Gli USA consacrano la fosca narrazione della nuova contrapposizione fra blocchi
Il primo anniversario dell’invasione russa, celebrato dai think tank americani, prepara l’Occidente ad “anni molto difficili”.

L’intera settimana che ha segnato il primo anno di guerra in Ucraina, culminata lo scorso 24 febbraio con l’anniversario dell’invasione russa, è stata un’occasione, negli Stati Uniti e in Europa, per una gigantesca celebrazione mediatica che è servita a consacrare la narrazione occidentale del conflitto.
Ad occupare lo spazio mediatico aveva cominciato il presidente americano Biden, con il coup de théâtre della visita a sorpresa a Kiev, il 20 febbraio, seguita dal sua discorso a Varsavia.
La “chiamata alle armi” di Biden
Da Kiev, Biden ha tracciato l’orizzonte temporale della nuova crisi, mettendo in chiaro che ci accompagnerà per i prossimi anni: “Sappiamo che ci saranno giorni, settimane, e anni molto difficili a venire”. Ma siccome “la libertà non ha prezzo”, ha aggiunto, “vale la pena combattere per essa per tutto il tempo necessario” (“for as long as it takes”).
Il giorno dopo, da Varsavia, il presidente americano ha ribadito la sua visione di una contrapposizione che, apparentemente per ineluttabile volontà del destino, sarà pluriennale: “La difesa della libertà non è opera di un giorno o di un anno […] È sempre difficile. … Mentre l'Ucraina continua a difendersi dall'assalto russo e a lanciare le proprie controffensive, continueranno ad esserci giorni duri e molto amari, vittorie e tragedie”.
Biden è sembrato voler sancire la mobilitazione dell’Occidente di fronte alla nuova “sfida” lanciata dalla Russia, e in generale dalle autocrazie (leggi Cina), preparando il pubblico occidentale ad anni di sacrifici. Nessun accenno a un possibile sbocco negoziale, a una possibile risoluzione della crisi: il nuovo mondo sarà inevitabilmente diviso.
Negli Stati Uniti, la nuova narrazione enunciata dal presidente ha vissuto la propria consacrazione ufficiale durante tutta la settimana culminata il 24 febbraio, tramite celebrazioni, discussioni, tavole rotonde, conferenze organizzate da tutti i principali, e più influenti, think tank e istituti di ricerca americani.
I centri nevralgici della politica estera statunitense hanno celebrato l’appuntamento con eventi e coperture massicce. Dal Council on Foreign Relations (CFR) alla RAND Corporation, dal Center for Strategic & International Studies (CSIS) all’Atlantic Council, dalla Brookings Institution al Belfer Center di Harvard, e al Carnegie Endowment for International Peace (CEIP), solo per citare i maggiori.
Militanza ideologica e scarsa profondità di analisi
Il quadro complessivo che ne emerge è contrassegnato da un’apparente compattezza, dietro la quale si intravedono tuttavia crepe e incertezze, da un clima di mobilitazione dominato da un pensiero di gruppo (groupthink) povero di sfumature e di profondità di analisi (soprattutto nei think tank più marcatamente “militanti”, come l’Atlantic Council), da una costante rimozione (o, al più, manipolazione) storica delle cause del conflitto, e da alcuni errori di valutazione a volte anche gravi.
Sono scarsi i tentativi di risalire alle ragioni storiche che hanno portato allo scoppio della guerra ucraina. La Russia è invariabilmente descritta non solo come il principale, ma come l’unico responsabile della crisi, e va perciò punita, isolata, emarginata dal contesto internazionale, e idealmente sconfitta sul campo.
La cosiddetta “guerra di aggressione” russa, come viene frequentemente definita, è immancabilmente seguita dalla qualificazione “unprovoked” (“non provocata”) nelle analisi come nelle dichiarazioni ufficiali – come esemplifica la trascrizione del discorso presidenziale di Varsavia, intitolata “Remarks by President Biden Ahead of the One-Year Anniversary of Russia’s Brutal and Unprovoked Invasion of Ukraine”.
Le capacità militari di Mosca (che con una forza relativamente esigua di circa 200.000 uomini, dopo un anno di guerra controlla saldamente il 20% del territorio ucraino) sono spesso sottovalutate, o addirittura derise.
Tale sottovalutazione è supportata da stime irrealistiche (come quella secondo cui i russi avrebbero perso circa 200.000 soldati) e dalla convinzione che il ritiro delle truppe russe da alcune regioni ucraine equivalga a una pesante sconfitta militare.
(Una simile convinzione è errata, poiché i russi non sono stati sconfitti sul campo, ma hanno essenzialmente compiuto delle ritirate tattiche ordinate, a seguito di una ridefinizione dell’iniziale missione militare in Ucraina, che sperava di ottenere concessioni da Kiev e dall’Occidente attraverso un’operazione “ibrida” con un impatto limitato in termini di vite umane e di distruzione materiale).
Similmente, vi è la persuasione che, sebbene le sanzioni finora abbiano avuto sull’economia russa un impatto inferiore alle attese, sul lungo periodo infliggeranno pesanti costi a Mosca. Secondo le tesi prevalenti, esse porteranno alla stagnazione dell’economia russa, a una crescente inflazione, e a possibile instabilità sociale.
Sebbene pochi si illudano che ciò possa portare a un cambio di regime a Mosca (da molti auspicato), la speranza di alcuni esperti è che ciò renda sempre più difficile al Cremlino sostenere la guerra in Ucraina.
“L’arsenale della democrazia” è in crisi
Queste analisi cozzano con la realtà di un’economia russa che ha mostrato una notevole resilienza, contraendosi di appena il 2,1% nel 2022, e dell’incapacità dell’industria bellica occidentale di tenere il passo con l’intensità del conflitto in Ucraina.
Da qui l’allarme lanciato recentemente dal segretario della NATO Jens Stoltenberg e dal capo degli stati maggiori riuniti USA, generale Mark Milley, sulla necessità di incrementare la produzione per ricostituire gli arsenali sempre più vuoti.
Se erano prevedibili le difficoltà dell’industria bellica dei paesi europei, praticamente demilitarizzati dopo il secondo conflitto mondiale e affidati all’ombrello militare di Washington, colpiscono di più i problemi di quella americana, “l’arsenale della democrazia”, come spesso viene definita da commentatori ed esperti statunitensi (una definizione discutibile, che risale a una frase pronunciata dal presidente americano Franklin Delano Roosevelt alla fine del 1940, allorché definì gli Stati Uniti appunto come “l’arsenale della democrazia”).
I proiettili d’artiglieria da 155 mm rappresentano attualmente la richiesta più pressante da parte dell’Ucraina, ma il rapido esaurimento delle munizioni guidate, in particolare missili anticarro Javelin e antiaereo Stinger, potrebbe causare problemi ancora maggiori in futuro.
Anche ai nuovi ritmi accelerati di produzione, ci vorranno quasi sette anni per rimpiazzare gli 8.500 Javelin consegnati finora all’Ucraina, mentre ce ne vorranno più di sei per sostituire i 1.600 Stinger ricevuti finora da Kiev.
Punire la Russia per ammonire la Cina
La necessità di un riarmo, e addirittura di una parziale riconversione bellica dell’industria, viene sollecitata da molti negli USA, non solo per far fallire la paventata offensiva russa di primavera in Ucraina, ma anche per ricostituire gli arsenali occidentali a scopo di deterrenza contro un eventuale futuro attacco della Cina a Taiwan.
E’ convinzione diffusa nei think tank americani che non si possa permettere alla Russia di vincere in Ucraina, perché ciò spingerebbe la Cina a ritenere di poter realizzare uno scenario simile a Taiwan, che peraltro non gode di uno status di sovranità riconosciuta.
Allo stesso modo si ritiene che, se le sanzioni dovessero paralizzare la competitività dell’economia russa negli anni a venire, ciò avrebbe l’effetto di scoraggiare Pechino dall’invadere Taiwan per timore di incorrere in un analogo regime di sanzioni multilaterali.
Come del resto scrive Richard Haass, presidente del CFR, le relazioni fra Stati Uniti e Cina continueranno a peggiorare. L’incidente del pallone cinese nei cieli americani costituirebbe un segnale inequivocabile, e un’eventuale decisione cinese di fornire supporto militare alla Russia aggraverebbe ulteriormente la situazione facendo scattare le sanzioni americane contro Pechino.
Non è tempo di negoziare, ma di “contenere” la Russia
Quello che colpisce, nelle riflessioni più diffuse fra la comunità degli esperti americani, è l’esclusivo ricorso a strumenti coercitivi e di deterrenza militare, mentre all’arte della diplomazia e del negoziato viene riservato un ruolo decisamente secondario, se del tutto essa viene presa in considerazione.
La persuasione tuttavia, come scrivono Haass ed altri, è che i tempi di un eventuale trattativa non siano maturi, e che ci troviamo di fronte a una guerra lunga. L’anno che abbiamo davanti non sarà decisivo – sostiene Haas – e sarà più simile alla prima che non alla seconda guerra mondiale.
Perciò – aggiunge Alexander Vershbow, già ambasciatore USA presso NATO, Russia e Corea del Sud, ed ex vicesegretario generale della NATO – per prevenire ulteriori danni all’ordine internazionale “basato su regole”, gli Stati Uniti e i loro alleati dovranno perseguire una strategia di contenimento complessiva, che punti a dissuadere Mosca militarmente, ad accrescere i costi del suo comportamento, e a “disaccoppiare progressivamente la Russia dalla comunità internazionale”, a livello politico ed economico.
Secondo Vershbow, questa strategia di contenimento include anche l’adozione di “un paziente approccio a lungo termine volto a promuovere un cambiamento interno in Russia”.
Deglobalizzazione e ritorno alla logica dei blocchi
Gli fa eco Charles Kupchan, senior fellow presso il CFR, secondo il quale l’invasione russa ha riportato il mondo verso un sistema militarizzato composto da due blocchi, uno costituito dalle democrazie liberali riunite nel sistema di alleanze a guida USA, e l’altro rappresentato da Russia e Cina (“un blocco autocratico che si estende dall’Europa orientale al Pacifico occidentale”).
Ma a differenza della guerra fredda, in questo caso abbiamo un terzo raggruppamento costituito da paesi emergenti che essenzialmente “stanno alla finestra”, rifiutando di schierarsi. La presenza di questo terzo gruppo implica che il mondo che ci aspetta sarà di fatto multipolare piuttosto che bipolare, e dunque ancor più imprevedibile e difficile da gestire – sostiene Kupchan.
L’altro elemento chiave di questo nuovo mondo è che siamo entrati in una fase di deglobalizzazione, nella quale la comunità transatlantica ha rotto i rapporti economici con la Russia, e si appresta a liberarsi dall’interdipendenza economica con la Cina, cercando allo stesso tempo di rallentare il progresso tecnologico cinese.
Negli Stati Uniti, il sostegno bipartisan alla liberalizzazione del commercio è scemato in favore di un rinnovato protezionismo e di una nuova politica industriale. “I giorni del libero commercio in espansione, e di una progressiva interdipendenza globale, sono finiti”, scrive Kupchan.
A proposito di questo quadro, si può tuttavia osservare che furono proprio gli Stati Uniti a cominciare ad adottare misure volte a smontare la globalizzazione da essi stessi fondata, nella quale trovavano difficoltà a competere all’indomani della crisi del 2008.
I primi esperimenti in tal senso risalgono a Obama, e al suo tentativo di creare due aree di libero scambio nell’Atlantico e nel Pacifico, che escludessero Russia e Cina. Seguì la guerra dei dazi promossa da Trump, e poi la ridefinizione delle catene di fornitura in occasione della crisi provocata dal Covid-19.
Analogamente, la decisione di giungere a un “disaccoppiamento” fra Europa e Russia è stata americana in primo luogo. Al punto che si potrebbe concludere che lo scenario tratteggiato da Kupchan sia in realtà l’esito di una precisa strategia seguita da Washington.
Si deve infine rilevare che la separazione economica fra Russia e Occidente è tuttora più un desiderio che una realtà compiuta. Alla fine del 2022, meno del 9% delle 1.404 compagnie dell’UE e del G7, con interessi in Russia prima dell’invasione dell’Ucraina, aveva lasciato il paese.
Se la Russia doveva essere una “prova generale” in vista del disaccoppiamento dalla Cina, essa non promette bene per gli USA. La separazione dalla Russia avrebbe dovuto essere relativamente facile e poco costosa, viste le dimensioni limitate dell’economia russa. Considerato che per ogni dollaro investito in Russia, otto sono investiti in Cina, un disaccoppiamento da Pechino al momento appare ancora più remoto, e infinitamente più doloroso per l’economia mondiale.
Europa obbediente e NATO rinvigorita, ma fino a quando?
Per il momento, negli USA ci si accontenta di aver riportato l’Europa all’obbedienza, avendola ricondotta nell’alveo atlantico. Ci si rallegra del ritrovato vigore della NATO in vista del vertice di Vilnius, in Lituania, che si terrà a luglio, in attesa di quello ben più importante che avrà luogo a Washington nel 2024 per celebrare il 75° anniversario dell’Alleanza.
Ci si augura di portare a compimento l’adesione alla NATO di Finlandia e Svezia (Ungheria, e soprattutto Turchia, permettendo), e di consolidare la partnership con paesi “a rischio” come Bosnia-Erzegovina, Georgia e Moldova. Si ambisce a rafforzare la presenza americana nel Mar Nero, anche attraverso la cooperazione con gli stati del bacino (Ucraina compresa) e la definizione di un nuovo equilibrio con la Turchia, sebbene vi sia la consapevolezza che le maggiori risorse USA saranno dirottate verso il Pacifico.
A Washington si ritiene di aver riaffermato l’indispensabilità del ruolo americano nella sicurezza dell’Europa, ma il futuro del vecchio continente resta incerto a causa delle tensioni interne all’Unione Europea e della sua debolezza in materia di difesa, ulteriormente acuita dai crescenti problemi economici dei suoi paesi membri. Ed anche il legame transatlantico potrebbe nuovamente sfilacciarsi allorché gli USA torneranno a rivolgere la loro attenzione verso l’Asia.
Crepe nella narrazione americana
Malgrado i toni trionfalistici e intransigenti adottati da Biden la scorsa settimana a Kiev e a Varsavia, dietro le celebrazioni dei think tank americani e la propaganda di gran parte della stampa un certo nervosismo serpeggia nei corridoi di Washington, alimentato dalla crescente consapevolezza che l’Ucraina non ha i mezzi per vincere, e che il conflitto si avvia quantomeno verso una pericolosa e caotica fase di stallo (e forse verso un tracollo ucraino in Donbass).
Già a gennaio, un inusuale rapporto della RAND Corporation metteva in guardia sui rischi di una guerra prolungata, e sulla possibilità di un allargamento del conflitto alla luce del fatto che i combattimenti si svolgono in un paese che confina con quattro membri della NATO, condividendo con altri due il litorale del Mar Nero.
Secondo il rapporto, fino a quando Washington lascerà che le energie dei suoi rappresentanti politici e le sue risorse militari vengano assorbite dal conflitto ucraino, la sua capacità di concentrarsi sulle altre priorità globali americane – ed in particolare sulla competizione con la Cina – rimarrà limitata.
Il rapporto ammonisce inoltre che è interesse americano impedire che Mosca diventi completamente subordinata a Pechino. Il consolidamento dell’alleanza russo-cinese non favorisce gli Stati Uniti – esso mette in guardia.
Simili voci rimangono al momento minoritarie in America, ma a Washington vi è chi nutre la sgradevole sensazione che Biden, nel suo viaggio europeo, abbia posto l’asticella troppo in alto.
Riferendosi genericamente ai “leader della NATO”, lo stesso Kupchan ha avvertito che essi “potrebbero pentirsi di aver sovrastimato l'importanza strategica di una vittoria ucraina”, se alla fine dovessero trovarsi a spiegare ai loro elettori perché, malgrado il loro aiuto, Kiev non sia riuscita “a sconfiggere la Russia ed a ripristinare la piena sovranità territoriale”.
Vi sono segnali che a Washington la stessa coesione bipartisan a sostegno dell’impegno economico e militare americano in Ucraina potrebbe protrarsi ancora per alcuni mesi, ma non molto di più.
Finora la vittoria più netta che l’amministrazione Biden ha ottenuto è quella nella guerra psicologica e propagandistica rivolta al fronte interno, e più in generale a quello dell’opinione pubblica occidentale. Ma cosa succederà se le cose in Ucraina non andranno secondo i piani di vittoria fin qui propagandati?
Inoltre, se impegnandosi in questo conflitto Washington ha momentaneamente ricompattato l’Occidente, non è riuscita però a portare dalla propria parte una componente maggioritaria del mondo non occidentale.
A livello mondiale, il prestigio statunitense continua a perdere terreno. Gli USA si sono lasciati risucchiare in un conflitto dal quale usciranno notevolmente ridimensionati qualora sfuggisse loro la vittoria che avevano prefigurato, la quale appare sempre più difficile da raggiungere, e comporta l’assunzione di rischi sempre maggiori.