Picconate sulla globalizzazione
Colpendo economicamente Russia e Cina, gli USA sembrano determinati a smantellare l’attuale ordine globalizzato pur di preservare la propria residua egemonia.
La persuasione che la competizione fra grandi potenze sia un gioco a somma zero ispira le scelte dell’élite politica americana e della componente atlantista di quella europea.
In base a questa visione, gli Stati Uniti e i loro alleati nel vecchio continente (in posizione molto subordinata, a dir la verità) devono compiere ogni sforzo per preservare l’egemonia americana ed occidentale su un mondo sempre più insofferente ai diktat di Washington.
Questa sfida, vista come esistenziale, giustifica agli occhi della classe politica occidentale il ricorso a ogni mezzo, dall’ambito militare a quello economico.
Se nel campo militare abbiamo visto che USA ed alleati europei sono disposti a rischiare una pericolosa escalation con Mosca pur di “dissanguare” la Russia in Ucraina, la guerra senza quartiere contro gli “avversari designati” dell’Occidente (Russia e Cina, in primo luogo) non può non coinvolgere anche la sfera economica.
La globalizzazione è un sistema ingiusto, fondato sullo sfruttamento della manodopera e delle materie prime dei paesi più poveri, che però ha anche minimizzato i costi di produzione, e dato lavoro a milioni di persone sollevandole dalla povertà assoluta.
Semplificando, essa è stata storicamente fondata su due poli: la Cina, la cosiddetta “fabbrica del mondo”, e gli Stati Uniti, il centro del sistema finanziario globale ed il mercato di consumo di ultima istanza.
Ritrovandosi incapaci di competere in questo sistema da essi stessi creato, gli USA hanno deciso di smantellarlo, invece di correggerne gli squilibri. Unico obiettivo dell’élite americana è preservare l’egemonia di Washington. A qualunque costo.
Sebbene le strutture dell’economia globalizzata si siano dimostrate ben più radicate di quanto gli strateghi di Washington avevano forse immaginato, nei loro piani l’offensiva economica che essi intendono lanciare contro Mosca e Pechino sarà infine destinata a stravolgere il volto della globalizzazione come oggi lo conosciamo.
La scorsa settimana ha segnato una nuova tappa di questa guerra senza quartiere. I dazi europei sulle auto elettriche cinesi stanno per aggiungersi a quelli americani, ed altri ne arriveranno.
Gli Stati Uniti hanno introdotto un nuovo durissimo pacchetto di sanzioni contro i settori finanziario, energetico e tecnologico della Russia.
E il G7 ha deciso di destinare 50 miliardi di dollari in aiuti all’Ucraina sfruttando i proventi derivanti dai 300 miliardi di riserve russe congelate in Occidente.
La Russia come l’Iran
Due anni dopo che alla Banca centrale russa erano state vietate le transazioni in dollari, la Borsa di Mosca e le sue controllate, il National Clearing Center e il National Settlement Depository, sono state aggiunte alla lista delle entità sanzionate.
Di fatto isolata dal sistema finanziario globale in dollari, la Borsa di Mosca è stata costretta a sospendere le transazioni in dollari e in euro, a tutto vantaggio dello yuan cinese.
In Russia le transazioni in dollari ed euro avverranno ora direttamente fra venditori e acquirenti, attraverso il sistema bancario, al cui interno molti operatori sono però a loro volta sottoposti a sanzioni.
La differenza tra il prezzo di acquisto e quello di vendita di dollari ed euro, di conseguenza, è aumentato. E i prezzi dei beni importati cresceranno a causa dei sistemi più complessi – e costosi – necessari ad aggirare le sanzioni. Come risultato, la Banca centrale avrà più difficoltà a contrastare l’inflazione.
Le nuove sanzioni stanno definitivamente trasformando lo yuan nella principale valuta estera di scambio in Russia. Già a maggio la sua percentuale nelle transazioni di cambio aveva raggiunto il 53,6%, sebbene il sistema sanzionatorio influisca anche sugli scambi in yuan.
Le grandi banche cinesi connesse al sistema finanziario globale devono infatti guardarsi dal rischio di sanzioni secondarie. Il loro posto viene preso da intermediari locali, da banche regionali, o da istituzioni create apposta per lavorare con la Russia.
Sia Mosca che Pechino hanno mostrato grande capacità di adattamento alle sanzioni, sebbene Washington cerchi continuamente di stringerne le maglie. In poco più di due anni di guerra, è emerso un intero sistema di intermediari in varie giurisdizioni, sono stati sviluppati schemi per ristabilire le catene di fornitura colpite dalle sanzioni, e i pagamenti in yuan e rubli sono stati effettuati ricorrendo a istituzioni locali.
In Occidente c’è chi sostiene che le nuove sanzioni avrebbero potuto mettere in subbuglio l’economia russa solo se fossero state introdotte subito, all’inizio del 2022.
Nel frattempo, l’intero mondo non occidentale ha guardato con crescente sconcerto alla trasformazione, da parte americana, del sistema finanziario globale in un’arma con cui punire gli avversari politici di Washington.
Dall’Asia all’America Latina, molti paesi guardano con aumentato interesse alla creazione di strumenti finanziari che possano metterli al riparo da eventuali misure coercitive americane fondate sull’egemonia internazionale del dollaro.
Sebbene quest’ultima sia concepita in maniera tale da favorire la sua autoconservazione, un lento processo di “dedollarizzazione” dell’economia mondiale sta gradualmente prendendo piede.
Le sanzioni secondarie e l’esclusione delle banche russe dal sistema di pagamenti dello SWIFT si sono dimostrate un potente incentivo allo sviluppo di sistemi alternativi come il Cross-Border Interbank Payment System (CIPS) cinese, e più in generale alla progressiva frammentazione del sistema finanziario globale.
Le riserve estere di Mosca nel mirino
Washington, tuttavia, non sembra voler trarre insegnamento dalla progressiva debilitazione di uno dei principali strumenti della sua egemonia.
Da mesi, numerosi esponenti dell’establishment americano suggeriscono di confiscare i quasi 300 miliardi di dollari di riserve russe congelate nelle banche occidentali (soprattutto in Europa), per sostenere finanziariamente lo sforzo bellico ucraino contro Mosca – un altro provvedimento che non avrebbe precedenti nella storia del sistema finanziario internazionale.
Le perplessità in proposito sono state formulate soprattutto dagli europei, i quali temono che una simile confisca minerebbe la fiducia internazionale nelle banche del vecchio continente e nel sistema finanziario globale a guida occidentale.
Dal canto suo, Mosca ha promesso misure di rappresaglia contro gli asset americani ed europei in Russia (per un valore stimato di circa 290 miliardi di dollari) nel caso in cui le riserve russe dovessero essere confiscate.
Al G7 della scorsa settimana, i paesi occidentali sono giunti a una soluzione temporanea di compromesso che consiste nel prestare all’Ucraina 50 miliardi di dollari quest’anno, investendo gli interessi derivanti dalle riserve russe congelate per poi ripagare gradualmente il prestito con i profitti ricavati da tali investimenti.
L’esatto contributo dei diversi paesi del G7 al prestito rimane tuttavia da stabilire, insieme ad altri dettagli, e potrebbe ancora incontrare alcune resistenze in Europa e nel Congresso USA.
La misura, inoltre, è destinata a rimanere un mero palliativo alla luce del disastroso stato finanziario in cui versa l’Ucraina, e dovrà essere seguita da finanziamenti ben più corposi se i partner occidentali vorranno evitare la bancarotta di Kiev.
Vi è pertanto chi già sostiene che presto o tardi i 300 miliardi di riserve russe congelate verranno sequestrati comunque, e che in ogni caso non verranno mai restituiti a Mosca a fine conflitto perché le richieste ucraine di compensazione nei confronti della Russia saranno superiori al valore di tali riserve.
Un tale scenario, tuttavia pone rischi a lungo termine per il sistema finanziario globale a guida occidentale. Diversi paesi, temendo per la sicurezza delle proprie riserve in dollari e in euro, potrebbero spostarle al di fuori delle giurisdizioni occidentali convertendole in altre valute, come lo yuan cinese.
Velleitarismo del G7
L’ordine internazionale a guida occidentale sta già perdendo credibilità, avviandosi a diventare un sistema disfunzionale. Organismi come l’ONU, il WTO e il G20 sono paralizzati dai dissensi al loro interno.
Il G7, che negli anni ’70 del secolo scorso determinava oltre il 60% dell’output mondiale, oggi ne rappresenta solo il 44% (appena il 30% se misurato a parità di potere d’acquisto).
Un progetto americano alquanto velleitario ne prevede la riforma, attraverso l’inclusione di Australia e Corea del Sud (per dare più peso all’area del Pacifico), e riservando una maggiore attenzione al Sud del mondo tramite l’introduzione di meccanismi di consultazione con l’Unione Africana, il forum dell’Asia-Pacific Economic Cooperation (APEC), l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN), la Cina, il G20, e l’Organizzazione della Cooperazione Islamica (OIC).
Se n’è discusso la scorsa settimana alla riunione del G7 in Puglia. Difficile, ad ogni modo, che un simile progetto vada molto lontano.
Il cinese Global Times lo ha definito uno strumento nelle mani di Washington, attraverso il quale la Casa Bianca “punta a massimizzare i propri interessi” spingendo gli altri membri del gruppo “a sopportare rischi e a sacrificare i propri interessi nazionali” per collaborare con i progetti americani.
Il francese Le Monde ha osservato che il G7 è ormai un raggruppamento di nazioni “indebolite”, guidate da leader spesso delegittimati, come il premier britannico Rishi Sunak, dato perdente alle imminenti elezioni, o come il presidente francese Emmanuel Macron, uscito sconfitto dalle consultazioni europee, e che potrebbe subire un’ulteriore disfatta alle elezioni anticipate appena indette.
Le economie del G7 continuano ad attraversare una fase di sostanziale stagnazione. Quella americana, la migliore del gruppo, nell’ultimo trimestre del 2023 ha registrato una crescita dello 0,9%, ridottasi allo 0,3% nel primo trimestre di quest’anno.
Gli altri membri del gruppo oscillano fra stagnazione e recessione.
Guerra economica a Pechino dopo le presidenziali di novembre
Per contrastare il successo di Pechino (alleato di Mosca e vero avversario degli USA) nelle esportazioni, gli Stati Uniti e i loro alleati europei hanno imposto sanzioni e dazi ai prodotti cinesi.
La conseguenza è che la Cina ha guadagnato quote nei mercati del Sudest asiatico, dell’America Latina e della Russia.
Ma la guerra dei dazi è appena all’inizio. Essa probabilmente registrerà una nuova fiammata dopo le presidenziali americane di novembre.
A prescindere da chi vincerà quelle consultazioni, sia Trump che Biden sembrano intenzionati a fare pieno uso delle armi economiche a disposizione degli Stati Uniti.
Sul fronte economico internazionale, la differenza tra i due candidati appare minima. Entrambi soffrono per la perdita d’influenza americana a causa dell’ascesa dell’Asia, e in particolare della Cina, che tutti e due considerano il rivale da battere.
Ed entrambi sembrano intenzionati a ricorrere a strumenti protezionistici per ristabilire la supremazia statunitense, a costo di smantellare il sistema globalizzato che gli USA stessi avevano costruito.
E’ anche interessante notare che, lanciando la propria personale guerra dei dazi, ciascuno di loro si è concentrato soprattutto su un settore industriale tipico del secolo scorso: per Trump si è trattato dall’acciaio, per Biden dell’industria automobilistica.
Nella guerra dei microchip, che invece riguarda chiaramente il futuro, le misure coercitive degli USA sembrano aver avuto un effetto controproducente, stimolando la crescita di un’industria cinese autoctona che sta rapidamente prendendo il passo di quella occidentale.
Ci si può aspettare che la Cina risponda in maniera moderata alla prossima guerra dei dazi USA, continuando a incoraggiare il libero commercio sul resto della scena globale. Se tuttavia altri paesi dovessero seguire l’esempio americano, adottando politiche di dazi e sussidi, organizzazioni mondiali come il WTO scivoleranno nell’irrilevanza.
Pur di preservare la propria residua egemonia, gli Stati Uniti sembrano pronti anche a distruggere l’attuale ordine internazionale. L’esito di una simile battaglia è incerto.
Gli USA (probabilmente con i loro alleati europei al seguito) finiranno per rimanere ai margini del nuovo sistema multipolare emergente, a meno che non riescano a far implodere l’intero ordine globalizzato.
Comunque andrà, l’Occidente un tempo egemone rischia di pagare un prezzo molto alto.