IN PILLOLE – Erdogan e la battaglia per la Turchia, la crisi degli arsenali della NATO, lo scoop di Hersh sui due Nord Stream, Bennett sull’affossamento del negoziato Russia-Ucraina
Il terremoto e la Turchia fra USA e Russia, l’industria bellica occidentale non tiene il passo, gli USA hanno sabotato i due Nord Stream, la mediazione israeliana fra Kiev e Mosca.
Erdogan fra USA e Russia: il terremoto e la battaglia per la Turchia
Allarme NATO per l’esaurimento degli arsenali occidentali: una brutta notizia per Kiev
Lo scoop di Seymour Hersh: gli USA hanno sabotato i gasdotti Nord Stream
L’ex premier israeliano Bennett: l’Occidente bloccò un possibile accordo negoziale in Ucraina
Erdogan fra USA e Russia: il terremoto e la battaglia per la Turchia
Secondo il Wall Street Journal, la Turchia sta esportando in Russia decine di milioni di dollari in macchinari, elettronica, e pezzi di ricambio, inclusi prodotti americani. Una parte rilevante di queste esportazioni sarebbe impiegata nello sforzo bellico russo contro l’Ucraina.
Pur essendo un membro della NATO, la Turchia è fra i numerosi paesi (inclusi Cina, India e monarchie del Golfo) che non rispettano le sanzioni USA contro Mosca. Alti funzionari del Tesoro americano si sono recati in Turchia e in altri paesi per tentare di porre fine a queste violazioni, finora senza successo.
Ankara fino a questo momento ha anche bloccato l’adesione di Svezia e Finlandia alla NATO. Prima di dare il consenso, la Turchia vuole che entrambi i paesi, ed in particolare la Svezia, pongano fine al loro sostegno al PKK (il Partito dei lavoratori del Kurdistan).
Washington dal canto suo è contraria alla normalizzazione dei rapporti diplomatici fra Ankara e Damasco (per ottenere la quale Mosca sta portando avanti una mediazione diplomatica), ed è profondamente indispettita per le periodiche incursioni militari turche contro i curdi siriani, alleati chiave degli USA in Siria.
Per queste ed altre ragioni, il Congresso USA sta bloccando la vendita di caccia F-16 ad Ankara, per un valore complessivo di 20 miliardi di dollari. Tali aerei sono stati richiesti dalla Turchia dopo che Washington aveva annullato la partecipazione turca al programma dei più moderni F-35.
Ankara è irritata dal fatto che Washington stia invece portando avanti la vendita di F-35 alla Grecia, cosa che secondo i turchi creerebbe un pericoloso squilibrio di forze nella regione.
La Turchia era stata esclusa dal programma degli F-35 dopo aver acquistato dai russi il sistema di difesa aerea S-400, suscitando le ire americane. Tuttavia, fra le ragioni che avevano spinto Erdogan a compiere questa scelta vi era stato il tentato golpe ai suoi danni del luglio 2016, al quale secondo lui avevano contribuito gli americani.
Perciò, il presidente turco si fida ormai pochissimo di Washington.
Malgrado tutte le tensioni e i conflitti in Siria, nel Caucaso e in Ucraina, i rapporti fra Turchia e Russia non si sono invece mai interrotti. I due paesi hanno sempre scelto la strada del dialogo e del compromesso.
Tra i fattori che hanno portato a questo risultato vi è l’interdipendenza economica, che è ulteriormente cresciuta negli ultimi anni.
Nei primi 9 mesi del 2022, in particolare, gli scambi fra i due paesi hanno superato i 47 miliardi di dollari, più del doppio rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Ciò è dovuto in gran parte al fatto che Mosca ha usato Ankara per rimpiazzare le sue importazioni ufficiali dall’Occidente.
L’inaspettato e devastante terremoto che ha recentemente colpito Turchia e Siria, rimette in gioco il futuro politico del presidente Erdogan, e lo stesso schieramento internazionale della Turchia, alla luce delle elezioni parlamentari e presidenziali che dovrebbero tenersi il 14 maggio.
Già prima di questo tragico evento, la Turchia stava attraversando una durissima crisi economica, con la lira turca che ha perso lo scorso anno il 30% del proprio valore rispetto al dollaro, e un’inflazione galoppante.
Per ironia della sorte, fu un altro spaventoso terremoto, nella Turchia nordoccidentale nel 1999, a favorire l’ascesa del partito AKP di Erdogan a seguito della disastrosa risposta all’emergenza da parte del governo di allora. Ora un’altra catastrofe mette a rischio la sopravvivenza politica dell’attuale presidente, avendo messo a nudo gli scadenti standard qualitativi del boom delle costruzioni su cui l’AKP aveva fondato gran parte della crescita turca degli anni passati.
Alcuni osservatori in Turchia hanno suggerito che Erdogan potrebbe sfruttare lo stato di emergenza indetto per il terremoto come tattica dilatoria finalizzata a posporre le elezioni (in qualche modo forzando la legge, che non prevede un rinvio per catastrofi naturali). Egli rischia infatti una perdita significativa di voti se le elezioni dovessero tenersi a maggio.
Alcuni ipotizzano che Erdogan possa anche tentare un’alleanza con i partiti della destra scavalcando la principale formazione di opposizione (CHP). Ma ciò potrebbe significare un riallineamento turco verso l’Occidente.
Un eventuale rinvio delle elezioni potrebbe invece far presagire una Turchia destinata a proseguire la sua politica di equilibrio fra oriente e occidente, o addirittura una progressiva deriva turca verso l’Asia.
I futuri orientamenti di Ankara potranno influenzare in modo rilevante la partita in atto fra il declinante unipolarismo a guida americana e l’emergente mondo multipolare.
Allarme NATO per l’esaurimento degli arsenali occidentali: una brutta notizia per Kiev
La notizia più importante degli ultimi giorni è innegabilmente la crisi logistica della NATO e lo svuotamento degli arsenali dei paesi occidentali i quali, dopo aver proclamato la vittoria imminente, si sono improvvisamente scoperti impreparati a un conflitto ad alta intensità come quello ucraino.
L’allarme è stato lanciato dal segretario generale della NATO Jens Stoltenberg a Bruxelles, ma anche dal capo degli stati maggiori riuniti USA, generale Mark Milley.
Secondo il Financial Times, le fabbriche europee sono a mala pena in grado di produrre il consumo ucraino di munizioni di una settimana. I tempi di attesa per alcune tipologie si sono già raddoppiati.
Le riserve di munizioni sovietiche dei membri NATO dell’Europa dell’Est sono state prosciugate. Le armi occidentali promesse con tanto clamore arrivano con settimane, talvolta mesi, di ritardo perché richiedono lunghi lavori di revisione.
Secondo Milley, gli stessi USA, dopo aver combattuto per anni contro gruppi di insorti e “terroristi” male armati in Iraq e Afghanistan, erano impreparati a un conflitto con una potenza di pari grado (sebbene il generale americano si sia espresso in termini più “diplomatici”, sembra essere questa un’onesta traduzione del suo pensiero).
Quello che Milley non spiega è come mai la semplice ricostituzione degli arsenali USA debba richiedere un ulteriore aumento dello stratosferico bilancio del Pentagono, già pari a 817 miliardi di dollari.
Che gli USA non siano in grado di rifornire i propri arsenali, pur investendo in spese militari più degli altri primi 9 paesi al mondo messi insieme, spinge a pensare a due semplici ragioni: incompetenza e corruzione.
Le difficoltà dell’industria bellica occidentale, ed americana in particolare, non sono una novità, ma solo ultimamente questa realtà ha fatto breccia nei media di grande diffusione.
Lo scoop di Seymour Hersh: gli Usa hanno sabotato i gasdotti Nord Stream
Il famoso giornalista investigativo americano Seymour Hersh ha pubblicato lo scorso 8 febbraio un dettagliato reportage sull’operazione di sabotaggio dei gasdotti Nord Stream.
Dal reportage emergono i seguenti punti chiave.
Secondo le fonti citate da Hersh, l’ordine di distruggere i due gasdotti sarebbe giunto direttamente dall’amministrazione Biden.
La pianificazione dell'operazione USA per sabotare i gasdotti Nord Stream sarebbe iniziata alla fine del 2021, cioè prima dello scoppio del conflitto.
Essa fu intrapresa per volere del consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, che stava"realizzando i desideri del presidente".
Il presidente Biden e il suo team di politica estera – il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, il segretario di Stato Antony Blinken e il sottosegretario di Stato Victoria Nuland – erano stati espliciti nella loro ostilità nei confronti dei due gasdotti.
Tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio 2022, la Nuland e lo stesso Biden si erano lasciati andare a dichiarazioni sconcertanti.
La prima aveva affermato che, se la Russia avesse invaso l’Ucraina, il progetto del Nord Stream 2 non sarebbe andato avanti.
Il presidente, dal canto suo, aveva affermato che nel caso di un’invasione russa non ci sarebbe più stato un Nord Stream 2 e, alla domanda di una giornalista che gli chiedeva come avrebbe fatto, egli aveva risposto: “Glielo prometto, saremo in grado di farlo”.
La pianificazione del sabotaggio sarebbe stata portata avanti insieme a esponenti del Pentagono, della CIA, dell’NSA, e del dipartimento di Stato. Nei mesi necessari per stendere il piano ed implementarlo sarebbero tuttavia emerse aspre controversie (alcuni avrebbero addirittura fortemente sconsigliato l’operazione). Tali controversie potrebbero aver successivamente spinto le fonti di Hersh a rivelare quanto egli ha scritto.
Lo scorso giugno, sommozzatori della Marina USA operanti sotto la copertura di un'esercitazione NATO, BALTOPS 22, piazzarono le bombe in alto mare (8 ordigni, di cui 2 rimasti inesplosi). Gli esplosivi furono innescati tre mesi dopo, a settembre.
I norvegesi diedero un contributo determinante alla preparazione dell’operazione e nel far esplodere gli ordigni a settembre.
Negli ultimi anni il Pentagono aveva notevolmente rafforzato i rapporti con il paese scandinavo, incluso l’ampliamento di strutture dell’aeronautica e della marina americane in territorio norvegese. Norvegese è anche il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg, fedele alleato di Washington.
La marina norvegese avrebbe individuato i punti esatti in cui compiere il sabotaggio, al largo dell’isola danese di Bornholm.
La Norvegia è anche il paese che ha maggiormente beneficiato, insieme agli USA, del riorientamento della domanda energetica europea (e del forte aumento dei prezzi) conseguente alla perdita delle fonti russe.
È interessante notare che, secondo Hersh, il piano di sabotaggio fu formulato già alla fine del 2021, prima che scoppiasse il conflitto in Ucraina, quando erano ancora in corso trattative fra USA e Russia. Se i contenuti del reportage dovessero essere confermati, ciò significherebbe che non solo Washington rifiutò ogni proposta negoziale, ma stava già portando avanti un piano per far saltare in aria i due gasdotti che legavano Russia ed Europa.
Lo scoop di Hersh è stato ignorato, o al più deriso, dai media di grande diffusione. Alcune critiche sono giunte anche da esponenti della stampa indipendente. Tuttavia, sebbene possano esservi responsabilità e aspetti non adeguatamente evidenziati dall’articolo di Hersh, esso appare credibile nell’insieme e plausibile nei contenuti, in accordo con ipotesi che già in precedenza erano state formulate.
Vale la pena ricordare che sia la Danimarca, che la Germania e la Svezia, hanno condotto proprie indagini sui siti del sabotaggio ma non hanno voluto rivelare i risultati delle loro inchieste.
L’ex premier israeliano Bennett: l’Occidente bloccò un possibile accordo negoziale in Ucraina
Le dichiarazioni recentemente rilasciate dall’ex premier israeliano Naftali Bennett sul negoziato russo-ucraino della scorsa primavera non possono in alcun modo essere trascurate. Esse costituiscono la terza conferma che l’Occidente ha sabotato un possibile accordo.
In una recente intervista, Bennett ha descritto i suoi sforzi di mediazione fra Putin e Zelensky nel marzo 2022. Egli era in stretto contatto con USA, Regno Unito, Francia e Germania.
Bennett ha affermato che entrambe le parti accettarono di fare importanti concessioni: i russi rinunciarono alla “denazificazione” (intesa come rimozione del governo Zelensky) e al disarmo dell’Ucraina.
Putin garantì personalmente a Bennett che non avrebbe cercato di uccidere Zelensky. La controparte ucraina rinunciò all’adesione alla NATO.
Bennett afferma che, di fronte a questa proposta, il premier inglese Boris Johnson adottò una “linea aggressiva, mentre il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz furono più pragmatici.
Ma alla fine l’Occidente bloccò gli sforzi del leader israeliano. “Credo che ci fosse una legittima decisione da parte dell’Occidente di continuare a colpire Putin e di non [negoziare]”, ha dichiarato l’ex premier.
Alla domanda se le potenze occidentali avessero bloccato gli sforzi di mediazione, Bennett ha risposto: “Essenzialmente sì. Li hanno bloccati, e ho pensato che stessero sbagliando”.
I negoziati in ogni caso proseguirono anche dopo la rinuncia di Bennett.
Ad agosto, Fiona Hill, ex membro del Consiglio per la sicurezza nazionale USA, scrisse su Foreign Affairs che nel mese di aprile russi e ucraini erano sul punto di un accordo.
Già a maggio, fonti ucraine avevano rivelato che il mese prima la controparte russa era quasi pronta per un incontro Putin-Zelensky.
Ma l’improvvisa visita di Johnson a Kiev, che disse al presidente ucraino di non negoziare, fece fallire l’accordo.
Alle 3 fonti fin qui citate, se ne può aggiungere una quarta, americana, secondo cui a marzo i vertici statunitensi e britannici volevano che “la guerra andasse avanti” per "dissanguare Putin" e possibilmente porre fine al suo regime.
Abbiamo dunque fonti sufficienti per concludere che, se lo spargimento di sangue prosegue ancora oggi, è in gran parte a causa della volontà anglo-americana di indebolire Putin e la Russia, che ha portato al fallimento di ogni tentativo negoziale.