IN PILLOLE – Ucraina fra narrazione ufficiale e volontà popolare, la tela diplomatica russa fra Turchia e Siria, USA e crisi afghana, le rivelazioni dei Twitter Files, nuovo governo in Israele
Seconda uscita della nuova rubrica di questa Newsletter, “In pillole”, che intende raccogliere analisi brevi su alcuni fra gli sviluppi più significativi del panorama internazionale. Dalla prossima settimana riprendono le analisi tradizionali.
Conflitto ucraino: narrazione ufficiale e volontà popolare
La tela diplomatica russa in Medio Oriente e la possibile normalizzazione turco-siriana
Gli USA aggravano la crisi umanitaria in Afghanistan
Twitter Files: come social media e mezzi di informazione sono infiltrati dall’intelligence USA
Il nuovo governo Netanyahu in Israele e i rischi per la regione mediorientale
Conflitto ucraino: narrazione ufficiale e volontà popolare
La narrazione sul conflitto ucraino dominante in Occidente sostiene che esso sia conseguenza di una “aggressione non provocata” da parte di Mosca nei confronti di un paese che non poneva alcuna minaccia alla sicurezza russa. E’ la versione sostenuta dalla NATO e da tutti i governi occidentali.
Vi è poi una versione apparentemente più “equilibrata” secondo cui il conflitto ucraino sarebbe frutto di un cosiddetto “dilemma di sicurezza”, cioè una situazione in cui due fronti contrapposti compiono ciascuno azioni volte alla propria difesa, che il fronte avverso percepisce come una minaccia.
Siccome ogni attore risponde alle azioni dell’avversario, il risultato è una spirale di militarizzazione e di escalation, sebbene entrambi i fronti insistano, e possano perfino ritenere, che le proprie azioni siano difensive. L’essenza di un “dilemma di sicurezza” è la mancanza di fiducia fra le parti.
Se questa interpretazione ammette che la Russia possa essersi sentita minacciata dall’espansione della NATO, essa sostiene però che Mosca avrebbe reagito assertivamente suscitando le paure dei propri vicini (oltre che dei membri stessi dell’Alleanza Atlantica).
Questa tesi, per quanto riguarda l’Ucraina, sembra però essere stata smentita in almeno due frangenti. In occasione di entrambi, il governo ucraino in carica, sostenuto dagli Stati Uniti, ha agito in contrasto con la volontà della popolazione, che evidentemente non si sentiva così minacciata.
La prima risale al marzo 2014, all’indomani della rivolta di Maidan che aveva rovesciato il governo Yanukovych, insediando a Kiev un governo antirusso.
Secondo un sondaggio condotto dall’americano International Republican Institute (affiliato al partito repubblicano), perfino dopo gli eventi di Maidan, una netta maggioranza della popolazione rimaneva contraria a un’adesione dell’Ucraina alla NATO.
Naturalmente, tale maggioranza risultava schiacciante nel sud e ancora di più nell’est dell’Ucraina, divenendo invece minoranza nel centro, e soprattutto nell’ovest: una conferma delle divisioni e delle differenti identità presenti nel paese.
Incurante di questa realtà, il governo abbracciò una chiara politica di adesione all’Alleanza Atlantica.
La seconda occasione risale al 2019, allorché il presidente neoeletto Zelensky, tradendo il chiaro mandato popolare con cui era stato eletto (che prevedeva la ricerca di una soluzione negoziale al conflitto nel Donbass e una riappacificazione con la Russia), decise di sposare l’agenda dei nazionalisti determinati a perseguire una soluzione militare che portasse alla capitolazione del Donbass.
In entrambe queste occasioni, dunque, i governi di Kiev hanno forzato la volontà popolare, adottando politiche ostili a Mosca, che però non erano condivise da ampie fasce della popolazione.
La tela diplomatica russa in Medio Oriente e la possibile normalizzazione turco-siriana
La Russia, che a differenza degli USA è una “superpotenza” sotto il profilo della diplomazia, continua a tessere instancabilmente la sua tela dal Mar Nero al Medio Oriente. Gli sforzi, questa volta, potrebbero portare a una normalizzazione fra Turchia e Siria.
Come ha scritto l’analista americano Sam Heller, Mosca sembra avere su Ankara un potere di veto che Washington non ha.
E così la minacciata offensiva di terra turca contro i curdi in territorio siriano al momento è sospesa, non per le proteste americane, ma in conseguenza del “niet” russo (ma anche dell’arte diplomatica di Mosca).
Dal 2016, la Turchia ha lanciato 4 importanti campagne militari in Siria, 3 delle quali finalizzate ad impedire ai curdi di realizzare una contiguità territoriale lungo il confine meridionale turco.
Le conquiste territoriali curde in Siria nella guerra contro l’ISIS avevano contribuito enormemente a deteriorare i rapporti fra Ankara e Washinton.
Malgrado gli attriti, La Turchia ha invece coordinato le sue campagne militari contro i curdi con Russia e Iran, nel quadro del cosiddetto “formato di Astana” (dal nome della capitale kazaka dove hanno avuto luogo i negoziati).
Nel corso dell’offensiva aerea turca di fine novembre, gli appelli americani alla de-escalation e alla moderazione rivolti alla Turchia non hanno sortito effetti. I raid turchi hanno colpito perfino le installazioni petrolifere controllate dai curdi e gestite da compagnie internazionali, e il perimetro di una base curdo-americana ad Hasakah.
L’azione diplomatica russa ha avuto ben altro risultato. Lo scorso 28 dicembre, i ministri della difesa e i responsabili dell’intelligence di Turchia e Siria si sono incontrati a Mosca con i loro omologhi russi.
Fin da agosto, Putin aveva spinto Erdogan a coordinarsi con il governo siriano per risolvere le preoccupazioni di sicurezza turche legate alla presenza curda sul confine. Per anni i russi hanno incoraggiato una normalizzazione turco-siriana sulla base dell’accordo di Adana del 1998.
Damasco vuole che sia ripristinata la sovranità del paese. Chiede perciò il ritiro turco dal territorio siriano, e che Ankara smetta di appoggiare le fazioni ribelli in Siria. I turchi vogliono invece la creazione di una zona di sicurezza di almeno 20 km sul confine, che sia preclusa ai curdi, e chiedono la cooperazione di Damasco contro le formazioni curde dell’YPG e del PKK.
A seguito dell’incontro di Mosca, il quotidiano governativo siriano al-Watan ha scritto che la Turchia sarebbe “disponibile” a ritirare le sue forze dal territorio siriano. La questione curda verrebbe gestita in maniera coordinata con Damasco.
Il negoziato prosegue, ma la prospettiva di una normalizzazione turco-siriana, legata al ritorno di almeno una parte dei 3,7 milioni di profughi siriani presenti sul territorio turco, sta diventando popolare in Turchia. Erdogan ha bisogno di un risultato in vista delle elezioni presidenziali e parlamentari del giugno 2023.
Un possibile accordo potrebbe essere sancito da un incontro Putin-Erdogan-Assad prima dell’appuntamento elettorale turco. Una normalizzazione turco-siriana sponsorizzata da Mosca sarebbe una sconfitta per i curdi appoggiati dagli USA, e isolerebbe ulteriormente Washington in Siria.
Il dispiegamento di forze siriane al confine con la Turchia indebolirebbe sia l’YPG che il ruolo americano nel martoriato paese mediorientale, alleviando allo stesso tempo le paure di Ankara. Resta da risolvere il posto che i curdi occuperanno all’interno dello stato siriano.
Se il negoziato andasse in porto, consoliderebbe l’influenza russa nei confronti di Damasco, di Ankara e dell’intera area. Anche il rapporto con Israele potrebbe migliorare alla luce del legame di amicizia fra Putin e il neo-premier israeliano Netanyahu.
Se a ciò aggiungiamo il ruolo che Mosca gioca all’interno dell’OPEC+, i sempre più stretti rapporti russi con le monarchie del Golfo, e il consolidarsi di un asse strategico Russia-Iran, si può concludere che la diplomazia di Mosca sta ottenendo grandi successi in tutta l’Asia occidentale.
Inoltre si potrebbe affermare che le previsioni secondo cui il conflitto ucraino avrebbe inevitabilmente posto Ankara e Mosca su una rotta di collisione si sono rivelate infondate.
Gli USA aggravano la crisi umanitaria in Afghanistan
Alcuni ricorderanno che l’Afghanistan è sprofondato in una gravissima crisi umanitaria non solo per l’incapacità dei Talebani a governare, ma soprattutto perché, appena riconquistarono il potere nell’agosto del 2021, USA, Europa ed Emirati Arabi Uniti congelarono circa 9 miliardi di dollari di riserve della banca centrale afghana.
Senza l’accesso a questi fondi, e a causa di altre sanzioni occidentali e del declino degli aiuti umanitari, l’Afghanistan ha registrato un crollo economico e uno spaventoso aumento della povertà, per cui 6 milioni di afghani sono direttamente minacciati dalla fame.
Secondo il Center for Economic and Policy Research (CEPR), la sanzioni USA e il congelamento delle riserve afghane potrebbero uccidere più persone che 20 anni di guerra e occupazione americana.
A settembre, sotto la pressione dell’opinione pubblica internazionale, l’amministrazione Biden decise un cambio di politica, e versò metà degli asset afghani controllati dagli USA in una fondazione privata svizzera, controllata da appena 4 persone.
L’obiettivo dichiarato era di usare questi fondi “per il bene del popolo dell’Afghanistan evitando di farli finire nelle mani dei Talebani e di altri attori malevoli”.
Ma un'inchiesta recente rivela che nessuno di questi fondi è stato erogato per aiutare gli afghani, e non vi è alcun piano per farlo in tempi brevi. Il sospetto è che l’amministrazione Biden si prefigga di inasprire una crisi umanitaria già gravissima, probabilmente con l’intento di prolungare la situazione di instabilità in un’area strategica dell’Asia centrale, fra Cina, Iran e Russia.
Twitter Files: come social media e mezzi di informazione sono infiltrati dall’intelligence USA
Grazie all’esame dei Twitter Files e ad altre indagini, ora sappiamo (o meglio, abbiamo un’ulteriore conferma) che negli USA social media e mezzi di informazione sono infiltrati dall’intelligence governativa.
Dai Twitter Files siamo venuti a sapere che Twitter gestiva “liste nere” allo scopo di “filtrare la visibilità” (shadow-banning) di coloro che erano posti in queste liste, che Twitter era infiltrato dall’FBI, che ha aiutato le campagne di propaganda sotto copertura del Pentagono su internet, che collaborava con la CIA, che ha manipolato il dibattito sul COVID censurando informazioni vere ma scomode per il governo, ecc.
Un elenco completo degli esiti dell’indagine dei Twitter Files è consultabile qui.
D’altra parte, questa situazione non è peculiare di Twitter.
Da altre indagini emerge che decine di persone che occupano posizioni elevate nella struttura di Facebook sono “ex” agenti – o hanno lavorato per – l’FBI, la CIA, l’NSA, il DHS (Department of Homeland Security).
Allo stesso modo, decine di persone che occupano posizioni di rilievo nella struttura di Google sono “ex” agenti – o hanno lavorato per – l’FBI, la CIA, l’NSA, il DHS, l’ODNI (Office of the Director of National Intelligence).
Del resto, dovrebbe essere ormai noto che l’informazione negli USA (come anche in Europa) è in gran parte controllata da grandi interessi industriali, e che, fin dalla sua fondazione, oltre 70 anni fa, la CIA ha manipolato i principali organi di informazione negli USA.
Il nuovo governo Netanyahu in Israele e i rischi per la regione mediorientale
La notizia forse più sottovalutata di questi giorni è la formazione del nuovo governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu, che potrebbe accrescere la possibilità di nuovi conflitti in Palestina e nella regione.
Per assicurarsi il suo sesto mandato, Netanyahu ha stretto un “patto col diavolo” con elementi religiosi di estrema destra in Israele. Ad eccezione del partito Likud – in gran parte laico – di Netanyahu, tutti gli altri partiti della nuova coalizione sono religiosi, e due di essi rappresentano gli ebrei israeliani ultraortodossi, o Haredim.
La composizione del nuovo gabinetto Netanyahu potrebbe portare a un’ulteriore repressione a danno dei palestinesi, e a nuove divisioni nella società israeliana. A ministri accanitamente anti-arabi vengono conferiti maggiori poteri di sicurezza sui palestinesi. Ministri religiosi fisseranno le regole per gli israeliani laici.
La coalizione Netanyahu ha affermato il "diritto esclusivo e inalienabile del popolo ebraico su tutte le parti della Terra di Israele". Ciò va anche oltre la "legge fondamentale" del 2018 – che ha sancito l'apartheid di fatto nella legge israeliana – affermando che solo gli ebrei hanno il diritto all'autodeterminazione.
Il governo Netanyahu ha assegnato al suprematista ebraico Ben-Gvir, leader del partito religioso Otzma Yehudit (Potere Ebraico), il posto di ministro della sicurezza nazionale. Ben-Gvir avrà il controllo su diverse forze di sicurezza e sulla polizia di confine, anche nei Territori occupati.
Potere Ebraico otterrà anche il ministero del patrimonio, che presiede ai siti religiosi inclusi, potenzialmente, quelli palestinesi o condivisi con i palestinesi. E avrà il ministero del Negev e della Galilea, che regola l’espansione degli insediamenti.
Ben-Gvir è stato condannato per incitamento all'odio e incitamento alla violenza. Infine, Netanyahu intende porre Avi Maoz, leader del partito Noam e noto per le sue posizioni anti-arabe ed il suo sostegno al “rafforzamento del carattere ebraico dello stato di Israele”, alla guida dell’autorità sull’Identità ebraica.
Netanyahu ha anche nominato un falco anti-iraniano alla guida del Consiglio per la sicurezza nazionale israeliano. Tzachi Hanegbi è un parlamentare veterano del Likud e un alleato di vecchia data di Netanyahu, che ha ripetutamente minacciato che Israele avrebbe attaccato l'Iran se gli USA avessero nuovamente aderito all'accordo nucleare iraniano (JCPOA).
Ci si aspetta invece che i rapporti fra Tel Aviv e Mosca migliorino, in particolare grazie al rapporto di amicizia che lega Putin e Netanyahu. Russia e Israele dovranno tuttavia gestire delicati equilibri in Siria, e le conseguenze dell’inedito asse Russia-Iran.