Gli americani hanno messo gli occhi su Trieste, e non è un bene per il porto giuliano
Washington vuole integrare Trieste nella sua strategia di contenimento di Russia e Cina, ma i suoi progetti sono nel migliore dei casi inconcludenti, nel peggiore pericolosi.
Negli ultimi mesi, diversi articoli riguardanti Trieste sono apparsi su think tank e riviste specializzate negli USA. Il più recente, pubblicato dal National Interest, risale allo scorso 14 agosto.
Senza giri di parole, gli autori (Kaush Arha dell’Atlantic Council, e Carlos Roa, visiting fellow presso il Danube Institute di Budapest) affermano che lo scalo triestino, storicamente porta marittima di accesso all’Europa centrale e orientale, può svolgere un ruolo chiave nel connettere l’Europa all’Indopacifico nel quadro dei piani americani volti a competere con la Belt and Road Initiative (BRI), la Via della Seta cinese.
Questi piani consistono essenzialmente nella creazione di un corridoio economico e commerciale che dovrebbe unire l’India alla penisola araba, e quest’ultima all’Europa attraverso Giordania e Israele. Denominato India-Middle East-Europe Economic Corridor (IMEC), tale progetto fu lanciato da Washington al G20 tenutosi un anno fa in India (9 e 10 settembre 2023).
A livello mediatico, all’IMEC è stato spesso affibbiato il nome di “Via del Cotone”, per contrapporla ancor più esplicitamente alla Via della Seta cinese.
Un altro articolo, pubblicato dall’Atlantic Council lo scorso 21 maggio, sottolineava inoltre la necessità di integrare Trieste con il Baltico e il Mar Nero attraverso la creazione di due corridoi stradali e ferroviari che colleghino il porto giuliano con quelli di Danzica in Polonia e di Costanza in Romania.
Assieme a un terzo corridoio fra Danzica e Costanza, tali direttrici andrebbero a formare i lati di un triangolo di trasporti in grado di unire l’Adriatico con gli altri due mari. Si tratterebbe di un triangolo “dual-purpose” (cioè a doppia finalità, economica e militare) che all’obiettivo di rafforzare le economie dell’Europa centro-orientale, integrandole con l’Indopacifico, affiancherebbe quello di irrobustire il fianco est della NATO in chiave antirussa.
Tale triangolo, aggiunge l’articolo, contribuirebbe ad “assicurare la sovranità dell’Ucraina” favorendone l’integrazione europea.
I piani delineati nei due articoli sopra citati non sono mere ipotesi. Come ha sottolineato il giornalista e scrittore triestino Paolo Deganutti, “non si tratta solo di speculazioni geopolitiche o di articoli di rivista (che in realtà sono preparatori all’operatività): si sono attivati contatti, si fanno prospezioni e pressioni, si organizzano riunioni locali e negli USA, e si programmano grandi eventi promozionali” in proposito.
L’effimero sogno eurasiatico
Il carattere strategico del porto di Trieste non è ovviamente una novità. Lo scalo giuliano è un porto franco fin dal 1719, per decisione dell’allora imperatore d’Austria Carlo VI. Per lungo tempo la città prosperò in qualità di sbocco dell’impero asburgico sul Mediterraneo.
Con l’annessione all’Italia, Trieste perse gran parte del retroterra che aveva assicurato la sua fioritura, ma rimase un porto strategicamente rilevante. Tanto che, dopo la fine della seconda guerra mondiale, esso restò sotto il controllo di un governo militare alleato, sebbene il Trattato di Parigi del 1947 prevedesse ufficialmente l’istituzione del Territorio Libero di Trieste, neutrale e demilitarizzato, ribadendo la natura di porto franco dello scalo giuliano.
Interesse primario di Washington e Londra era che la città portuale non cadesse in mano comunista. Nel 1954, essa fu “affidata” allo Stato italiano in base al Memorandum di Londra, rimanendo tuttavia sotto “stretta sorveglianza” statunitense (a 80 km dalla città vi è la base militare americana di Aviano).
Con il crollo del muro e l’ingresso dei paesi dell’Est nell’Unione Europea, Trieste ha riacquistato rilevanza commerciale e strategica. La sua rete ferroviaria, in gran parte eredità dell’impero asburgico, lo collega al cuore dell’Europa industriale e a città come Milano, Zurigo, Monaco, Vienna, Budapest.
Ma, nel quadro della ritrovata centralità del Mediterraneo nei traffici mondiali a seguito della crescente integrazione eurasiatica e dell’allargamento del Canale di Suez, Trieste poteva anche rappresentare una valida alternativa ai porti del Nord Europa come terminal della BRI, la Via della Seta Cinese.
La firma di un Memorandum di Intesa fra Roma e Pechino per l’adesione italiana alla BRI, nel marzo 2019, incontrò tuttavia forti resistenze da parte americana. Washington si sforzò in ogni modo di trasmettere al governo dell’allora primo ministro Giuseppe Conte il “dispiacere” statunitense di fronte alla prospettiva di un rafforzamento dei rapporti fra Italia e Cina.
Zeno D’Agostino, allora presidente del porto di Trieste, dovette rispondere alle domande dell’allora ambasciatore USA Lewis Eisenberg che si era recato personalmente da lui nel dicembre dello stesso anno, dopo che D’Agostino era appena rientrato da Shanghai.
A seguito delle pressioni americane, i governi Draghi e Meloni avrebbero progressivamente cambiato rotta riguardo ai rapporti con Pechino. Il Memorandum di Intesa sarebbe rimasto lettera morta, e non più rinnovato con il ritiro ufficiale di Roma dalla BRI nel dicembre 2023.
Gli USA e la “Via del Cotone”
Solo tre mesi prima, Washington aveva lanciato il progetto dell’IMEC, la cosiddetta “Via del Cotone”, al G20 di Nuova Delhi. Come avevo scritto allora:
Il progetto prevede di unire trasporto marittimo e ferroviario (quest’ultimo si svilupperà dai porti sul Golfo Persico fino ad Israele, attraverso la penisola araba). Il corridoio così concepito permetterà di evitare il canale di Suez. Esso sarà completato da cavi sottomarini per la trasmissione di dati e il trasporto di elettricità, e da una pipeline di idrogeno da Israele all’Europa.
Nel continente europeo, i paesi maggiormente coinvolti saranno Francia e Italia (dove avranno sede i terminal marittimi del corridoio settentrionale), e la Germania. Washington offre così ai tre paesi europei un piccolo incentivo ad allentare i loro rapporti economici con la Cina. L’Italia, che ha appena rinunciato a rinnovare il memorandum d’intesa sulla Via della Seta, potrà rafforzare i propri rapporti con l’India, gli Emirati Arabi Uniti (EAU), e Israele.
Al di là degli obiettivi economici, dunque, il progetto ha chiari scopi geopolitici. L’India, che è uno dei pochi paesi in Asia che non prendono parte alla BRI, avrà la possibilità di rafforzare i propri rapporti con l’Europa e gli USA.
L’IMEC dovrebbe inoltre consentire a Nuova Delhi di bypassare il (nemico) Pakistan, l’Afghanistan, e l’(amico) Iran, e raggiungere invece l’Europa stringendo i propri legami con le monarchie del Golfo (Arabia Saudita ed EAU) – un chiaro interesse strategico di Washington, che storicamente era stato dell’impero coloniale britannico.
Come si evince da questa descrizione, il progetto ha aspetti chiaramente divisivi: intende incentivare Roma, Parigi e Berlino ad allentare i loro rapporti con Pechino, pone altresì l’India in netta contrapposizione con la Cina e tenta di indebolirne la partnership storica con Teheran.
Inoltre, come osservavo già allora,
E’ anche interessante notare che, mentre nel progetto sono stati inclusi paesi che non fanno parte del G20, come Israele, Giordania ed EAU, da esso è stata esclusa la Turchia, membro del gruppo e letteralmente ponte geografico fra Europa e Medio Oriente.
Andato su tutte le furie per questa esclusione, il presidente turco Recep Tayyep Erdogan ha avanzato la proposta di un progetto alternativo, denominato “Development Road”, in collaborazione con Iraq, Qatar (paesi anch’essi esclusi dall’IMEC) ed Emirati Arabi Uniti, per connettere il Golfo Persico all’Europa tramite la Turchia.
Da non trascurare, a questo proposito, che oltre il 70% del commercio turco con l’Europa passa per il porto di Trieste.
Fin dall’inizio, poi, la “Via del Cotone” denotava altri punti deboli:
L’IMEC presenta non soltanto possibili problemi di finanziamenti, ma anche ostacoli geo-economici e politici. Va ricordato, innanzitutto, che l’India non è paragonabile alla Cina come potenza industriale e manifatturiera. Questo è già un primo elemento che limiterà notevolmente i flussi di merci verso l’Europa rispetto ad un progetto come la BRI.
In secondo luogo, una serie di tensioni politiche irrisolte, come quelle fra Arabia Saudita ed Israele, potrebbe mandare a monte il progetto.
Dalla “pace” annunciata alla catastrofe di Gaza
Pochi giorni dopo il lancio dell’IMEC a Nuova Delhi, il premier israeliano Benjamin Netanyahu annunciava trionfalmente la nascita di un “nuovo Medio Oriente”, attraverso al partecipazione di Israele alla “Via del Cotone”, davanti alla platea dell’Assemblea Generale dell’ONU, mostrando una mappa della regione nella quale figurava lo Stato ebraico senza alcuna traccia dei territori palestinesi.
Ricordando gli Accordi di Abramo lanciati nel 2020 dall’allora presidente americano Donald Trump per riconciliare il mondo arabo con Israele (i quali però trascuravano completamente la questione palestinese),
Netanyahu sosteneva che la normalizzazione dei rapporti fra Israele e i paesi arabi, ed in particolare il raggiungimento di una “storica pace” fra Tel Aviv e l’Arabia Saudita, avrebbero reso possibile la realizzazione dell’IMEC, promuovendo la prosperità nella regione. Gli Accordi di Abramo, dunque, preannunciavano “l’alba di una nuova era di pace” – un “nuovo Medio Oriente”, appunto.
Poco più di una settimana dopo, il 7 ottobre, l’attacco di Hamas e la durissima reazione militare israeliana nella Striscia di Gaza avrebbero rinviato la riconciliazione fra Tel Aviv e Riyadh a data da destinarsi. I crescenti rischi di allargamento del conflitto avrebbero messo ulteriormente in discussione un anello chiave del corridoio proposto da Washington.
Legare il futuro del porto di Trieste a un progetto velleitario come l’IMEC appare dunque una mossa avventata, e probabilmente fallimentare.
Un recente rapporto EUROMESCO, commissionato al Centre for European Policy Studies, afferma che la cosiddetta “Via del Cotone” non tiene conto dei conflitti, delle violazioni dei diritti umani, delle disuguaglianze, e delle fragilità delle partnership nel bacino del Mediterraneo, e va urgentemente ripensata.
Il rapporto sostiene che non vi sarà alcun IMEC senza una diversificazione delle sue rotte, tale da includere anche un futuro Stato palestinese ed altri partner mediterranei. Esso rileva che l’aggravarsi del conflitto di Gaza ha creato fratture geopolitiche che sarà molto difficile sanare.
Un muro contro la Russia
Sul fronte europeo, Washington vuole integrare Trieste, e i corridoi di trasporto menzionati nell’articolo dell’Atlantic Council precedentemente citato, nella cosiddetta Three Seas Initiative (3SI), che include tredici paesi dell’Europa centrale e orientale, dalle repubbliche baltiche a nord alla Grecia a sud, unendo Baltico, Adriatico e Mar Nero.
Ispirata da un’idea dello stesso Atlantic Council, che nel 2014 la condensò nel rapporto “Completing Europe”, l’iniziativa dei Tre Mari fu lanciata ufficialmente da Kolinda Grabar-Kitarović, presidente della Croazia, e dal suo omologo polacco Andrzej Duda l’anno successivo, con finalità di sviluppo economico e integrazione infrastrutturale.
Ma, come ha scritto l’analista geopolitico Mirko Mussetti, la 3SI (anche nota come Trimarium) in realtà asseconda le ambizioni statunitensi di egemonia sull’Europa centro-orientale, ha chiare finalità di contenimento della Russia, e stronca sul nascere ogni tentativo di autonomia europea.
Guardando una carta geografica, ci si rende conto che il corridoio Danzica-Costanza, il più orientale di quelli proposti dall’articolo dell’Atlantic Council, corre a ridosso di quello che Mussetti ha chiamato l’istmo d’Europa, la linea più breve che unisce Baltico e Mar Nero, dall’exclave russa di Kaliningrad alla repubblica separatista di Transnistria.
Ad eccezione delle repubbliche baltiche, i paesi del Trimarium si estendono a ovest di quest’asse, a ridosso del quale sono disseminate le installazioni militari e missilistiche della NATO. La costruzione di queste infrastrutture militari – ha osservato ancora Mussetti – era cominciata ben prima della rivolta di Euromaidan a Kiev nel 2014.
La creazione dei tre corridoi ferroviari e stradali tra i porti di Trieste, Danzica e Costanza serve dunque a facilitare la mobilitazione delle forze NATO lungo questo fronte orientale, come dice esplicitamente l’articolo dell’Atlantic Council.
Il corridoio Danzica-Costanza collegherebbe i principali membri NATO e UE a ridosso della Russia e, attraversando l’Ucraina occidentale, faciliterebbe l’integrazione europea del paese.
I rischi di un porto “dual use”
L’introduzione del porto di Trieste, osserva Paolo Deganutti, aggiungerebbe un altro grande scalo su un terzo mare, l’Adriatico, in funzione di retrovia strategica per la logistica militare.
“E’ una funzione […] che Trieste ha già svolto – aggiunge Deganutti (il quale ha anche scritto un libro su questo delicato tema) – ad esempio alla fine della seconda guerra mondiale, consentendo il trasporto delle truppe e degli equipaggiamenti militari alleati destinati all’occupazione dell’Austria e della Mitteleuropa”.
Come ammette lo stesso Atlantic Council, i progetti di sviluppo economico della 3SI languono per mancanza di fondi – complici gli stessi USA, che hanno inizialmente fatto promesse di aiuti poi non mantenute.
I corridoi di trasporto fra Trieste, Danzica e Costanza, dunque, potrebbero finire per avere scopi principalmente militari. Lo scalo giuliano non ricaverebbe perciò grandi prospettive commerciali dall’inserimento in un simile progetto, che invece lo esporrebbe a rischi di altra natura.
Un suo impiego militare, o “dual use”, scrive Deganutti, “non sembra coerente né con lo spirito di un porto franco né con la legislazione internazionale tuttora vigente”. Inoltre, la trasformazione del porto in una base di logistica militare lo renderebbe un bersaglio dei missili russi nel caso in cui dovesse scoppiare un conflitto con Mosca.
Tutto considerato, Trieste sembra aver davvero poco da guadagnare dall’inserimento in progetti come l’IMEC e i corridoi logistici della 3SI.
Mentre la Via della Seta cinese era un disegno principalmente commerciale che apriva lo scalo giuliano ai ricchi mercati asiatici, l’IMEC e i corridoi del Trimarium appaiono carenti, se non fallimentari, sotto il profilo dello sviluppo economico, esponendo invece il porto triestino a pericoli di natura militare.
Washington non muove foglia se non in funzione del controllo militare totale del mondo. Ma oltre alle considerazioni che hai espresso nell'articolo, l'IMEC non tiene conto del fattore più grande e a mio parere decisivo: la guerra in Ucraina che può stravolgere totalmente il progetto se la Russia la vincerà in tempi ragionevolmente brevi e come ne uscirà da essa la formazione statuale dell'ex repubblica sovietica. Sarà smembrata, riuscirà a mantenere una parvenza di stato? Consideriamo poi che anche Mosca sta lavorando molto ad un corridoio ferroviario che partendo dal suo territorio e, attraversando l'Azerbaigian, si congiunga con l'Iran fino alle coste del Golfo Persico. I mercati del sud est asiatico, e dell'influenza russa sulla regione, sarebbero a portata di mano. Troppe incognite e variabili sono in atto , per cui, ad oggi, il sabotaggio USA dell'autonomia europea pare l'unica certezza. Ciao.
E domandare ai cittadini del Territorio Libero di Trieste (TLT) come vogliono che sia utilizzato il loro porto, non sarebbe una bella idea?