Hamas: la storia che in Occidente non si può raccontare
L’ascesa con il sostegno di Israele, la vittoria elettorale del 2006, il tentato golpe americano ai suoi danni e la frattura palestinese, la prigione di Gaza, la demonizzazione del movimento.
Dopo il sanguinoso attacco di Hamas del 7 ottobre scorso, una componente chiave della propaganda di guerra condotta dai media e dalla classe politica in Israele, ma anche in alcuni paesi occidentali, è stata il tentativo di dipingere il gruppo islamico palestinese come un equivalente dell’ISIS.
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha riproposto più volte questa analogia, affermando che “così come le forze della civiltà si sono unite per sconfiggere l’ISIS, esse devono appoggiare Israele nello sconfiggere Hamas”.
Quella di Netanyahu è una formulazione non nuova – visto che già all’Assemblea generale dell’ONU del 2014 egli aveva affermato che “Hamas è l’ISIS e l’ISIS è Hamas” – ma sembra aver assunto una valenza ulteriore nei giorni scorsi.
Il segretario alla Difesa USA Lloyd Austin ha definito “peggiore dell’ISIS” ciò che Hamas ha compiuto il 7 ottobre, mentre il presidente francese Emmanuel Macron ha addirittura suggerito che la coalizione internazionale creata per combattere l’ISIS venisse estesa alla lotta contro Hamas.
In altre circostanze, come ad esempio in occasione di una recente conferenza stampa assieme al cancelliere tedesco Olaf Scholz, Netanyahu ha invece definito Hamas “i nuovi nazisti”, aggiungendo che la ferocia mostrata dal gruppo “ci ricorda i crimini nazisti durante l’Olocausto”.
Demonizzazione, decontestualizzazione, destoricizzazione
Questa retorica è stata poi ulteriormente estremizzata e generalizzata per accusare non più solo un gruppo armato (che tuttavia è anche un movimento politico), ma un intero popolo. Il presidente israeliano Isaac Herzog ha dato l’esempio sostenendo che “è un’intera nazione che è responsabile; questa retorica sui civili inconsapevoli, non coinvolti, è assolutamente falsa”.
Il ministro della difesa Yoav Gallant si è spinto a dire che “stiamo combattendo animali in forma umana e agiremo di conseguenza”, annunciando quindi un “assedio completo” della Striscia di Gaza. “Non ci sarà né elettricità, né cibo, né carburante, ogni cosa è sospesa”.
Dal canto suo, il senatore americano Lindsey Graham ha invocato la completa distruzione di Gaza: “Qui siamo in una guerra di religione. Io sto con Israele. Fate tutto ciò che diavolo dovete fare per difendervi. Radete al suolo il posto”.
Questa esasperazione retorica naturalmente è servita a giustificare la violentissima reazione militare di Israele, ma anche ad offuscare una realtà storica molto più complessa e articolata della rappresentazione binaria offerta da simili dichiarazioni.
Così come avvenuto per il conflitto ucraino, in Occidente (come in Israele) si è teso a decontestualizzare e destoricizzare il cruento attacco di Hamas del 7 ottobre, rimuovendo dalla narrazione l’intera questione palestinese, e descrivendo il movimento che governa Gaza esclusivamente come un gruppo di terroristi sanguinari, paragonabili appunto all’ISIS o ai nazisti.
Lungi dal difendere Hamas, o dal giustificare la sua feroce azione del mese scorso, ciò che questo articolo vorrebbe tentare di fare è recuperare la verità storica, poiché solo partendo da essa, e da una comprensione delle radici dell’attuale conflitto, si può sperare di giungere ad una risoluzione di quest’ultimo.
Hamas non è l’ISIS
Come ha scritto il critico e autore ebreo americano Adam Shatz, “per quanto Israele si sforzi di dipingerlo come la branca palestinese dello Stato Islamico, e per quanto violento e reazionario, Hamas è un’organizzazione islamica nazionalista, non un culto nichilistico, ed è parte della società politica palestinese; esso si nutre della disperazione prodotta dall’occupazione, e non può essere semplicemente liquidato, così come non possono essere liquidati i fanatici fascisti nel governo Netanyahu”.
Lo storico israeliano Itzchak Weismann ha sottolineato che, sebbene vi sia una tendenza a dire che Hamas sia come l’ISIS, ciò non è vero. Weismann ha osservato come il movimento islamico palestinese abbia “cercato di essere inclusivo di tutta la popolazione di Gaza”, tollerando gli altri gruppi religiosi nella Striscia.
E Aaron Zelin, esperto di movimenti jihadisti presso il Washington Institute for Near East Policy, ha giustamente rilevato che l’ISIS letteralmente considera Hamas come un gruppo apostata a causa dei suoi legami con il regime sciita in Iran.
A differenza di Hamas, infatti, l’ISIS è un movimento estremamente settario che, oltre a non tollerare religioni diverse dall’Islam, considera eretici anche i seguaci di confessioni musulmane – come lo sciismo – che non corrispondono alla sua visione wahhabita e intransigente dell’Islam.
Lotta contro la dominazione coloniale
Hamas emerse ufficialmente nel 1987 dalla branca locale dei Fratelli Musulmani (Al-Ikhwan al-Muslimun), a loro volta costituitisi a Gaza nel 1946. Essi erano una derivazione della Fratellanza Musulmana egiziana, fondata da Hassan al-Banna (un insegnante) nel 1928. Al-Banna intendeva dar vita a un movimento popolare che combinasse l’anelito ad una rigenerazione morale dell’Islam egiziano con la lotta contro il dominio coloniale britannico.
Praticamente in quegli stessi anni, cresceva nella Palestina mandataria l’opposizione popolare alle politiche britanniche volte a promuovere l’immigrazione ebraica di massa. Tali politiche erano in linea con la scelta di Londra, formulata nella famosa dichiarazione di Balfour del 1917, di favorire la nascita di un “focolaio nazionale ebraico” in Palestina.
Fu nel novembre del 1935 che uno sheikh di Haifa, Izz al-Din al-Qassam, lanciò la prima operazione di guerriglia contro gli inglesi in Palestina. La sua morte in battaglia fu uno dei fattori scatenanti della “Grande rivolta araba” che si protrasse in Palestina dal 1936 al 1939. E fu da lui che, molti anni più tardi, presero il nome le Brigate Izz al-Din al-Qassam, l’ala militare di Hamas fondata nel 1991.
Durante la guerra del 1948 che portò alla nascita dello stato di Israele, le forze israeliane bombardarono 29 villaggi nella Palestina meridionale, spingendo decine di migliaia dei loro abitanti a fuggire nella Striscia di Gaza, finita sotto il controllo dell’esercito egiziano dopo che Israele aveva dichiarato l’indipendenza.
Ancora oggi, circa il 70% di coloro che vivono nella Striscia proviene da famiglie sfollate nella guerra del 1948.
La lenta ascesa dei Fratelli Musulmani
Sotto la dominazione egiziana, la Fratellanza Musulmana di Gaza fu decimata dalla repressione, soprattutto durante la presidenza di Gamal Abdel Nasser, che al Cairo fece anche arrestare e poi impiccare Sayyid Qutb, il leader e ideologo dei Fratelli Musulmani egiziani.
Fu in questo quadro di esclusione forzata dalla lotta politica che emerse la figura di Ahmed Yassin, un insegnante del campo profughi di Shati, a Gaza City, ridotto fin da giovane su una sedia a rotelle da un grave incidente. Yassin mantenne il basso profilo dell’organizzazione anche sotto l’occupazione israeliana succeduta al controllo egiziano nel 1967.
Nei quattro anni successivi, Israele procedette, sotto la guida del generale Ariel Sharon, a schiacciare la resistenza palestinese condotta da altri gruppi nella Striscia. Mentre la brutale repressione israeliana procedeva con uccisioni, arresti e deportazioni forzate, Yassin costruiva pazientemente una rete di attività sociali e caritatevoli riunite sotto il nome di Al-Mujamma’ al-Islami (“Raggruppamento islamico”).
Per l’amministrazione israeliana, l’obiettivo divenne quello di indebolire il fronte palestinese nazionalista incoraggiando l’alternativa islamica, che godette di una “benevola tolleranza”. Diversi leader della Mujamma’ (Abdelaziz Rantissi, Mahmoud Zahar, Abdelfattah Dukhan, Ibrahim Yazuri), tutti devoti seguaci di Sheikh Yassin, sarebbero passati alla guida di Hamas quindici anni più tardi.
Il nemico ideale
Nel 1979, sempre allo scopo di fiaccare l’opposizione nazionalista palestinese, Israele riconobbe ufficialmente la Mujamma’, e successivamente non intervenne negli scontri che la videro contrapporsi dapprima alle fazioni comuniste palestinesi e poi allo stesso movimento Fatah di Yasser Arafat.
Israele addirittura finanziò direttamente e indirettamente l’organizzazione, ed approvò la fondazione dell’Università islamica di Gaza (che più tardi avrebbe considerato un obiettivo degno di essere bombardato).
Con lo scoppio della prima Intifada nel dicembre 1987, tuttavia, Yassin decise di abbandonare la condotta degli anni precedenti, aderendo alla rivolta contro Israele e acquisendo un’identità maggiormente nazionalista. Vide così la luce il Movimento di resistenza islamica, Hamas.
Anche negli anni successivi, malgrado gli attacchi terroristici compiuti dal gruppo palestinese, esso fu segretamente appoggiato dall’intelligence israeliana. L’idea coltivata dalle componenti più reazionarie dell’establishment israeliano era che l’ascesa del gruppo avrebbe sabotato qualsiasi processo di pace, risparmiando ad Israele la necessità di fare “concessioni dolorose”.
Questa idea fu abbracciata dallo stesso Netanyahu, il quale nel marzo 2019 disse ai deputati del suo partito (il Likud) che “chiunque voglia ostacolare la creazione di uno stato palestinese deve appoggiare il rafforzamento di Hamas e il trasferimento di denaro a Hamas”, aggiungendo che “ciò fa parte della nostra strategia, isolare i palestinesi di Gaza dai palestinesi in Cisgiordania”.
Hamas e lo “stato civile”
In quanto movimento figlio dei Fratelli Musulmani, Hamas ne condivide sostanzialmente l’ideologia sebbene abbia seguito una propria evoluzione indipendente. A differenza dell’ISIS, Hamas non legge i testi sacri dell’Islam in maniera letterale, ma consente l’ijtihad, ovvero lo “sforzo interpretativo” e l’uso della discrezionalità.
Al pari della Fratellanza Musulmana, Hamas non abbraccia la visione dello stato religioso, bensì di uno “stato civile” fondato sul rispetto del generale “sentire musulmano” della popolazione, sul principio di responsabilità e sul pluralismo politico.
Paradossalmente, è proprio questa una delle principali ragioni per cui il movimento non è benvisto dai regimi autocratici arabi, ed in particolare dalle monarchie del Golfo (ad eccezione del Qatar). In linea di principio, Hamas ha infatti una concezione di statualità che è antagonistica a quella di tali regimi.
A differenza dell’ISIS, Hamas ha adottato tattiche terroristiche e di lotta armata solo contro l’occupazione israeliana, ma ha seguito anche metodi di lotta nonviolenta, come nel caso della sua partecipazione alla “marcia del ritorno” del 2018, che fu anch’essa repressa nel sangue da Israele (214 palestinesi uccisi, fra cui 46 bambini, ma soprattutto oltre 36.000 feriti, molti dei quali hanno subito danni permanenti e amputazioni a causa dell’impiego da parte israeliana di pallottole a espansione).
Inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche internazionali da USA ed Europa dopo l’attacco dell’11 settembre 2001 (col quale evidentemente non aveva rapporti), il movimento fu addirittura oggetto di una temporanea sentenza della Corte generale dell’Unione Europea che chiedeva la sua rimozione da tale lista.
Nella vita politica palestinese il movimento non ha di certo seguito sempre pratiche democratiche. Ma lo stesso si può dire purtroppo dei suoi avversari politici laici. La sua scelta di non partecipare alle elezioni dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) del 1996 fu dettata dall’opposizione agli accordi di Oslo che l’avevano istituita, e non da un rifiuto del principio elettorale.
Hamas avrebbe infatti poi preso parte alle consultazioni legislative del 2006 a seguito del dialogo interno palestinese culminato nella Dichiarazione del Cairo, e successivamente al ritiro unilaterale israeliano da Gaza nel 2005 e alla de-escalation della seconda Intifada.
Una disastrosa esperienza elettorale
Hamas cercò di presentarsi agli elettori palestinesi come una valida alternativa politica, in grado d salvare l’ANP dalla corruzione, dalle sue politiche fallimentari, e dagli alti livelli di disoccupazione.
Nel gennaio 2006, il movimento si affermò alle elezioni ottenendo il 44,45% dei voti e vincendo di misura sul rivale Fatah che si era fermato al 41,43%. Si trattò in gran parte di un voto di protesta, contro Fatah, contro la corruzione e il nepotismo, contro il fallimento del processo di pace iniziato nel 1993.
Paradossalmente, lo stesso presidente americano George W. Bush salutò positivamente l’esito elettorale: “C’è stato un processo pacifico, visto che la gente è andata alle urne, e questo è positivo […] ovviamente la gente non era contenta dello status quo, la gente chiede un governo onesto”.
Ma nell’amministrazione USA vi era disappunto per il fatto che quella che gli Stati Uniti consideravano un’organizzazione terroristica, la quale non riconosceva Israele, avesse ricevuto una legittimazione democratica.
Il Quartetto (composto da USA, Gran Bretagna, Russia e ONU) – che aveva il compito di supervisionare la “road map” lanciata dallo stesso Bush nel 2002 per arrivare alla soluzione dei due stati – poneva tre condizioni per partecipare ai negoziati internazionali: il riconoscimento di Israele, l’accettazione di tutti gli accordi precedentemente firmati da israeliani e palestinesi, e la rinuncia al ricorso alla violenza per perseguire fini politici.
Dopo la vittoria elettorale, Hamas affermò che era disposto a rispettare un cessate il fuoco a lungo termine con Israele. La sua partecipazione alle elezioni dell’ANP poteva inoltre essere considerata un’accettazione di fatto degli accordi di Oslo (in base ai quali l’ANP si era costituita).
La componente più moderata del movimento, poi, fece capire che “non si opponeva” all’iniziativa di pace araba del 2002, che prevedeva il riconoscimento di Israele sulla base del principio “terra in cambio di pace”, ovvero della rinuncia di Israele ai territori occupati in modo da consentire la nascita di uno stato palestinese. Il riconoscimento di Israele da parte di Hamas sarebbe però giunto solo qualora lo stato ebraico avesse a sua volta riconosciuto i diritti dei palestinesi.
Il Quartetto, insieme ad Israele, considerò tuttavia queste posizioni come “ostili”, invece che come un passo verso una maggiore moderazione. Esso perciò tagliò il sostegno finanziario all’ANP. Israele dal canto suo cominciò a trattenere le entrate fiscali palestinesi, che in base agli accordi di Oslo venivano raccolte dallo stato ebraico per conto dell’Autorità palestinese e poi trasferite a quest’ultima.
Siccome questi introiti costituivano circa metà del budget dell’ANP, la decisione israeliana ebbe conseguenze drammatiche per il governo e l’economia palestinesi. Nei primi mesi dopo le elezioni, inoltre, Israele arrestò circa un quarto dei membri del neoeletto parlamento, con l’accusa di appartenere a un’organizzazione terroristica.
Tra il 2006 e il 2007, Israele ed Egitto inasprirono anche le misure di chiusura dei confini di Gaza, in realtà rimasti sotto il controllo israeliano anche dopo il ritiro del 2005.
Tentato golpe americano
Nella speranza di porre fine all’embargo, Hamas cercò di costituire un governo di unità nazionale con Fatah, che vide la luce nel febbraio 2007. Tuttavia i paesi occidentali e l’ONU decisero di avere rapporti solo con i membri di Fatah del nuovo esecutivo.
Gli Stati Uniti, inoltre, cominciarono a fornire all’ANP decine di milioni di dollari per rafforzare militarmente le forze di sicurezza leali al presidente dell’Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, e controllate dal suo “uomo forte” Muhammad Dahlan.
L’obiettivo dell’amministrazione Bush era mettere in grado Fatah di schiacciare militarmente Hamas. Quest’ultimo, anticipando le mosse di Dahlan, cacciò le forze di Fatah ed impose il proprio controllo esclusivo sulla Striscia di Gaza.
Fatah, a sua volta si impadronì della Cisgiordania consumando così la frattura tra i due territori palestinesi, controllati ormai da due amministrazioni distinte e tra loro nemiche.
Assedio
Il 19 settembre 2007, Israele dichiarò che Gaza era divenuta un “territorio ostile” e , con l’appoggio del presidente egiziano Hosni Mubarak, inasprì ulteriormente l’assedio della Striscia.
A causa dell’embargo imposto da Israele, e del controllo totale che Tel Aviv continua ad esercitare sui confini terrestri e marittimi, sullo spazio aereo, e su molte delle infrastrutture e delle necessità primarie di Gaza (movimento di beni e persone, approvvigionamento alimentare, idrico, elettrico, ecc.), la Striscia viene tuttora considerata, da diverse organizzazioni internazionali (inclusa l’ONU) e dal Dipartimento di stato USA, un territorio sottoposto all’occupazione israeliana.
L’embargo israeliano è ritenuto, dall’ONU e da organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International, una forma di punizione collettiva in violazione del diritto internazionale.
A causa di esso, Gaza è un’enclave con un tasso di povertà al 53% e un tasso di disoccupazione al 70%. Gli abitanti della Striscia sono mediamente giovanissimi, con quasi metà della popolazione al di sotto dei 18 anni.
Ciò significa che la maggior parte dei residenti di Gaza erano bambini, o non erano neanche nati, quando si svolsero le elezioni del 2006. L’affermazione di alcuni, in Israele e in Occidente, secondo cui i palestinesi della Striscia sarebbero “colpevoli” di aver votato Hamas, è pertanto falsa.
I residenti di Gaza non hanno sufficiente acqua potabile né servizi igienico-sanitari adeguati. Devono fare i conti con interruzioni della fornitura elettrica che vanno dalle 12 alle 18 ore al giorno. Senz’acqua ed elettricità, il fragile sistema sanitario della Striscia era sempre sull’orlo del collasso, ancor prima dell’attuale brutale invasione.
Ai limitati e infrequenti attacchi di Hamas, Israele ha sempre risposto con una forza militare sproporzionata ed esorbitante. In particolare, Tel Aviv aveva lanciato quattro campagne militari su vasta scala fino allo scorso 7 ottobre: nel 2008-2009, nel 2012, nel 2014 e nel 2021.
Queste guerre hanno ucciso 4.000 palestinesi, in grande maggioranza civili, a fronte di 106 israeliani. Secondo stime ONU, esse hanno provocato danni per 5 miliardi di dollari alle abitazioni, all’agricoltura, all’industria, alle infrastrutture.
Ciascuno di questi conflitti è terminato con fragili cessate il fuoco, ma senza alcuna prospettiva di pace reale. I cicli di violenza hanno continuato a ripetersi, con Israele pronta a imporre la propria “deterrenza” contro il lancio di razzi da parte di Hamas e delle altre fazioni armate della Striscia, e Hamas il quale risponde che anche quando i gruppi palestinesi rispettano il cessate il fuoco Israele continua ad attaccarli ed a perpetuare l’embargo.
Israele ha anche rifiutato l’offerta di Hamas di una tregua a lungo termine in cambio della fine dell’assedio.