Una gigantesca partita a scacchi si sta giocando fra USA, Russia e Iran
Il negoziato ucraino e quello sul nucleare iraniano rientrano in una più ampia battaglia per la ridefinizione degli equilibri mondiali. Mosca e Teheran hanno piena consapevolezza della posta in gioco.

In mezzo a continui colpi di scena, smentite, dichiarazioni contraddittorie, accuse e controaccuse, i contorni generali del piano di pace che l’amministrazione Trump offre a Kiev e Mosca sono alla fine emersi.
Nel frattempo, l’inviato speciale del presidente americano, Steve Witkoff, oltre a giocare un ruolo di primo piano nel negoziato con la Russia è impegnato in un’altra trattativa cruciale e piena di incognite con l’Iran.
Non è esagerato dire che dall’esito dei due tavoli negoziali dipende una porzione rilevante degli equilibri mondiali e la pace in due regioni strategiche come Europa e Medio Oriente.
Esiste inoltre un legame fra le due partite diplomatiche, sebbene si giochino su scacchieri differenti.
Entrambe fanno parte del (disperato) tentativo di Washington di preservare un ruolo egemone, sebbene ridimensionato rispetto a quello della tramontata era unipolare americana, in un mondo che è sempre più chiaramente multipolare.
Ambiguità e incertezze del piano Trump
Che il piano di pace USA per risolvere il conflitto ucraino risulti appetibile anche ad uno solo dei contendenti è tutto da dimostrare. Esso chiede dolorose concessioni a entrambe le parti, ed è già stato definito essenzialmente inaccettabile dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky.
Ma soprattutto, il piano sembra andare in direzione di un congelamento del conflitto, e non di una rimozione delle cause che lo hanno provocato.
In concreto, dunque, esso potrebbe risultare inammissibile anche per Mosca, sebbene i negoziatori russi, diplomaticamente più accorti di quelli ucraini, abbiano per ora evitato di sbilanciarsi.
La proposta dell’amministrazione Trump prevede:
1) Il riconoscimento “de iure” da parte americana dell’annessione russa della Crimea;
2)il riconoscimento di fatto dell’annessione russa dei quattro oblast di Luhansk, Donetsk, Kherson e Zaporizhzhia;
3) la promessa che l’Ucraina non aderirà alla NATO (sebbene possa divenire membro dell’Unione Europea);
4) l’abrogazione delle sanzioni imposte alla Russia a partire dal 2014;
5) la restituzione all’Ucraina della piccola porzione dell’oblast di Kharkiv attualmente occupata dalla Russia;
6) non meglio definite “garanzie di sicurezza” per Kiev;
7) assistenza all’Ucraina per la ricostruzione (anche in questo caso definita in termini vaghi);
8) un accordo per la cooperazione congiunta Kiev-Washington nello sfruttamento delle risorse minerarie ed energetiche ucraine;
9) la centrale nucleare di Zaporizhzhia, attualmente sotto controllo russo, verrebbe considerata come territorio ucraino, ma gestita dagli USA; l’elettricità prodotta andrebbe a rifornire sia l’Ucraina che la Russia;
10) Una rafforzata cooperazione economica fra Washington e Mosca, soprattutto nel settore energetico e delle materie prime.
L’aspetto problematico del piano è che gli USA tacciono sui diritti dei russofoni in territorio ucraino, non propongono un limite alle dimensioni delle forze armate ucraine, e non escludono l’invio di aiuti militari occidentali a Kiev né il dispiegamento (per quanto improbabile) di truppe europee sul suolo ucraino – tutti elementi ai quali Mosca si è detta contraria.
Il segretario di Stato USA Marco Rubio ha affermato che “ogni nazione sovrana sulla terra ha il diritto di difendersi”, e che dunque anche l’Ucraina avrà il diritto di farlo eventualmente stringendo “qualunque accordo su base bilaterale con differenti paesi”.
Alcune di queste questioni andranno eventualmente chiarite in futuri negoziati tra Ucraina, Russia ed altri paesi europei dopo che un accordo quadro e un cessate il fuoco saranno stati raggiunti (cosa tutt’altro che scontata).
Come accennato, fra tali questioni vi è la proposta dell’invio in Ucraina di una forza europea di “rassicurazione”, composta da circa 30.000 uomini, da parte della cosiddetta “coalizione di paesi volenterosi” guidata da Francia e Gran Bretagna – un’ipotesi sempre rifiutata dalla Russia.
Inoltre, non è affatto certo che i paesi europei, essenzialmente schierati sulle posizioni di Kiev, siano disposti ad abrogare la loro quota di sanzioni, ed in particolare a permettere la riconnessione delle banche russe alla rete finanziaria dello SWIFT.
Di fronte alla reazione negativa di Zelensky nei confronti della sua proposta negoziale, Trump ha accusato il presidente ucraino di mettere a rischio l’accordo di pace, affermando invece: “Penso che abbiamo un’intesa con la Russia”.
Dal canto suo, il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha detto che ci sono “molte sfumature” riguardo alle trattative in corso e che le posizioni negoziali devono ancora essere avvicinate. Ciò suggerirebbe che, dal punto di vista russo, un accordo non è ancora stato raggiunto.
Da diversi giorni, vari esponenti dell’amministrazione (fra cui Rubio ed il vicepresidente J.D. Vance) vanno dicendo che, se Kiev e Mosca non accetteranno il piano di pace, gli Stati Uniti abbandoneranno il negoziato.
Non è chiaro però se questa sia una mera tattica negoziale, o la reale intenzione della Casa Bianca. Inoltre, qualora Trump dovesse addossare a Kiev la responsabilità del fallimento del negoziato, non è chiaro se egli cesserà gli aiuti militari e di intelligence all’Ucraina.
Le ragioni strategiche di Washington
Come ha scritto Alex Vershinin, tenente colonnello in congedo dell’esercito americano, il punto chiave da comprendere in questo negoziato è che il tempo a disposizione di Kiev sta per finire. L’Ucraina ha una crescente carenza di soldati e ad un certo punto andrà incontro a un collasso della linea del fronte.
I russi si trovano nella situazione opposta: il loro vantaggio in termini di uomini e materiale bellico sta aumentando. Per questo Mosca è riluttante ad accettare un cessate il fuoco prima che i termini di un accordo di pace siano chiari.
Il tempo in ogni caso gioca a suo favore: più si prolungheranno i negoziati, più la posizione russa sul campo di battaglia risulterà favorevole.
Negoziare una pace in base alle condizioni russe non sarà forse un grande affare dal punto di vista di Kiev e dei suoi alleati occidentali. Ma scommettere su un improbabile miglioramento della posizione militare di Kiev sul terreno significherebbe ritrovarsi a negoziare con Mosca in condizioni ancora più svantaggiose.
E’ il leitmotiv dell’intero conflitto, nel quale Kiev ha inesorabilmente arretrato ad eccezione della breve parentesi dell’autunno 2022.
Mentre l’amministrazione Trump ha preso atto di questa situazione, gli alleati europei di Kiev mantengono una linea intransigente quanto irrealistica, e in ultima analisi disastrosa per l’Ucraina.
Gli Stati Uniti, invece, dopo essere stati il principale partner di Kiev fin dallo scoppio del conflitto (e già prima che scoppiasse), con la nuova presidenza si sono reinventati come meri “mediatori” fra i due principali contendenti.
Sebbene la posizione americana possa risultare poco convincente (e certamente non ha convinto del tutto Mosca), la strategia della Casa Bianca era stata chiaramente enunciata dal segretario alla Difesa Pete Hegseth già a febbraio.
Rivolgendosi ai ministri della difesa europei, Hegseth aveva dichiarato che “dure realtà strategiche impediscono agli Stati Uniti d’America di concentrarsi principalmente sulla sicurezza dell’Europa”, dovendo Washington occuparsi del contenimento della Cina nell’Indopacifico.
USA ed Europa dovranno perciò operare una “divisione dei compiti” che massimizzi il “vantaggio comparativo” occidentale nel vecchio continente e nel Pacifico rispettivamente, aveva detto Hegseth.
Secondo la Casa Bianca, la sicurezza europea (ed eventualmente dell’Ucraina) dovrà perciò essere garantita dai membri europei della NATO, i quali dovranno procedere ad un’operazione di riarmo espandendo la propria industria bellica.
Nel quadro di un disimpegno (ma non di un ritiro) dall’Europa, per Washington risulta vantaggioso arrivare ad una composizione del conflitto ucraino (e dovrebbe esserlo in effetti anche per gli europei).
Dilazionare i conflitti per preservare l’egemonia
La strategia dell’attuale amministrazione è ulteriormente spiegata da Wess Mitchell, uno dei principali strateghi statunitensi, membro a vita del Council on Foreign Relations e già assistente segretario di Stato per l’Europa e l’Eurasia sotto la precedente amministrazione Trump.
Mitchell afferma che Washington deve ricorrere alla diplomazia per “gestire il divario tra i mezzi finiti degli Stati Uniti e le minacce virtualmente infinite a cui essi devono far fronte”.
Per lui, la diplomazia non serve a comporre le rivalità o a risolvere i conflitti, ma semplicemente a dilazionarli nel tempo per evitare che si sovrappongano e che gli USA debbano combattere su troppi fronti contemporaneamente.
L’obiettivo della diplomazia è dunque quello di ridurre le tensioni con il più debole fra i rivali degli Stati Uniti “al fine di concentrarsi sul più forte”.
“Questo è ciò che fecero Kissinger e il suo capo, il presidente Richard Nixon, quando migliorarono i rapporti con Pechino affinché gli Stati Uniti potessero meglio concentrarsi su Mosca all’inizio degli anni ‘70”, scrive Mitchell.
Oggi l’avversario più debole di Washington è la Russia. Gli USA dovrebbero dunque “cercare una distensione con Mosca che vada a svantaggio di Pechino”.
“L’obiettivo”, chiarisce Mitchell, “non dovrebbe essere quello di rimuovere le ragioni del conflitto con la Russia, ma di limitare la sua capacità di danneggiare gli interessi degli Stati Uniti”.
Ciò dunque implica portare a termine la guerra in Ucraina in una maniera che sia possibilmente favorevole agli USA. “Questo significa che, a conti fatti, Kiev deve essere abbastanza forte da ostacolare l'avanzata della Russia verso ovest”, conclude Mitchell.
Egli cita a modello la Corea degli anni ’50 del secolo scorso: “Dare la priorità a un armistizio, e rinviare le questioni concernenti un accordo più ampio ad un processo separato che potrebbe richiedere anni per dare frutto, se mai lo farà”.
Mitchell suggerisce che gli USA stringano con l’Ucraina un rapporto simile a quello che hanno con Israele: non un’alleanza formale, ma un accordo che consenta a Kiev di ricevere tutto ciò di cui necessita per difendersi.
Saranno però gli europei a doversi assumere la responsabilità dell’Ucraina – e più in generale della sicurezza del vecchio continente.
La strategia di Trump, secondo Mitchell, starebbe dunque funzionando almeno in parte: egli è riuscito a spingere l’Europa a riarmarsi e, attraverso i dazi, può convincere gli europei ad accettare una quota maggiore di prodotti americani.
L’intenzione di Washington, dunque – come emerge anche dal piano di pace formulato da Trump – non è di porre fine al conflitto ucraino (e dunque alla rivalità con Mosca) una volta per tutte, ma di congelarlo per procedere poi a tentare di indebolire il legame fra Russia e Cina facendo leva sulla natura sbilanciata di questo rapporto.
La partita iraniana
Una strategia analoga può essere impiegata con l’Iran, sostiene Mitchell. Gli Stati Uniti hanno un forte interesse a indebolire quel paese, allo stesso tempo limitando la necessità di interventi militari americani nella regione.
Sebbene sia difficile immaginare che l’Iran rinunci al proprio programma nucleare, scrive Mitchell, il momento di azzardare la carta negoziale giocata da Trump è quello più opportuno, alla luce dell’attuale debolezza dell’Iran a seguito della sconfitta di molti dei suoi alleati regionali per mano di Israele.
Il negoziato nucleare serve a scongiurare la possibilità che Teheran si doti dell’arma atomica. Il momento di debolezza iraniano serve a strappare le condizioni più favorevoli per Washington.
Nel frattempo, la campagna militare di Israele su più fronti può permettere agli USA di sbarazzarsi definitivamente degli alleati regionali dell’Iran, per poi eventualmente portare a termine lo schema degli Accordi di Abramo giungendo a una normalizzazione dei rapporti fra Israele e Arabia Saudita.
La strategia negoziale seguita da Trump sembra in effetti ricalcare da vicino quella teorizzata da Mitchell.
L’inviato speciale del presidente americano, Steve Witkoff, sta gestendo direttamente sia il negoziato con Mosca che quello con Teheran.
Dopo un approccio americano iniziale estremamente aggressivo, che ha comportato la reintroduzione di un regime duro di implementazione delle sanzioni nei confronti dell’Iran (la cosiddetta strategia della “massima pressione”), e l’invio di bombardieri alla base Diego Garcia nell’Oceano Indiano con una chiara finalità intimidatoria, Witkoff ha adottato con Teheran una linea pragmatica e costruttiva.
Tale linea finora è consistita nel limitare il negoziato al programma nucleare, escludendo la questione dell’arsenale missilistico iraniano così come quella dei suoi alleati regionali.
Ed anche nei confronti del programma nucleare, Witkoff ha seguito per il momento una linea molto realistica, proponendo l’instaurazione di un regime di controllo che impedisca all’Iran di dotarsi dell’arma atomica, ma non lo smantellamento del suo programma nucleare (condizione che sarebbe inaccettabile per Teheran).
Witkoff sembrerebbe orientato a permettere all’Iran di continuare ad arricchire l’uranio al 3,67% necessario per produrre combustibile per le proprie centrali nucleari.
Secondo alcune fonti, l’Iran potrebbe addirittura acconsentire a gestire il programma di arricchimento in “joint venture” con un paese terzo per permettere un ulteriore livello di controllo sul processo di arricchimento.
In alternativa, Teheran potrebbe accettare di inviare le proprie riserve di uranio arricchito in Russia.
Nel frattempo, però, Washington continua ad imporre nuove sanzioni all’Iran, e ad inviare a Israele bombe “bunker buster” che potrebbero essere impiegate in un possibile attacco alle installazioni nucleari iraniane.
Inoltre, il Pentagono sta conducendo una violenta campagna di bombardamenti contro il gruppo sciita degli Houthi (anche noto come Ansar Allah) nello Yemen, uno degli alleati regionali di Teheran.
Intanto l’inviata USA in Libano, Morgan Ortagus, oltre a ringraziare pubblicamente Israele “per aver sconfitto Hezbollah (incurante del fatto che gli israeliani hanno ucciso migliaia di libanesi per ottenere una simile “vittoria”), sta lavorando apertamente per favorire nel paese un processo che porti al disarmo del gruppo sciita libanese.
Sembra dunque che Trump stia seguendo abbastanza fedelmente il canovaccio tracciato da Mitchell: negoziare un accordo che garantisca che l’Iran non entri in possesso di armi nucleari, alle condizioni più favorevoli per Washington, e nel frattempo fare di tutto per indebolire o distruggere gli alleati regionali di Teheran.
Falchi americani e israeliani
Anche sul versante negoziale iraniano esistono però numerose incognite che potrebbero portare ad un fallimento della trattativa, ad una rischiosa azione bellica contro l’Iran, ma anche spingere gli USA verso un coinvolgimento regionale insostenibile dal punto di vista militare.
In primo luogo, l’approccio pragmatico di Witkoff non è approvato da tutti all’interno dell’amministrazione (Rubio, ad esempio, non vuole permettere a Teheran di arricchire l’uranio), e non è condiviso da Israele che vorrebbe uno smantellamento totale del programma nucleare iraniano secondo il cosiddetto “modello libico”.
Secondo una recente inchiesta del New York Times, Trump avrebbe bloccato un piano israeliano per attaccare le installazioni nucleari iraniane con l’aiuto degli Stati Uniti.
Dopo mesi di dibattito interno, sarebbe emersa una consistente opposizione al piano israeliano (composta, fra gli altri, da Tulsi Gabbard, direttrice del National Intelligence, dal segretario alla Difesa Pete Hegseth, e dal vicepresidente J.D. Vance).
Trump avrebbe deciso perciò di puntare inizialmente sul negoziato rinviando un’eventuale operazione militare.
Israele però non sembra aver rinunciato alla possibilità di compiere un attacco più limitato senza l’assistenza americana, qualora il negoziato prenda una piega giudicata inaccettabile da Tel Aviv.
Il capo del Mossad, David Barnea, e Ron Dermer, ministro israeliano degli Affari Strategici e braccio destro del premier Benjamin Netanyahu, stanno inoltre esercitando forti pressioni su Witkoff affinché adotti una linea negoziale più dura nei confronti di Teheran.
Dermer è stato visto a Roma, nello stesso albergo in cui alloggiava Witkoff, in occasione dei colloqui tenuti da quest’ultimo con la delegazione iraniana presso l’ambasciata dell’Oman nella capitale italiana.
E in precedenza, Dermer e Barnea avevano “intercettato” Witkoff a Parigi sempre con l’obiettivo di spingerlo ad avere un approccio più intransigente con l’Iran.
I responsabili iraniani hanno accusato Israele di tentare in ogni modo di sabotare il negoziato.
Il Pentagono in difficoltà
Nel frattempo però, nel conflitto ucraino, poi nella violentissima operazione militare israeliana a Gaza, e infine nell’azione americana nel Mar Rosso contro gli Houthi, gli USA stanno dilapidando il proprio arsenale bellico come non accadeva dai tempi della seconda guerra mondiale.
Nell’agosto 2024, quindi ancor prima della recente campagna di bombardamenti avviata da Trump, gli Stati Uniti avevano lanciato contro obiettivi del gruppo yemenita 125 missili Tomahawk, pari a più del 3% delle riserve americane di questi missili da crociera.
Gli USA hanno sparato centinaia di altre tipologie di missili per colpire obiettivi degli Houthi o per difendere le proprie navi nell’area.
Esperti statunitensi hanno osservato che si tratta di un consumo superiore alle capacità produttive americane di rimpiazzare queste munizioni, il che compromette la prontezza militare degli USA nell’eventualità di un conflitto con la Cina nel Pacifico.
Un’eventuale operazione contro l’Iran aggraverebbe ulteriormente la situazione delle forze armate statunitensi, che già operano a ritmi di consumo insostenibili sul medio e lungo periodo.
Russia e Iran sono vigili
Sia Mosca che Teheran sembrano consapevoli delle finalità strategiche dietro le manovre negoziali di Washington.
La Russia non ha ancora scoperto le proprie carte nel negoziato sul conflitto ucraino. Il Cremlino preferisce che Trump addossi a Kiev la responsabilità di un eventuale fallimento della trattativa, al fine di non incorrere in eventuali ritorsioni da parte americana.
Nel frattempo sembra esistere uno stretto coordinamento fra Russia e Iran riguardo al negoziato sul programma nucleare iraniano.
Mosca potrebbe assumere un ruolo di “garante” in un eventuale accordo fra Teheran e Washington, ospitando le riserve iraniane di uranio arricchito ed eventualmente restituendole all’Iran nel caso in cui gli USA dovessero violare l’accordo.
In una lettera inviata al presidente russo Vladimir Putin, l’Ayatollah Ali Khamenei ha ribadito l’interesse iraniano a mantenere la partnership strategica con Mosca a prescindere dall’esito del negoziato con Washington.
Putin ha contraccambiato, affermando che le trattative in corso fra Russia e Stati Uniti non altereranno il rapporto con l’Iran.
La lettera di Khamenei è stata consegnata personalmente dal ministro degli esteri iraniano Abbas Araghchi, il quale si è recato a Mosca per aggiornare il Cremlino sull’andamento del negoziato nucleare.
Araghchi si è recato parimenti a Pechino per informare allo stesso modo le autorità cinesi.
Similmente, il Cremlino aveva inviato in Cina Sergei Shoigu, capo del Consiglio di Sicurezza della Federazione Russa, per rassicurare il presidente cinese Xi Jinping sulla saldezza del legame fra Mosca e Pechino all’indomani dell’avvio dei negoziati sull’Ucraina con gli Stati Uniti.
In un discorso tenuto a marzo all’Unione Russa degli Industriali e degli Imprenditori, Putin aveva detto ai suoi ascoltatori di non farsi illusioni: “Sanzioni e restrizioni sono la realtà di oggi – insieme a una nuova spirale di rivalità economica già scatenata”.
“Non c’è nulla oltre questa realtà”, aveva detto il presidente russo.
“Le sanzioni non sono misure temporanee né mirate; costituiscono un meccanismo di pressione sistemica e strategica contro la nostra nazione. Indipendentemente dagli sviluppi globali o dai cambiamenti nell'ordine internazionale, i nostri competitori cercheranno costantemente di contenere la Russia e di ridurne le capacità economiche e tecnologiche”.
Tuttavia, ha aggiunto Putin, se la Russia ha delle sfide da affrontare, anche quelle dei suoi avversari sono numerose: “Il predominio occidentale sta svanendo. Nuovi centri di crescita globale stanno prendendo piede”.
Il negoziato sull’Ucraina e quello sul nucleare iraniano fanno parte di una più ampia battaglia per la ridefinizione degli equilibri mondiali. Mosca e Teheran hanno piena consapevolezza della posta in gioco.
Grazie, Roberto, un articolo illuminante per diversi aspetti. Chiarisce in modo egregio le dinamiche in atto, altrimenti in gran parte incomprensibili. Se non si ha consapevolezza del livello strategico alcune mosse appaiono incongruenti.
Mosca ha molto da perdere da un accordo monco come quello confezionato dagli USA. A maggior ragione se la strategia Mitchell dovesse diventare la dottrina economico-militare di Trump. Quali garanzie reali può offrire l'Occidente per convincere Mosca? La dirigenza russa pare ben comprendere i pericoli sottostanti a questo tentativo di congelare la realtà sul campo e il suo tirar per le lunghe il negoziato, che date le complessità non può che essere obiettivamente lungo e dettagliato, è perfettamente giustificato. Data la situazione attuale regionale e mondiale ove la posta in gioco è la ristrutturazione dei rapporti di forza est-ovest, credo che i russi debbano giocare tutte le carte sul proseguimento dello sforzo bellico per arrivare fino sulla riva sinistra del Dnper; non sarà facile per le reazioni che l'occidente metterà in campo, ma trattare da un punto di forza come quello proposto cambierebbe sia il presente che il futuro. D'altra parte, come farebbero a giustificare ai propri cittadini la NWO e i suoi molti morti, se dovessero rinunciare a parti sostanziali delle richieste irrinunciabili?