Trump e Gaza: la rottamazione di un popolo
I palestinesi non se ne andranno da Gaza. Se rifiuteranno questa realtà, Israele e gli USA finiranno per portare a compimento l’orrendo crimine del genocidio di un popolo.

Il presidente americano Donald Trump ha nuovamente spiazzato alleati e oppositori allorché, durante la conferenza stampa con il premier israeliano Benjamin Netanyahu alla Casa Bianca, lo scorso 4 febbraio, ha dichiarato che gli USA avrebbero “preso possesso” di Gaza per trasformarla nella “Riviera del Medio Oriente”.
Senza spiegare sulla base di quale autorità, il presidente ha detto che, dopo aver reinsediato altrove i palestinesi, avrebbe trasformato la piccola enclave sul Mediterraneo in un luogo dove avrebbe vissuto “la gente del mondo”, incluso eventualmente qualche palestinese.
Sebbene non vi siano stati incontri in seno all’amministrazione per definire la proposta, Trump l’ha ribadita più volte nei giorni successivi, spiegando che gli USA non avrebbero schierato soldati sul terreno perché Gaza sarebbe stata loro “consegnata” da Israele “alla fine del conflitto”.
Egli ha anche chiarito che non ci sarebbe stato alcun diritto al ritorno per i palestinesi al termine dell’operazione, smentendo coloro che avevano parlato di una ridislocazione “solo temporanea” della popolazione di Gaza.
Il presidente ha citato Egitto e Giordania fra i paesi che avrebbero potuto accogliere i palestinesi, mentre ha accennato alla possibilità che siano le monarchie del Golfo a pagare il costo della ricostruzione della Striscia.
Trump ha definito Gaza come un luogo ormai invivibile, una terra di morte e distruzione, “un sito di demolizione” dove la vita è impossibile, senza tuttavia dire come ciò sia accaduto, e concludendo che i palestinesi preferirebbero vivere altrove se solo potessero, senza però averli interpellati.
Sebbene molti abbiano definito “irrealizzabile” il piano proposto dal presidente americano, il solo fatto che egli lo abbia presentato, insistendo sulla sua fattibilità nei giorni successivi, ha implicazioni dirompenti.
Disprezzo del diritto internazionale
Il piano equivale a una pulizia etnica della Striscia di Gaza, un trasferimento forzato di popolazione che costituisce un crimine di guerra in base allo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale.
La Quarta Convenzione di Ginevra proibisce la deportazione di una popolazione di un territorio occupato in qualsiasi altro paese. Il 19 luglio 2024, la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) ha giudicato che Gaza è un territorio occupato, in violazione del diritto internazionale.
Con il suo piano, dunque, Trump calpesta la legalità internazionale, e viola la stessa legge americana, la quale prevede il rispetto delle Convenzioni di Ginevra.
Egli però non si pone in antitesi, bensì in continuità con la precedente amministrazione Biden. Quest’ultima aveva sprezzantemente ignorato il verdetto della CIG che aveva definito “plausibile” l’accusa di genocidio a danno dei palestinesi avanzata dal Sudafrica nei confronti di Israele.
Sotto Biden, la Casa Bianca aveva continuato a fornire all’alleato israeliano quantitativi impressionanti di armi per proseguire le operazioni militari a Gaza, bloccando ripetutamente gli sforzi internazionali per giungere a un cessate il fuoco attraverso il proprio potere di veto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
La delegittimazione dell’ordine internazionale emerso nel 1945 (di cui Washington si considera garante) per mano degli stessi Stati Uniti ha radici lontane. Il piano annunciato da Trump rappresenta solo l’ultimo tassello.
Sabotaggio del cessate il fuoco
Invece di produrre un accordo su come porre fine in maniera permanente al conflitto di Gaza, l’incontro del presidente USA con Netanyahu ha posto le basi per una compromissione del cessate il fuoco.
La semplice idea di una deportazione forzata della popolazione della Striscia ha svuotato di significato la terza fase della cessazione delle ostilità, che prevede l’inizio della ricostruzione di Gaza dopo il completo ritiro delle forze israeliane.
La coincidente decisione di Trump di terminare i finanziamenti americani all’UNRWA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, dopo che il parlamento israeliano l’aveva posta fuorilegge e dunque di fatto impossibilitata ad operare a partire dalla fine di gennaio, ha messo seriamente a rischio la distribuzione degli aiuti nella Striscia.
Due giorni dopo, il presidente americano ha firmato un ordine esecutivo che impone sanzioni alla Corte Penale Internazionale per le sue indagini sui crimini di guerra israeliani a Gaza.
L’annuncio del Dipartimento di Stato, venerdì 7 febbraio, di un altro pacchetto di armi del valore di 7,4 miliardi di dollari per Israele ha lanciato un nuovo segnale inequivocabile.
Subito dopo, tramite il quotidiano israeliano Haaretz è trapelata la notizia che Netanyahu, da poco rientrato da Washington, intendeva sabotare l’accordo sul cessate il fuoco dopo il completamento della prima fase. Secondo quanto riferito, egli ha inviato in Qatar una delegazione senza alcun mandato reale a negoziare la fase successiva, al solo scopo di temporeggiare.
Una fonte israeliana riferiva al quotidiano che la condotta del premier avrebbe messo a rischio anche lo scambio di ostaggi della prima fase: “Non appena Hamas comprenderà che non ci sarà una seconda fase, potrebbe non completare la prima”.
Nei giorni precedenti, le forze israeliane avevano più volte violato il cessate il fuoco uccidendo palestinesi nella Striscia e ostacolando l’ingresso degli aiuti, ma Hamas non aveva reagito.
Il 10 febbraio, il timore sul possibile mancato completamento della prima fase ha trovato conferma nella dichiarazione del gruppo palestinese secondo cui, a causa delle violazioni israeliane, esso aveva preso la decisione di rinviare il prossimo rilascio di tre ostaggi previsto per sabato 15 febbraio.
La situazione è ulteriormente precipitata quando Trump, alzando la posta, ha affermato che, sebbene l’ultima decisione sarebbe spettata a Israele, se Hamas non avesse liberato tutti i rimanenti ostaggi (non solo i tre inizialmente previsti) entro il mezzogiorno di sabato, per quanto lo riguardava l’accordo doveva essere annullato, “e che si scateni l’inferno”.
Alcune ore dopo, il premier israeliano annunciava che le operazioni militari sarebbero riprese a Gaza se Hamas non avesse liberato gli ostaggi (senza però specificarne il numero) entro sabato.
Sebbene il gruppo palestinese abbia chiarito la propria disponibilità a riprendere le operazioni di rilascio qualora Israele rispetti i termini dell’accordo, e benché il 67% degli israeliani si sia detto favorevole al mantenimento del cessate il fuoco anche durante la seconda fase nella speranza di arrivare alla liberazione di tutti gli ostaggi, la tregua è ora appesa a un filo.
Hamas ha poi dichiarato che il 15 febbraio avrebbe rilasciato i tre ostaggi come previsto ma, anche se la prima fase dovesse procedere senza altri ostacoli, il futuro del cessate il fuoco a questo punto rimane in dubbio.
Deportazione e destabilizzazione regionale
Il “piano Trump” per Gaza è stato accolto come un regalo insperato dalla grande maggioranza dei politici israeliani. Netanyahu è stato il primo a lodare l’iniziativa del presidente americano. “Questo è il tipo di pensiero che può rimodellare il Medio Oriente e portare la pace”, ha affermato il premier israeliano alla conferenza stampa del 4 febbraio.
Benny Gantz, leader del partito di opposizione “Unità Nazionale”, ha definito l’idea di Trump “creativa, originale, e interessante”. Yair Lapid, leader del partito centrista Yesh Atid, ha descritto la conferenza stampa come “un bene per Israele”. L’entusiasmo dell’estrema destra di Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir era ovviamente prevedibile.
Una volta ottenuto il timbro di approvazione americano, l’idea di una deportazione forzata della popolazione di Gaza è destinata a radicarsi in modo ancor più indelebile nel pensiero politico dominante in Israele.
La possibilità di un accordo con i palestinesi è invece destinata a tramontare definitivamente, di fronte alla prospettiva di un loro trasferimento di massa ormai considerata come “praticabile”.
Naturalmente, il piano Trump ha conseguenze potenzialmente gravi anche per la Cisgiordania, per Gerusalemme Est, e perfino per i residenti arabi in Israele. Nulla, infatti, vieta che il principio adottato a Gaza venga esteso anche agli altri territori abitati dai palestinesi.
Il presidente americano ha inoltre trasformato la questione palestinese in un problema regionale poiché, invece di concepirne la soluzione in termini di convivenza fra ebrei e palestinesi entro il territorio della Palestina storica, la scarica sulle spalle degli Stati vicini.
In concreto, Trump sta chiedendo ai governi di paesi come Giordania, Egitto e Arabia Saudita non solo di accogliere centinaia di migliaia di profughi da Gaza, ma di porre la pietra tombale sulla causa palestinese macchiando la propria credibilità agli occhi dei loro stessi cittadini.
Circa la metà della popolazione della Giordania è di origine palestinese. I giordani autoctoni, largamente di affiliazione tribale, ritengono che l’arrivo di altre migliaia di persone da Gaza o dalla Cisgiordania trasformerebbe il paese in uno Stato palestinese. Mentre i giordani di origine palestinese considerano questa ipotesi come un tradimento del loro diritto al ritorno.
Un’alterazione degli equilibri demografici, inoltre, rafforzerebbe formazioni politiche come i Fratelli Musulmani, storici sostenitori della causa palestinese, ed anche gruppi jihadisti già radicati nel paese, mettendo a rischio la stabilità stessa della monarchia giordana.
Il regime del presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi correrebbe rischi analoghi: un’importazione della questione palestinese, l’infiltrazione nel paese da parte di Hamas (forza ideologicamente affine ai Fratelli Musulmani, considerati un nemico mortale dal regime), e la destabilizzazione della fragile e turbolenta regione del Sinai.
La pulizia etnica di Gaza o dell’intera Palestina, dunque, non determinerebbe la fine della causa palestinese bensì la sua esportazione nei paesi limitrofi, e la possibile destabilizzazione di questi ultimi, senza portare ad una pacificazione araba con Israele.
I paesi arabi hanno già potuto osservare come Israele non si limiti a distruggere Gaza e ad impadronirsi di quote sempre maggiori della Cisgiordania, ma nutra ambizioni territoriali nei confronti dei propri vicini. Lo confermano la riluttanza israeliana a ritirarsi dal sud del Libano e l’occupazione di ulteriori porzioni delle alture del Golan da parte delle forze armate di Tel Aviv dopo il crollo del regime di Assad in Siria.
Trump erede della mentalità coloniale occidentale
Il piano Trump per Gaza si inserisce a pieno diritto nella tradizione del colonialismo occidentale. La pulizia etnica dei palestinesi è intesa come “sanificazione” di un crimine che non viene mai nominato. Il presidente americano non cita Israele come causa della devastazione della Striscia. I palestinesi vengono deportati “per il loro bene”.
Con lo stesso linguaggio, nel 1830 il presidente statunitense Andrew Jackson giustificò l’Indian Removal Act come “misura necessaria per la felicità” dei nativi americani, deportandoli con il pretesto di proteggere il loro stile di vita.
Prima del 1948, gli ufficiali coloniali britannici parlavano dell’immigrazione ebraica come di un mezzo per “sviluppare” la terra di Palestina, liquidando la presenza palestinese come un ostacolo alla modernità: la pulizia etnica intesa come strumento di progresso.
La ricostruzione proposta da Trump a Gaza non è per i palestinesi, ma per cancellare addirittura la loro memoria, cedendo questa enclave a un’élite internazionale, in quella che sarà una sorta di Dubai sul Mediterraneo.
Come ha affermato Eyal Weizman, fondatore del gruppo di ricerca Forensic Architecture e autore del libro Hollow Land: Israel’s Architecture of Occupation, “esiste un legame storico fra contro-insurrezione ed architettura” fondato sull’idea che quest’ultima può “risolvere” un problema politico, in concreto cancellando un’identità.
In Kenya negli anni ’20 del secolo scorso, l’amministrazione coloniale britannica demolì i villaggi africani dentro e attorno a Nairobi come parte di uno sforzo per segregare la città secondo linee razziali.
Ottant’anni prima, ad Algeri, i francesi riuscirono a vincere la resistenza locale soltanto radendo al suolo interi quartieri, e organizzando la città attorno a nuove strade.
L’idea di Trump non è una novità nemmeno all’interno del suo entourage. Nel febbraio 2024, suo genero Jared Kushner aveva avanzato una proposta analoga nel corso di un’intervista presso l’Università di Harvard.
In quell’occasione Kushner aveva detto che “i terreni sul lungomare di Gaza potrebbero essere molto preziosi”, aggiungendo che “dal punto di vista di Israele, farei del mio meglio per far uscire la gente [dalla Striscia] e poi ripulire tutto”.
Altro aspetto da sottolineare è che Trump chiede di cooperare a una soluzione di questo tipo a paesi come Egitto, Giordania ed Arabia Saudita che sono i pilastri dell’architettura regionale americana nella regione, la quale potrebbe risentire pesantemente della destabilizzazione di alcuni di questi paesi.
Paradossale è anche il fatto che i sauditi alimentino con il loro denaro i fondi di investimento di Kushner. Affinity Partners, fondo creato da quest’ultimo nel 2021, nel quale i sauditi hanno versato 2 miliardi di dollari, ha annunciato nel gennaio di quest’anno che raddoppierà la propria quota in Phoenix Financial, compagnia israeliana che ha investito negli insediamenti illegali in Cisgiordania e nelle alture del Golan.
Una storia di sradicamento
L’idea di spopolare Gaza, però, non è stata introdotta né da Trump né da Kushner. Già nell’ottobre 2023, all’inizio del conflitto, era emersa l’esistenza di almeno due piani israeliani – uno di un think tank vicino al premier Netanyahu, e l’altro del ministero dell’intelligence – per il trasferimento della popolazione di Gaza nel Sinai egiziano.
Ma i primi progetti israeliani di ripulire Gaza dalla propria popolazione risalgono agli anni ’50 del secolo scorso. Nel 1956, allorché Israele invase la Striscia occupandola fino al marzo dell’anno successivo, l’allora primo ministro David Ben-Gurion creò una commissione incaricata di studiare proposte per svuotare Gaza dei propri abitanti.
Nel 1967, quando Israele occupò nuovamente l’enclave palestinese, il governo israeliano decise che avrebbe annesso Gaza al proprio territorio dopo aver ridotto il numero di palestinesi attraverso trasferimenti in altri paesi, in particolare in Giordania.
Storicamente, la Striscia di Gaza è essa stessa territorio di rifugiati. Nella sua attuale conformazione geografica e composizione demografica, essa emerse a seguito della Nakba (Catastrofe) palestinese del 1948, allorché gli israeliani fondarono il proprio Stato.
Durante quei tragici eventi, il distretto di Gaza fu ridotto da un’area di 1.111 km quadrati agli attuali 365. Centinaia di migliaia di palestinesi provenienti da decine di città e villaggi di quel territorio furono scacciati dalle loro abitazioni e si rifugiarono nell’esile lingua di terra che sarebbe divenuta la Striscia attuale.
Nella loro fuga, questi palestinesi persero le loro comunità d’origine, le loro abitazioni, i loro terreni, le loro attività lavorative. Gli attuali abitanti della Striscia, eredi di quell’esperienza, sono determinati a non ripeterla.
Durante il cessate il fuoco, oltre mezzo milione di palestinesi hanno fatto ritorno, con una marcia impressionante, alle proprie case distrutte a Gaza nord, a conferma della volontà di queste persone di non abbandonare il territorio dove hanno vissuto per tutti questi anni.
Per questi palestinesi, non si è trattato di un ritorno alle proprie abitazioni, ma al ricordo di ciò che è stato cancellato, distrutto. Essi hanno eretto le loro tende di fortuna sulla devastazione di una Gaza rasa al suolo.
Ma, dalla maggior parte delle testimonianze, si evince che questa gente non se ne andrà, non spezzerà ancora una volta il legame con la propria terra per ricostruirsi una vita da esuli in un paese straniero. Come molti hanno dichiarato, “staremo qui fino a quando ci uccideranno”.
Questa è la terribile alternativa che hanno di fronte Israele e gli USA loro alleati (e l’Occidente nel suo complesso) se continueranno a scartare la prospettiva di una soluzione politica concordata con i palestinesi. Portare a compimento l’orrendo crimine del genocidio di un popolo.
Hai letto/sentito dell'idea dell'ex-Primo Ministro Turco Ahmet Davutoglu di annettere Gaza alla Turchia dopo un referendum? Che ne pensi? Curioso che la notizia non sia stata ripresa (ancora) da media israeliani e/o occidentali.
Ne parlo brevemente in fondo al mio ultimo articolo: https://geopolitiq.substack.com/p/ansar-allah-ready-to-re-enter-the