Gli screzi fra Trump e Netanyahu segnalano divergenze, ma non è una vera frattura
Il viaggio del presidente americano nel Golfo esigeva che egli si smarcasse dalle azioni israeliane, ma ciò non influirà sulla catastrofica situazione a Gaza.

Dall’Ucraina al Medio Oriente, passando per la guerra dei dazi con la Cina, le iniziative diplomatiche, militari, ed economiche dell’amministrazione Trump hanno finora dato pochi frutti.
Gli sforzi negoziali di Washington sul fronte ucraino, a Gaza, e sulla questione nucleare iraniana hanno ottenuto risultati che vanno dal probabile fallimento alla prosecuzione di colloqui precari e finora inconcludenti.
I bombardamenti americani sullo Yemen si sono risolti in una fragile tregua stipulata con il movimento degli Houthi (anche noto come Ansar Allah), che certamente fa tirare un sospiro di sollievo alla martoriata popolazione di quel paese ma (come vedremo) rappresenta tutt’altro che una vittoria per gli USA.
Anche sul fronte delle misure economiche, Trump ha dovuto spesso fare marcia indietro, in ultimo sospendendo i dazi più duri nei confronti della Cina, sebbene la guerra commerciale con il gigante asiatico sia destinata a proseguire.
In questo contesto complessivamente poco incoraggiante per Washington, è nella regione mediorientale (nel quadro dell’annunciato viaggio del presidente americano nel Golfo) che ultimamente si sono registrate crescenti divergenze fra la Casa Bianca e un alleato chiave degli Stati Uniti: Israele.
Fine della luna di miele
Diverse fonti nelle scorse settimane hanno riferito di una reciproca insoddisfazione, talvolta sfociata in aperta irritazione, fra Trump e il premier israeliano Benjamin Netanyahu.
Quest’ultimo già da diverso tempo aveva mostrato disappunto riguardo ad alcune scelte politiche del presidente americano, dalla decisione di avviare colloqui diretti con Hamas per la liberazione degli ostaggi, a quella di compiere un’apertura negoziale nei confronti di Teheran.
Con l’approssimarsi del suo viaggio nel Golfo, Trump ha invece espresso crescente malumore di fronte all’ostinato rifiuto di un cessate il fuoco a Gaza da parte del leader israeliano, rifiuto che mette a disagio la Casa Bianca nei rapporti con le ricche monarchie della penisola araba.
Anche in Israele le aspettative nei confronti di Trump erano state di tutt’altro tenore. Alle ultime presidenziali americane, Netanyahu aveva puntato tutto su di lui. Durante il suo primo mandato, il magnate statunitense aveva condotto una politica estremamente favorevole allo Stato ebraico.
Trump aveva spostato l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme, era uscito dall’accordo nucleare con l’Iran che Netanyahu aveva sempre avversato, aveva promosso i cosiddetti Accordi di Abramo che prevedevano la normalizzazione dei rapporti fra Israele e i paesi arabi.
Anche il secondo mandato era cominciato nel migliore dei modi per Israele. Ad appena due settimane dall’insediamento di Trump, Netanyahu era stato il primo leader straniero ad essere invitato alla Casa Bianca.
Il presidente americano aveva bloccato i finanziamenti USA all’UNRWA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi che aveva sempre gestito l’assistenza umanitaria nei Territori occupati.
Con un memorandum presidenziale egli aveva ripristinato la politica della “massima pressione” nei confronti dell’Iran, che prevede una stretta implementazione delle sanzioni e l’introduzione di nuove penalità economiche nei confronti di Teheran.
Trump aveva poi mediato la liberazione di decine di ostaggi israeliani da Gaza senza obbligare Tel Aviv a porre fine al conflitto. Egli aveva perfino dichiarato di voler assumere il controllo della Striscia per poi deportarne la popolazione, dando così luce verde al tentativo israeliano di spopolare l’enclave palestinese.
I rapporti hanno cominciato a prendere un’altra piega quando la Casa Bianca ha avviato colloqui diretti con Hamas, per giungere in primo luogo alla liberazione degli ostaggi americani detenuti a Gaza.
Adam Boehler, l’inviato di Trump, aveva ottenuto rapidamente progressi nelle trattative. Boehler aveva parlato della possibilità di liberare tutti gli ostaggi e di giungere ad una tregua a lungo termine, che avrebbe potuto portare la disarmo di Hamas e comunque alla sua rinuncia a giocare un ruolo di governo nella Striscia.
Secondo il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, i negoziati erano stati però sabotati da Israele. Boehler era stato costretto a rinunciare all’incarico. Pochi giorni dopo, Israele aveva posto unilateralmente fine al cessate il fuoco nella Striscia massacrando più di 400 persone in una sola notte.
Un responsabile USA avrebbe dichiarato al quotidiano israeliano: “Sembra incredibile, ma vogliamo fare più noi per liberare gli ostaggi che non il governo” di Tel Aviv.
Di lì a pochi giorni, tuttavia, anche Netanyahu si sarebbe accorto che Trump non aveva intenzione di realizzare tutti i desideri di Israele.
Richiamato alla Casa Bianca il 7 aprile, il premier israeliano non è riuscito ad ottenere la revoca dei dazi imposti da Trump allo Stato ebraico pur avendo preventivamente rimosso tutte le imposte sulle esportazioni USA in Israele.
Ma in quell’occasione il colpo più duro per Netanyahu è stato l’annuncio a sorpresa del presidente americano di voler avviare negoziati diretti con l’Iran. Nelle settimane successive, sarebbe emerso che tali negoziati avrebbero potuto portare a una riedizione dell’accordo nucleare siglato dall’allora presidente Barack Obama nel 2015, sempre avversato dal premier israeliano.
Nei giorni seguenti, Trump ha perfino licenziato il suo consigliere per la Sicurezza nazionale, Mike Waltz, dopo che erano trapelate notizie secondo cui quest’ultimo si sarebbe coordinato con il governo israeliano sulla possibilità di ricorrere all’opzione militare per risolvere la questione nucleare iraniana.
Trump getta la spugna nel Mar Rosso
Successivamente, il 6 maggio, la Casa Bianca ha annunciato che gli Stati Uniti e gli Houthi dello Yemen avevano raggiunto una tregua, che però non richiedeva che questi ultimi smettessero di attaccare Israele, come hanno fatto dall’inizio del conflitto di Gaza in segno di solidarietà con i palestinesi.
Ciò è stato visto come un cedimento dai vertici israeliani, i quali hanno cominciato a temere che Washington avrebbe potuto mostrarsi ugualmente accondiscendente con l’Iran.
Con questo fragile accordo, Trump ha deciso di sfilarsi da uno scontro che si stava rivelando estremamente oneroso per gli Stati Uniti.
Secondo quanto riferito dal New York Times, dall’inizio dei bombardamenti voluti da Trump contro gli Houthi questi ultimi erano riusciti ad abbattere ben 7 costosissimi droni MQ-9 "Predator" (circa 30 milioni di dollari ciascuno) e minacciato seriamente diversi caccia F-16 ed F-35.
Durante le operazioni militari nel Mar Rosso, gli USA hanno perso anche due aerei F/A-18 Super Hornet (circa 70 milioni di dollari l’uno) in incidenti facilitati dagli attacchi degli Houthi.
In generale, l’operazione si è rivelata estremamente dispendiosa per il Pentagono, il quale aveva dispiegato due portaerei e sistemi di difesa aerea Patriot e THAAD nella regione, per un costo che al termine dei primi 30 giorni ha superato il miliardo di dollari.
Inoltre, gli Stati Uniti hanno consumato una tale quantità di missili e munizioni, per colpire obiettivi degli Houthi e per difendere le proprie navi, da suscitare l’allarme degli strateghi americani sulla prontezza militare degli USA nell’eventualità di un ulteriore conflitto.
Sfruttando l’occasione della mediazione omanita, Trump ha dunque deciso di porre fine a questo scontro propagandando come una vittoria la promessa degli Houthi di non prendere più di mira gli asset militari americani nella regione.
Ma la decisione della Casa Bianca equivale in realtà ad una ritirata, che lascia liberi sia gli Houthi di colpire Israele sia quest’ultimo di rispondere con pesanti bombardamenti di rappresaglia sullo Yemen.
La tregua non ripristina nemmeno il traffico marittimo nel Mar Rosso. A causa dell’incertezza che permane nella regione, le compagnie di navigazione si terranno alla larga ancora a lungo.
Il tour del Golfo preoccupa Israele
Alla vigilia dell’importante viaggio nel Golfo, destinato a toccare Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti, Trump ha poi cominciato a smarcarsi da Israele riguardo al conflitto di Gaza.
Con le monarchie del Golfo sono in ballo interessi del valore di centinaia di miliardi di dollari, nel settore della difesa, delle materie prime, dello sviluppo economico e dell’intelligenza artificiale.
Esse costituiscono un pilastro irrinunciabile della strategia mediorientale della Casa Bianca, oltre che una fonte di affari e di arricchimento personale per la famiglia Trump.
L’obiettivo primario della Casa Bianca nel Golfo, ad ogni modo, è di natura strategica: mantenere le monarchie della penisola araba nell’orbita americana sottraendole alla crescente influenza cinese.
La tregua con gli Houthi è stata stipulata da Washington anche a seguito delle pressioni dei sauditi, i quali non volevano che l’aggravarsi della crisi nel Mar Rosso mettesse a rischio il loro piano di rilancio e diversificazione dell’economia.
Il conflitto di Gaza ha però costretto il presidente americano a rinunciare per il momento al traguardo della normalizzazione dei rapporti fra Arabia Saudita ed Israele, a coronamento degli Accordi di Abramo lanciati dallo stesso Trump nel 2020 nel corso del suo primo mandato.
Le monarchie del Golfo devono tener conto dell’opinione pubblica interna, profondamente turbata dalla tragedia dei palestinesi a Gaza. Per prendere le distanze dalla nuova offensiva annunciata da Netanyahu nella Striscia, la Casa Bianca ha lanciato una propria proposta di cessate il fuoco che fra l’altro non prevedrebbe il disarmo di Hamas.
Si sono anche moltiplicate le voci secondo cui Trump avrebbe negoziato con Riyadh lo sviluppo di un programma nucleare civile saudita (che farebbe da contraltare a quello iraniano) senza tener conto delle riserve di Israele in proposito.
Nel Golfo il presidente americano ha stipulato contratti multimiliardari, fra cui intese del valore di 142 miliardi di dollari (sebbene la cifra sia probabilmente sovrastimata) nel settore della difesa con i sauditi, e un accordo di 96 miliardi per la vendita di aerei della Boeing al Qatar.
In un acclamato discorso a Riyadh, Trump ha criticato l’interventismo delle passate amministrazioni americane nella regione, ha annunciato la rimozione delle sanzioni alla Siria e, su invito del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, ha personalmente incontrato l’attuale presidente siriano Ahmed al-Sharaa, figura controversa per il suo passato jihadista.
Il discorso e le azioni del presidente statunitense nel Golfo hanno suscitato reazioni preoccupate in Israele, dove molti si sono sentiti esclusi da dinamiche regionali di notevole importanza.
I contratti per la vendita di armi dal punto di vista di Tel Aviv mettono a rischio la supremazia militare israeliana nella regione. L’apertura nei confronti dell’attuale governo siriano contrasta con l’aggressiva politica di occupazione militare condotta da Israele nel sud della Siria.
Il rafforzamento dei rapporti fra USA e Qatar non è visto di buon occhio dallo Stato ebraico, che considera quest’ultimo uno sponsor di Hamas.
Nessuna reale rottura a Gaza
I contenuti del viaggio di Trump nel Golfo, tuttavia, non fanno altro che evidenziare la non completa coincidenza di interessi fra Israele e Stati Uniti a livello regionale, più che un’improvvisa disaffezione di Trump nei confronti di Netanyahu.
Dalla prospettiva degli interessi americani, il conflitto di Gaza può rappresentare per Trump un impaccio e un fardello, così come lo era per il suo predecessore Biden, soprattutto per quanto riguarda la gestione dei rapporti fra Washington e gli alleati arabi nella regione.
Anche per questa ragione, in Arabia Saudita il presidente americano ha affermato che “continuiamo a lavorare per porre fine alla guerra di Gaza il più rapidamente possibile”, definendo “orribile” la situazione nella Striscia.
Malgrado simili dichiarazioni, però, al momento la Casa Bianca continua a collaborare almeno in parte con i piani israeliani nell’enclave palestinese.
Washington ha difeso davanti alla Corte Internazionale di Giustizia lo scelta di Israele di estromettere l’UNRWA, l’Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, dalla distribuzione degli aiuti a Gaza.
La Casa Bianca sta inoltre collaborando alla definizione di un nuovo sistema di distribuzione, che dovrebbe essere implementato in concomitanza con l’imminente campagna israeliana finalizzata all’occupazione militare della Striscia.
Il piano prevede la creazione di appena quattro centri di distribuzione nel sud di Gaza, che dovrebbero rimpiazzare gli oltre 400 punti di distribuzione dell’ONU presenti in tutta l’enclave palestinese.
Ciascuno dei nuovi centri dovrebbe assistere circa 300mila civili. Essi complessivamente servirebbero dunque un milione e 200mila persone (non più del 60% della popolazione della Striscia).
Tali centri saranno gestiti da società di sicurezza private americane sotto la supervisione dell’esercito israeliano.
L’ambasciatore USA presso Israele, Mike Huckabee, ha dichiarato che è “del tutto inaccurato” descrivere il nuovo sistema di aiuti come “israeliano”, affermando che “diversi partner” si sarebbero già impegnati a parteciparvi, senza tuttavia nominarli.
E’ giunta però notizia che Washington ha esercitato pressioni su organizzazioni umanitarie come il World Food Program affinché prendano parte al piano, minacciando di tagliare loro i fondi qualora dovessero rinunciare.
Sia l’ONU che alcune organizzazioni internazionali hanno tuttavia condannato il progetto sostenendo che esso “contravviene ai principi umanitari fondamentali e appare concepito per rafforzare il controllo sulle fonti di sostentamento vitale, inteso come tattica di pressione nel quadro di una strategia militare”.
Malgrado la natura estremamente controversa di tale piano, il quale si inserisce nel quadro di un’offensiva militare che si preannuncia catastrofica per una popolazione civile già stremata, non vi sono al momento segnali che lascino presagire una reale opposizione da parte degli USA ai piani israeliani.
L’imbarazzo della Casa Bianca nei confronti dei suoi alleati del Golfo, e la non perfetta coincidenza di interessi fra Washington e Tel Aviv, non paiono sufficienti ad arginare uno sterminio dal quale molti cominciano a prendere le distanze a parole senza tuttavia far seguire alcuna azione concreta.
Insomma, pare che, come sempre, sia tutta una sceneggiata di Trump (insieme con l'improvvisa narrativa anti-Israeliana del mainstream, che ovviamente esegue gli ordini del "Partito" e del "Grande Fratello" - cit. George Orwell, "1984") per fare affari nel Golfo. O pensi che magari voglia far fuori Netanyahu per sostituirlo con qualcuno più moderato?
Dopo tutto, solo pochi giorni fa, gli Haredi hanno minacciato di togliere il sostegno al suo governo e, senza di loro, Netanyahu non avrebbe più la maggioranza alla Knesset: https://geopolitiq.substack.com/p/haredi-leaders-threaten-netanyahus?r=25fc37