Un mese di conflitto: nessuna exit strategy dall’inferno di Gaza
Tutti gli scenari post-bellici nella Striscia appaiono problematici, mentre il prolungarsi della campagna militare mantiene alto il rischio di escalation.
A poco più di un mese dallo scoppio della guerra, l’inferno di Gaza non sembra avere vie d’uscita. Sicuramente non per i residenti di questa prigione a cielo aperto, sottoposta a uno dei più violenti bombardamenti della storia contemporanea. Ma apparentemente nemmeno per coloro (Israele, USA) che dovrebbero disegnare i futuri assetti dell’area.
I raid dell’aviazione di Tel Aviv sono in corso dal 7 ottobre, dopo che 1.200 - 1.400 israeliani erano rimasti uccisi nell’attacco terroristico senza precedenti condotto da Hamas quel giorno. Israele ha sganciato oltre 25.000 tonnellate di bombe su un’esigua lingua di terra, lunga 41 km e larga da 6 a 12 km.
In questo spazio ristretto – una delle aree più densamente popolate al mondo – vivono circa 2 milioni e 300 mila palestinesi (circa metà dei quali hanno meno di 18 anni), impossibilitati ad uscirne a causa di un blocco terrestre, aereo e navale in atto dal 2007.
I bombardamenti hanno provocato finora circa 11.000 morti fra i residenti della Striscia, in gran parte civili – per il 70% anziani, donne e bambini. Le stime sono fornite dal ministero della sanità di Gaza, controllato da Hamas ma ritenuto affidabile da organismi internazionali come l’ONU e da osservatori come Human Rights Watch.
E’ anzi probabile che il bilancio delle vittime sia molto più elevato, a causa dei numerosi cadaveri tuttora non estratti dalle macerie.
Secondo l’ONU, coloro che hanno dovuto abbandonare le loro case, e sono ormai sfollati all’interno della Striscia, ammontano a 1,5 milioni. Sulla base di immagini satellitari, si stima che circa un terzo degli edifici nella parte settentrionale della Striscia siano danneggiati o distrutti.
In tutta Gaza, compresa la parte meridionale, almeno 38.000 edifici sono stati colpiti, fra il 13 e il 18% del totale.
Dal 9 ottobre, Israele ha imposto un assedio totale alla Striscia, tagliando i rifornimenti di cibo, acqua, elettricità, carburante, medicine ed altri beni essenziali. Da allora, in un mese sono entrati nella Striscia appena 526 camion di aiuti attraverso il valico di Rafah con l’Egitto. Tali aiuti, già di per sé scarsi, in minima parte raggiungono il nord di Gaza.
Prima del 9 ottobre, una media di 500 camion di rifornimenti al giorno faceva il proprio ingresso in questa enclave palestinese, 100 dei quali trasportavano cibo. Secondo l’Oxfam, è entrato a Gaza appena il 2% delle derrate alimentari che venivano abitualmente consegnate in precedenza.
Rischio di pulizia etnica
Il 12 ottobre, in previsione della propria offensiva di terra, Israele ha ordinato l’evacuazione in tempi ristrettissimi di tutta la parte settentrionale della Striscia, un’area abitata da oltre un milione di palestinesi, che include Gaza City. L’ONU ha denunciato che un’evacuazione di simili proporzioni avrebbe avuto conseguenze umanitarie disastrose.
A causa della mancanza di farina, acqua e carburante, nessuna panetteria nel nord è più funzionante. Da una settimana neanche le bottiglie d’acqua vengono più distribuite. A causa della sospensione delle forniture mediche, gli ospedali del nord eseguono operazioni chirurgiche senza anestesia.
Serbatoi idrici, pozzi, e sistemi fognari sono stati bombardati. Gli impianti di dissalazione sono stati chiusi a causa della mancanza di carburante. Anche ospedali, scuole e luoghi di preghiera sono stati colpiti. L’OMS ha messo in guardia sul crescente rischio di epidemie a causa del collasso del sistema sanitario. Oltre a diverse infezioni respiratorie, più di 33.000 casi di diarrea sono stati registrati da metà ottobre, in gran parte in bambini sotto i 5 anni.
L’ordine di evacuazione forzata del nord di Gaza, i violentissimi bombardamenti, e l’esistenza di almeno due piani israeliani – uno di un think tank vicino al premier Benjamin Netanyahu, e l’altro del ministero dell’intelligence – per il trasferimento della popolazione di Gaza nel Sinai egiziano, hanno suscitato allarme a livello internazionale sul rischio concreto di una imminente pulizia etnica.
Per il momento, tali piani sembrano essere perlomeno rinviati a causa della durissima opposizione manifestata dai paesi arabi, ed in particolare dall’Egitto. Ma la prospettiva non può essere definitivamente esclusa nel caso in cui la già drammatica situazione all’interno della Striscia dovesse precipitare ulteriormente.
Accerchiamento
Nel frattempo, le forze armate israeliane stanno procedendo ad una manovra di accerchiamento di Gaza City (considerata la roccaforte di Hamas) nella regione settentrionale dell’enclave, dove però si trovano tuttora centinaia di migliaia di persone che non sono evacuate, o perché impossibilitate da malattie o ferite, o perché temono che, se decidessero di andarsene, non farebbero mai più ritorno alle loro case.
Tre divisioni israeliane sono penetrate nella Striscia da nordovest, da nordest e dalla zona mediana dell’enclave. Esse usufruiscono di copertura aerea fornita da elicotteri, droni e caccia. Secondo ufficiali e riservisti che hanno preso parte a precedenti operazioni a Gaza, in quest’occasione l’esercito israeliano sta impiegando una potenza di fuoco enormemente superiore.
Hamas al momento non sta tentando di bloccare l’avanzata delle forze avversarie. I miliziani del gruppo compiono operazioni di disturbo, utilizzando armi anticarro, droni e cariche esplosive contro i mezzi corazzati israeliani.
I vertici militari di Tel Aviv stimano di aver eliminato fra i 1.500 e i 2.000 miliziani, oltre ad una quindicina di ufficiali al livello dei comandi tattici. Ma le strutture di comando e controllo di Hamas appaiono funzionanti. E man mano che i combattimenti si intensificano, il rischio di causare vittime civili cresce ulteriormente.
In analoghe operazioni americane in Iraq e Afghanistan vi era un rapporto di 1 a 10 fra le vittime militari e quelle civili: per ogni miliziano ucciso, si registravano dieci morti fra i civili.
Solo quattro giorni fa, il generale israeliano in congedo Giora Eiland ha espresso pessimismo sui progressi dell’operazione di terra: “Non vi sono segni che Hamas stia cedendo”, ha affermato. “Li vediamo compiere operazioni coordinate e complesse con droni, mortai, missili anti-tank. Non si tratta di poche persone che lottano per la loro vita, ma di un sistema funzionante. Possono muovere le loro forze di luogo in luogo, controllano almeno l’80% del sottosuolo, e sanno come rispondere rapidamente a ciò che facciamo”.
La metro di Gaza
Eiland faceva riferimento al sistema di tunnel sotterranei che si estendono per centinaia di chilometri sotto la superficie della Striscia, una rete costruita nell’arco di decenni.
I tunnel di Gaza cominciarono ad essere scavati ben prima dello scontro tra Fatah e Hamas che portò quest’ultimo a prendere il potere nella Striscia nel 2007. Essi erano inizialmente rudimentali gallerie, utilizzate per il contrabbando o per compiere imboscate in territorio israeliano.
Dopo l’imposizione dell’embargo israeliano a Gaza nel 2007, i tunnel cominciarono a svilupparsi enormemente, in particolare quelli costruiti da Hamas a scopo militare, che avevano muri in cemento, sistemi di ventilazione e reti di comunicazione.
Questa rete di tunnel, a cui si aggiunsero veri e propri bunker, alcuni dei quali scavati anche a 50 metri di profondità (allo scopo di resistere ai bombardamenti più violenti), è divenuta famosa come “la metro di Gaza”.
Israele sostiene che alcuni fra i bunker più importanti si trovino proprio sotto l’ospedale al-Shifa, il più grande della Striscia, e fa capire che presto o tardi neanche questa struttura ospedaliera sarà risparmiata dalle operazioni militari.
Ad ogni modo, la conoscenza di questa estesa e sofisticata rete di tunnel, da parte delle forze armate israeliane, sembra essere tuttora alquanto limitata. Ma a Tel Aviv vi è la crescente consapevolezza che Hamas l’abbia concepita con l’obiettivo di resistere all’interno di questi tunnel per mesi.
Il fattore tempo
In questa devastante guerra asimmetrica, mentre l’obiettivo dichiarato di Israele è quello di assassinare o catturare l’intera leadership del gruppo palestinese, di uccidere i responsabili dell’attacco del 7 ottobre, e di distruggere il potenziale militare dell’organizzazione e la sua capacità di governare la Striscia, per Hamas l’obiettivo è semplicemente resistere: emergere dai tunnel con una struttura ancora funzionante infliggerebbe un ulteriore colpo al prestigio militare di Israele già intaccato dall’attacco del 7 ottobre.
L’estrema violenza della campagna israeliana obbliga Tel Aviv a una corsa contro il tempo: si tratta di debellare Hamas prima che le pressioni internazionali, provocate dall’orrore per la drammatica situazione umanitaria di Gaza, giungano al punto di spingere Washington, il principale protettore di Israele, a ritirare il proprio appoggio all’operazione, obbligando il governo israeliano a capitolare.
Washington sostiene Israele non solo politicamente, ma con l’invio di armi e con lo schieramento di un’impressionante forza navale nel Mediterraneo al fine di scongiurare l’intervento nel conflitto degli alleati regionali di Hamas (Hezbollah e altre milizie filo-iraniane).
Ma a causa del doppio standard applicato alle due crisi internazionali nelle quali sono impegnati (Gaza e Ucraina), gli Stati Uniti vedono franare la propria credibilità soprattutto di fronte a quei paesi del sud del mondo che la Casa Bianca vorrebbe sottrarre alla sfera di influenza di Cina e Russia.
Americani ed israeliani si trovano in una situazione paradossale: per gestire la Striscia nella fase post-bellica, stanno cercando la cooperazione dei paesi arabi, quegli stessi paesi – primo fra tutti l’Egitto – dei quali si stanno alienando le simpatie portando avanti una azione militare così distruttiva.
Il governo israeliano, dal canto suo, deve anche fare i conti con le pressioni delle famiglie degli ostaggi in mano a Hamas e alle altre organizzazioni armate della Striscia. Tali famiglie in massima parte preferirebbero un negoziato con i rapitori ad un’operazione militare devastante e rischiosa nella quale i loro cari potrebbero finire uccisi.
Per il momento gli Stati Uniti, pur dichiarandosi favorevoli all’introduzione di “pause umanitarie”, si sono detti contrari ad un cessate il fuoco. Ma il segretario di stato Antony Blinken ha dovuto subire critiche e umiliazioni da parte dei partner regionali di Washington in occasione dei suoi ripetuti viaggi in Medio Oriente.
Ad eccezione di Qatar e Turchia, i regimi della regione non vedono di buon occhio Hamas. La loro irritazione nei confronti di USA e Israele non è dovuta tanto all’angoscia per ciò che avviene in Palestina, quanto ai timori per ciò che potrebbe accadere in casa loro se il conflitto dovesse prolungarsi.
Nessuna proposta credibile
Vi sono poi divergenze fra Washington e Tel Aviv sui possibili scenari post-bellici. Il premier israeliano Netanyahu ha recentemente dichiarato che Israele dovrà assumersi la responsabilità della sicurezza a Gaza, “perché abbiamo visto cosa succede quando non ce l’abbiamo” (salvo poi tornare parzialmente sui propri passi).
Dal canto suo, la Casa Bianca ha più volte ribadito di essere contraria ad una rioccupazione di Gaza, per i rischi e i costi che ne deriverebbero. Alla riunione dei ministri degli esteri del G7 a Tokyo, Blinken ha cercato di rassicurare la platea mediorientale ed internazionale affermando che gli elementi chiave di una soluzione per la Striscia dovrebbero includere: “nessun trasferimento forzato dei palestinesi da Gaza, né ora né dopo la guerra, […] nessuna rioccupazione di Gaza dopo la guerra, nessun tentativo di sottoporre Gaza ad un embargo o ad un assedio, e nessuna riduzione del territorio di Gaza”.
L’amministrazione Biden preferirebbe vedere il ritorno nella Striscia dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) del presidente Mahmoud Abbas. Ma l’ANP è debole e corrotta, da tempo sull’orlo del collasso perfino in Cisgiordania, e certamente sarebbe vista a Gaza come uno strumento nelle mani di USA e Israele.
Lo stesso Abbas, pur offrendo a Blinken la propria disponibilità a prevedere un ritorno dell’ANP nella Striscia, ha chiarito che ciò sarà possibile solo “nel quadro di una soluzione politica complessiva”, ovvero di un percorso finalizzato alla soluzione dei due stati – un’ipotesi irrealizzabile, sia per l’opposizione del governo Netanyahu, sia per la massiccia presenza di insediamenti e coloni israeliani in Cisgiordania, dove i palestinesi sono ormai costretti a vivere in 167 enclave separate fra loro.
Nessun orizzonte rassicurante
Le stesse parole pronunciate a Tokyo da Blinken non costituiscono una garanzia: i fatti sul terreno sono altri.
Israele sta effettivamente spopolando la parte settentrionale di Gaza, concentrando la popolazione nel sud. E la prospettiva di un ritorno a casa dei residenti del nord potrebbe non concretizzarsi. L’area settentrionale potrebbe essere parzialmente annessa o trasformata in una zona militare.
Col passare del tempo, la pressione demografica al confine con l’Egitto potrebbe crescere a tal punto da provocare la ridislocazione di almeno una parte della popolazione nel Sinai.
Hamas, una vasta e complessa organizzazione che ha un’ala militare, un’ala politica e un’ala amministrativa (per citare solo le sue componenti più estese e radicate) forse cambierà a seguito della perdita di numerosi combattenti e del licenziamento di molti amministratori, ma probabilmente non svanirà.
Se Hamas non sarà smantellata, o considerevolmente ridimensionata, la Striscia potrebbe essere sottoposta ad un embargo ancora più duro di quello subito fino allo scoppio dell’attuale conflitto.
Lo stesso panorama politico interno in Israele è profondamente lacerato. Vi sono divisioni nell’apparato militare e nell’establishment politico. Netanyahu è fortemente impopolare. Ciò aggiunge incognite al quadro complessivo.
Un’occupazione militare di Gaza, secondo alcune stime, potrebbe richiedere il dispiegamento di 40.000 soldati per diversi anni. Ciò avrebbe l’effetto di “saturare” le capacità dell’esercito israeliano e costituirebbe un peso enorme per l’economia di Israele.
Una gestione internazionale della Striscia appare altrettanto problematica, visto che i paesi limitrofi non vogliono assumersi questo compito temendo un trasferimento di fatto della questione palestinese sulle loro spalle.
Che Israele si assuma la responsabilità di Gaza o meno, i bisogni della popolazione della Striscia saranno immensi, richiedendo un imponente piano di ricostruzione.
In tutti questi scenari, talvolta incompatibili fra loro, la Striscia rimarrà una polveriera, un concentrato di povertà e disperazione ancor più di quanto non lo sia stata in passato, e una permanente fonte di instabilità.
E prima ancora che alcuni di questi scenari si concretizzino, il prolungarsi e l’inasprirsi delle operazioni belliche (il cui esito, bisogna ricordarlo, rimane incerto) continua a mantenere elevato il rischio di un’escalation al confine settentrionale con il Libano, e di una propagazione del conflitto a livello regionale.
Chissà cosa dirà
domani Nasrallah,
il capo di Hezbollah?
(Scusate, ma non ho resistito a fare le rime!)
I’m a student who has recently come back from a solo trip to front line Ukraine. I’ve just published a new piece on my experiences and thought readers here may appreciate it. Please do see what you think. https://irongoose.substack.com/