maidan che insediò a Kiev un governo filo-occidentale).
Una mail inviata da Mary Guttieri, vicepresidente di Metabiota, a Hunter Biden allegava un promemoria che descriveva le attività della compagnia in Ucraina, e “come possiamo sfruttare il nostro team, le nostre reti, e i nostri concetti per affermare l’indipendenza culturale ed economica dell’Ucraina dalla Russia e la sua continua integrazione nella società occidentale” – un obiettivo alquanto peculiare per una compagnia specializzata nel campo delle biotecnologie.
Metabiota ottenne un contratto federale di 18,4 milioni di dollari, finanziato dal Pentagono, per progetti legati ai biolaboratori in Ucraina e Georgia. La società fu anche coinvolta nel 2016 in uno scandalo per la cattiva gestione dell’epidemia di Ebola nell’Africa occidentale.
La proliferazione dei biolaboratori e della ricerca dual-use: una questione globale
La proliferazione di biolaboratori, in Ucraina come altrove, e le attività pericolose e poco trasparenti che vi si conducono, siano esse legate a progetti di prevenzione pandemica o di biodifesa, destano preoccupazione.
Esse costituiscono una minaccia non solo per alcuni paesi, come la Russia ha legittimamente denunciato, ma per l’umanità intera, come la pandemia da Covid-19 – che, come accennato, ha notevoli probabilità di essere frutto di un incidente di laboratorio – ha tristemente confermato.
Gli Stati Uniti hanno dunque il dovere di rispondere ai quesiti che sono stati loro posti, e di porre fine a tali attività laddove esse costituiscano una minaccia per alcuni paesi ed in generale per la salute pubblica.
Ma la proliferazione dei biolaboratori e della ricerca dual-use è ormai una questione globale che riguarda numerosi paesi.
E’ dunque urgente definire una rigida regolamentazione internazionale in materia di biosicurezza, ed imporre adeguati limiti e standard di trasparenza alla ricerca dual-use.
E’ infine imprescindibile sensibilizzare l’opinione pubblica su questi temi di rilevanza cruciale per la sicurezza di tutti, sui quali vi è purtroppo scarsissima consapevolezza, al fine di esercitare la necessaria pressione sui governi perché si muovano nella giusta direzione.