L’implosione della Siria – parte II
Il paese potrebbe avviarsi verso uno “scenario libico”, aggravato da un contesto regionale caratterizzato da una crescente disgregazione, sul quale continuano a soffiare minacciosi venti di guerra.
Il presente articolo, sebbene possa essere letto in maniera indipendente, costituisce la seconda parte del pezzo “Dal fragile cessate il fuoco in Libano alla guerra in Siria – parte I”, consultabile al seguente link.
Vittima di un’offensiva partita dal nordovest della Siria, Damasco è caduta incredibilmente a poco più di dieci giorni dall’inizio di tale campagna. Gli eventi che hanno portato a questa svolta epocale presentano tuttora punti oscuri, ma se ne può tentare una parziale ricostruzione sulla base dei dati fin qui a disposizione.
Un pericoloso vuoto geopolitico si era aperto nel paese a causa di un governo fiaccato da anni di guerra e di sanzioni, privato delle risorse energetiche delle regioni orientali (sotto il controllo curdo e americano), e logorato da corruzione e lacerazioni interne.
Questo vuoto era stato ulteriormente accentuato dal conflitto regionale scatenato dalla crisi di Gaza, che ha messo in difficoltà i principali alleati di Damasco: l’Iran, le cui forze erano state ripetutamente colpite da Israele proprio in Siria, e Hezbollah, alle prese con la violentissima campagna militare israeliana in Libano.
La Russia, che aveva salvato il governo del presidente Bashar al-Assad intervenendo militarmente nel paese nel 2015, era a sua volta impegnata nella guerra contro Kiev, il cui esercito è sostenuto dall’intera NATO.
Di questo vuoto hanno approfittato gli avversari locali di Assad, a loro volta appoggiati da alcuni attori internazionali, fra i quali spicca la Turchia.
Alla guida di una galassia di gruppi ribelli il cui orientamento va dall’islamismo militante al jihadismo, Hay’at Tahrir al-Sham (HTS), formazione in precedenza affiliata ad al-Qaeda e apparentemente riconvertitasi ad una forma di Islam nazionalista, ha lanciato un’offensiva il 27 novembre in direzione di Aleppo, seconda città del paese, dalla limitrofa provincia di Idlib.
HTS stava preparando quest’offensiva forse da un paio d’anni, ed ha approfittato delle propizie condizioni regionali e della luce verde concessa dal “patrono” turco dopo il fallimento dei negoziati di riconciliazione fra Ankara e Damasco.
Probabilmente, né HTS né la Turchia si attendevano che questa campagna sarebbe stata coronata da un successo così folgorante.
Aleppo, città liberata dall’esercito siriano nel 2016 grazie all’aiuto determinante di Russia e Iran, era rimasta pericolosamente a poche decine di chilometri dalla linea del fronte di un conflitto solo parzialmente congelato.
Dopo essersi nuovamente impadronita della città con combattimenti alternati ad accordi di mutua non aggressione stipulati con notabili locali, ed avendo sapientemente concesso vie di fuga alle forze armate governative, HTS ha poi puntato su Hama dove queste ultime si erano riposizionate.
Tracollo dell’esercito
Dopo la caduta di Hama, la ritirata dell’esercito si è trasformata in una rotta. Ad eccezione di alcuni corpi speciali, le forze armate siriane, andate praticamente distrutte in lunghi anni di sanguinoso conflitto, erano state ricostituite da reclute male addestrate e sottopagate, integrate da milizie di varia fedeltà, in assenza di un comando centralizzato.
Nei giorni successivi si sono moltiplicati i contatti fra HTS e i vertici dell’esercito, i quali hanno negoziato la loro defezione in cambio di una garanzia di incolumità. La strategica città di Homs è caduta senza combattere.
Ciò ha consentito ad HTS di spezzare i territori sotto il controllo governativo in due tronconi, isolando la capitale Damasco dai rifornimenti provenienti dalle città costiere di Latakia e Tartus (si veda la mappa più in basso).
A questo punto il conflitto era segnato. Già dal 6 dicembre, gruppi armati nel sud del paese avevano annunciato la loro adesione all’offensiva e in poco tempo avevano cacciato le forze governative da Deraa e Suweida, prendendo il controllo del valico di confine con la Giordania e iniziando la marcia verso Damasco.
Secondo alcune fonti, Assad si sarebbe scontrato con i propri comandanti militari, accusandoli di essere corrotti e inaffidabili. Ma ciò sarebbe valso a poco. Contatti si sarebbero instaurati addirittura fra il primo ministro Mohammed Ghazi al-Jalali ed HTS per organizzare la fase di transizione.
Ankara avrebbe svolto un ruolo di mediazione, esortando i ribelli ad agire con moderazione. Mosca, dal canto suo, aveva fornito copertura aerea alle forze armate governative, non riuscendo tuttavia a rallentare il loro ripiegamento, ed aveva avviato contatti negoziali con Ankara (maggiori dettagli più in basso).
Sabato 7 dicembre, quando si sono tenuti a Doha i colloqui del cosiddetto “formato di Astana” che include Iran, Turchia e Russia, la situazione sul terreno era già irrimediabilmente compromessa per Assad.
Intanto nel nordovest della Siria, tre giorni dopo l’inizio dell’offensiva di HTS, l’Esercito Nazionale Siriano (ENS) composto da ribelli sostenuti e finanziati da Ankara, aveva mosso guerra verso est contro le Forze Democratiche Siriane (FDS), coalizione a guida curda.
Al fine di comprendere per quale motivo il conflitto si sia sviluppato essenzialmente lungo due assi, uno nord-sud da Aleppo (e da Deraa, a meridione) verso Damasco, ed uno da nordovest a nordest (condotto dall’ENS contro le FDS), è necessario aver presente la distribuzione della popolazione sul territorio siriano, oltre che la sua composizione etnica. Ce la può fornire questa ottima mappa della Columbia University.
Come si vede, le città più importanti si trovano lungo un asse verticale nella zona occidentale del paese dove sono concentrate le principali minoranze siriane – alawiti (13%), cristiani (10%), drusi (3%) – che costituivano il nerbo del regime di Damasco.
La rimanente popolazione è distribuita lungo il confine settentrionale – dove, frammista alla popolazione araba, si concentra la minoranza curda (9%) – e lungo un asse diagonale che coincide col fiume Eufrate e si spinge fino al confine iracheno a sudest. Il resto del territorio è in gran parte desertico e scarsamente abitato.
Saccheggio e demilitarizzazione della Siria
Giunti nella capitale ormai lasciata sguarnita dall’esercito regolare, i ribelli si sono abbandonati a furti e saccheggi, hanno depredato il palazzo presidenziale, fatto irruzione nella banca centrale, e liberato i detenuti della famigerata prigione di Sednaya.
Essi hanno saccheggiato anche l’ambasciata iraniana, mentre quella russa non è stata toccata. Come vedremo, sia Teheran che Mosca avevano a quel punto avviato contatti con i ribelli, ma le garanzie ottenute dai russi sono state maggiori rispetto a quelle concesse agli iraniani.
Sebbene gruppi armati siano giunti pure sulla costa, i russi hanno per il momento ottenuto garanzie di sicurezza anche per le loro basi militari di Tartus e Khmeimim. Assad, fuggito in aereo dal paese insieme alla famiglia, ha ottenuto asilo a Mosca, su iniziativa dello stesso presidente russo Vladimir Putin.
Malgrado i saccheggi, gli episodi di violenza armata sono stati in un primo momento relativamente ridotti. Il leader di HTS Abu Muhammad al-Julani (il cui vero nome è Ahmed al-Sharaa), cercando di offrire un’inedita immagine di pragmatismo sostenuta anche dai mezzi di informazione occidentali, ha garantito l’incolumità alle minoranze. L’autocontrollo delle bande armate che compongono la galassia dei ribelli è però tutt’altro che certo, ed esecuzioni sommarie e abusi sono già in notevole aumento.
Intanto, mentre nella capitale Damasco si organizzavano i primi passi della transizione di potere, Israele ha compiuto oltre 480 attacchi aerei contro basi militari e arsenali dislocati su tutto il territorio del paese arrivando a distruggere circa l’80% del potenziale bellico siriano, inclusa la flotta di stanza a Latakia e l’aviazione.
Le forze armate israeliane hanno occupato un’ulteriore zona cuscinetto nel Golan, spingendosi fino alla vetta del Monte Hermon (Jabal al-Sheikh per i siriani), una cima di quasi 3.000 metri che ha importanza strategica perché da essa è possibile controllare gran parte dello spazio aereo siriano e libanese.
Definendo questa ennesima usurpazione di territorio una misura “temporanea” presa per ragioni “difensive”, l’esercito israeliano si appresta dunque ad occupare un’ulteriore porzione di Siria a tempo indeterminato.
Dal canto suo, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato che la alture del Golan, occupate da Israele nella guerra del 1967, rimarranno parte dello Stato ebraico “per l’eternità”.
I principali attori in campo: la galassia dei ribelli
Hay’at Tahrir al-Sham (HTS), la formazione che ha guidato la fulminea offensiva che ha portato al rovesciamento di Assad, emerse nel 2017 a Idlib, nel nordovest del paese, dalla fusione di vari gruppi islamisti e jihadisti, il principale dei quali era Jabhat Fath al-Sham, precedentemente noto come Jabhat al-Nusra.
Al-Julani, il fondatore di al-Nusra, era stato l’uomo di Abu Bakr al-Baghdadi (il leader dell’ISIS) in Siria, prima che la divisione fra i due gruppi portasse a una sanguinosa guerra fratricida che fece migliaia di vittime.
Al-Nusra si macchiò anche di orrendi crimini contro gli alawiti e le altre minoranze non musulmane del paese.
Nel 2016, al-Julani ruppe i legami con al-Qaeda a cui al-Nusra era affiliata, e allontanò il gruppo dal salafismo jihadista di orientamento transnazionale in favore di un Islam nazionalista limitato al contesto siriano.
L’anno successivo egli costituì a Idlib un Governo di Salvezza Nazionale (GSN) la cui struttura potrebbe essere ora estesa all’intera Siria, rimanendo scarsamente inclusiva. Il primo ministro del GSN, Mohammed al-Bashir è recentemente subentrato a Mohammed Ghazi al-Jalali, premier del governo Assad.
Malgrado la facciata più moderata di HTS, un documento ONU di quest’anno ha segnalato maltrattamenti, abusi e torture nelle prigioni gestite dal gruppo, dove vengono detenuti anche bambini di 7 anni.
Un rapporto dell’amministrazione USA sulla libertà religiosa in Siria denunciava due anni fa perduranti persecuzioni e abusi nei confronti di alawiti, cristiani e drusi per mano di HTS.
Accanto a questo gruppo figurano altre formazioni jihadiste locali ed internazionali (inclusi corpi ceceni che hanno combattuto anche in Ucraina). La principale di tali formazioni è il Partito Islamico del Turkestan, composto soprattutto da uiguri della provincia cinese dello Xinjiang.
Negli ultimi due anni, in vista di un’offensiva contro il governo di Damasco, HTS aveva puntato a rafforzare le capacità militari dei gruppi da essa controllati, attraverso la creazione di un’accademia militare, di un comando unificato, e l’acquisizione di armi avanzate.
Fra queste ultime figurano i droni, con i quali HTS si era familiarizzata grazie all’arrivo a Idlib di addestratori ucraini (con il probabile beneplacito turco e americano).
Più a nord, nella porzione di territorio siriano direttamente controllata dai turchi, si trovano i ribelli dell’Esercito Nazionale Siriano (ENS), finanziati e armati da Ankara principalmente in chiave anti-curda.
I curdi controllano invece la parte nordorientale del paese fino al fiume Eufrate, guidando le Forze Democratiche Siriane (FDS), una coalizione comprendente anche tribù arabe locali e protetta dalle forze americane dislocate nell’area. Le FDS hanno combattuto sia contro Damasco che contro l’ENS ed altre formazioni ribelli.
Nelle province di Deraa e Suweida, nel sud della Siria, sono invece riemersi i ribelli del cosiddetto Fronte Meridionale, negli anni passati armati e finanziati da Giordania e Stati Uniti. Alcuni gruppi al sud (incluse formazioni jihadiste) erano stati sostenuti anche da Israele.
Infine, nel deserto di al-Tanf in prossimità dell’omonima base militare americana sul confine giordano, opera l’Esercito Libero Siriano (ELS), protetto dalla no-fly zone statunitense che ha un raggio di 50 km attorno alla base.
L’ELS, che ha tradizionalmente operato in stretto coordinamento con le forze americane e con l’intelligence giordana, ha preso parte all’offensiva contro il governo di Damasco, in particolare prendendo il controllo della città di Palmira.
Questa formazione e i ribelli del Fronte Meridionale sono quelli che l’Institute for the Study of War (ISW), think tank americano di orientamento neocon, ha definito un po’ ipocritamente come gruppi di opposizione “non identificati” nella sua mappa riguardante la distribuzione delle forze siriane che hanno portato al rovesciamento di Assad.
Turchia, un successo non privo di incognite
Ankara aveva inizialmente definito l’offensiva dei ribelli come “un’operazione limitata”, negando ogni diretto coinvolgimento e addossando ogni responsabilità all’intransigenza del governo di Damasco che aveva rifiutato di “riconciliarsi con il suo popolo e con la legittima opposizione”.
E’ opinione diffusa tra gli analisti che la luce verde del governo turco all’operazione sia giunta a seguito del fallimento dei negoziati fra Ankara e Damasco per la normalizzazione dei rapporti fra i due paesi.
Assad aveva chiesto come precondizione il ritiro delle truppe turche dal territorio siriano, una misura rifiutata dal presidente Recep Tayyip Erdogan che invece chiedeva a Damasco di fare fronte comune contro i curdi siriani, ritenuti da Ankara vicini al PKK turco.
Pochi giorni dopo l’inizio dell’offensiva di HTS, i ribelli filo-turchi dell’ENS hanno violentemente attaccato i curdi a Tel Rifaat, nel nordovest della Siria. Mentre HTS aveva raggiunto degli accordi di non belligeranza con le forze curde, l’ENS si è mostrato ostile ad ogni possibilità di intesa.
Ridurre l’area controllata dai curdi in Siria è certamente un interesse turco. Ma la Turchia ha ottenuto ancor di più. Con l’inattesa caduta di Damasco, Erdogan si vede ripagato degli sforzi compiuti a sostegno di una ribellione siriana che per lunghi anni non era sembrata in grado di vincere.
Ora Ankara può accelerare il ritorno in Siria di oltre tre milioni di profughi siriani attualmente risiedenti in Turchia, dove sono mal tollerati, e realizzare il sogno di un corridoio economico con la città siriana di Aleppo.
Quest’ultima costituisce il frutto proibito delle aspirazioni neo-ottomane di Erdogan, oltre che un possibile anello del corridoio economico che Ankara punta a costruire con Iraq e Qatar in alternativa all’India-Middle East-Europe Economic Corridor (IMEC) proposto dagli USA e dal quale la Turchia è stata esclusa.
Con la vittoria dei ribelli sul regime di Damasco, Erdogan ha fatto un duro sgambetto a Russia e Iran, che ora rischiano di essere estromessi dalla Siria.
Ankara può inoltre dare nuovo impulso a quel progetto di Islam politico che aveva condiviso con il Qatar e con i partiti che nella regione orbitano attorno al movimento dei Fratelli Musulmani.
Questo progetto, che sembrava tramontato con il fallimento delle rivolte arabe del 2011, è tuttavia malvisto da paesi come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto, i quali guardano con apprensione all’insediamento a Damasco di un governo ispirato a tali principi e sostenuto dalla Turchia.
Erdogan dovrà affrontare altre sfide, a cominciare dalla ricostruzione della Siria, un’impresa improba anche alla luce degli scarsi successi registrati da Ankara in questi anni nei territori da essa controllati nel nord del paese, e resa ancor più difficile dal precario stato di salute dell’economia turca.
Sul fronte politico siriano, la situazione appare ugualmente complessa. Oltre agli innumerevoli gruppi armati, Ankara dovrà cercare di conciliare gli interessi delle svariate formazioni e piattaforme partitiche emerse in questi anni.
E’ anche importante sottolineare che, mentre Erdogan ed il suo partito (AKP) stanno celebrando la caduta di Assad come una vittoria che avrà l’effetto di accrescere l’influenza turca nella regione, l’opposizione kemalista turca considera tale caduta come il risultato di un piano americano nel quale Erdogan e l’HTS sono mere pedine.
Mentre i sostenitori di Erdogan prefigurano un Siria guidata da un governo ispirato ai principi dell’Islam sotto l’influenza della Turchia, i kemalisti ed altri partiti di centro paventano la partizione del paese e la nascita di uno Stato curdo in prossimità del confine turco.
Per Washington un ruolo dietro le quinte
Sebbene non abbiano giocato una parte di primo piano come la Turchia, gli Stati Uniti hanno perlomeno svolto un ruolo di facilitatore nei confronti della fulminea offensiva dei ribelli siriani.
Negli anni passati, Washington aveva sostenuto e finanziato diversi gruppi armati al fine di rovesciare Assad. Tra il 2012 e il 2013, la CIA lanciò un programma segreto denominato “Timber Sycamore”, del costo di circa un miliardo di dollari l’anno, per armare i ribelli in Siria, molti dei quali si sarebbero rivelati gruppi estremisti.
Jake Sullivan, Consigliere per la sicurezza nazionale dell’attuale amministrazione Biden, nel 2012 scrisse in un’email diretta all’allora Segretario di Stato Hillary Clinton, di cui era assistente, che “al-Qaeda è dalla nostra parte in Siria”.
Nel 2015, il Pentagono ammise che molte delle armi che gli USA fornivano ai ribelli finivano nella mani di Jabhat al-Nusra, gruppo affiliato ad al-Qaeda e precursore di HTS.
Gli Stati Uniti hanno tuttavia continuato a tollerare molti di questi gruppi, poi rimasti confinati nella provincia di Idlib, ed in particolare quello guidato da al-Julani. James Jeffrey, rappresentante speciale per la Siria, dichiarò nel 2021 che HTS era “un asset” per la strategia americana nel paese.
Forse per questa ragione al-Julani, che garantisce anche il controllo di alcuni esponenti del jihadismo internazionale presenti a Idlib, è stato risparmiato dagli attacchi mirati statunitensi che hanno invece eliminato altri jihadisti di spicco in Siria, fra cui lo stesso leader dell’ISIS Abu Bakr al-Baghdadi.
In tempi recenti, diversi analisti e think tank statunitensi hanno promosso la tesi secondo cui HTS si stava evolvendo verso posizioni improntate ad un maggior pragmatismo.
Dal 2014, gli Stati Uniti hanno una presenza militare sul terreno in Siria, ufficialmente per combattere l’ISIS, ma in realtà anche per tentare di spezzare la continuità dell’asse iraniano che attraverso Iraq e Siria faceva pervenire armi dall’Iran a Hezbollah in Libano.
Secondo dati ufficiali, attualmente sono rimasti solo 900 soldati americani sul territorio siriano, sebbene in realtà ve ne sarebbero circa il doppio (parte dei quali contractor privati), schierati in almeno sei basi dislocate nella Siria orientale.
Tale forza, coadiuvata dall’aviazione USA, è servita anche a garantire la protezione delle SDF, coalizione a guida curda che controlla la Siria nordorientale, non solo dagli attacchi delle forze governative e delle milizie sciite filo-iraniane ad esse alleate, ma anche dalle aggressioni di Ankara.
Dopo lo scoppio della guerra a Gaza, le basi americane in Siria hanno subito almeno 127 attacchi da parte delle milizie sciite filo-iraniane, ed hanno risposto colpendo obiettivi iraniani nel paese.
Durante l’offensiva ribelle che ha portato al rovesciamento di Assad, gli USA hanno impedito il passaggio di milizie dall’Iraq in Siria, ed hanno sostenuto alcuni attacchi delle SDF contro le forze governative a Deir ez-Zor.
I ribelli dell’FSA, storicamente sostenuti da USA e Giordania, i quali hanno sottratto alle forze governative la città di Palmira, sono partiti dall’area sotto il controllo della base USA di al-Tanf.
Dopo la fuga di Assad, l’amministrazione Biden ha dichiarato di essere in contatto con tutti i gruppi coinvolti nei combattimenti in Siria, inclusa HTS, sebbene questa formazione sia tuttora inserita nella lista USA delle organizzazioni terroristiche.
All’interno dell’amministrazione è in corso un dibattito sulla possibilità di cancellare HTS da tale lista.
Biden, dal canto suo, si è assunto il merito della caduta di Assad, affermando che sarebbe il risultato della scelta dell’amministrazione di rafforzare i propri alleati nella guerra ucraina e in quella di Gaza. Russia, Iran e Hezbollah, indeboliti dalle azioni della Casa Bianca, non sarebbero stati in grado di appoggiare Damasco come in passato.
Gli USA hanno anche confermato che non si disimpegneranno dalla Siria, ma vi resteranno per continuare a combattere l’ISIS. Dopo la caduta di Assad, aerei americani hanno bombardato almeno 75 bersagli che sarebbero legati al gruppo terroristico.
Washington ha inoltre giustificato la creazione della zona cuscinetto israeliana nel Golan, definendola una misura temporanea.
Tra le incognite che riguardano l’impegno americano in Siria vi è certamente la difficile gestione dello scontro fra la Turchia e i curdi siriani, uno fra i tanti esempi delle alleanze contraddittorie di Washington.
A ciò bisogna aggiungere le incerte scelte politiche della futura amministrazione Trump, il quale ha affermato a parole di volersi disimpegnare dalla Siria.
Un dono inaspettato per Israele
Sebbene non vi siano conferme di una partecipazione diretta di Israele all’offensiva di HTS e degli altri gruppi ribelli in Siria, il governo Netanyahu ha seguito con molto interesse l’intera operazione.
Gli avversari del regime di Damasco hanno chiaramente approfittato del momento di particolare debolezza attraversato dall’asse filo-iraniano a causa delle operazioni militari israeliane contro Hezbollah e le forze iraniane nella regione, come hanno tenuto a sottolineare diversi esperti israeliani.
Nemmeno i ribelli hanno nascosto il legame tra la loro offensiva e i precedenti successi militari di Israele. Diversi loro esponenti hanno rilasciato dichiarazioni direttamente ai media israeliani, affermando tra l’altro la loro volontà di costituire un governo che abbia buoni rapporti con lo Stato ebraico.
Esponenti dell’intelligence israeliana hanno riconosciuto che l’offensiva di HTS avvantaggiava Israele poiché obbligava le forze iraniane a concentrarsi sulla difesa dell’alleato siriano.
Sebbene in passato Israele abbia appoggiato e armato i ribelli siriani del fronte sud (inclusi gruppi jihadisti), Tel Aviv non li ha mai considerati un alleato strategico, bensì una risorsa temporanea da sfruttare a proprio vantaggio.
A livello ideologico HTS appoggia la causa palestinese, e il gruppo ha celebrato l’attacco di Hamas del 7 ottobre contro Israele.
Anche i rapporti fra Tel Aviv ed Ankara restano molto tesi, essendosi ulteriormente deteriorati a seguito della violentissima operazione militare israeliana a Gaza. Nell’equazione dei rapporti fra i due paesi rientrano anche i curdi.
Lo scorso 10 novembre, il nuovo ministro degli esteri israeliano Gideon Sa’ar aveva esplicitato l’agenda di Israele: normalizzare le relazioni con altri paesi del mondo arabo (fra cui l’Arabia Saudita), e sviluppare i rapporti con le minoranze della regione, ed in particolare con i curdi, definiti “un alleato naturale”.
La caduta di Assad è stata accolta con grande soddisfazione in Israele. Essa spezza l’asse filo-iraniano, rompendo il corridoio che attraverso la Siria permetteva all’Iran di rifornire Hezbollah.
Netanyahu, visitando il confine con la Siria, si è assunto il merito di questo evento, affermando che è conseguenza della campagna militare israeliana contro tale asse.
Come abbiamo visto, Israele ha occupato una zona cuscinetto sul Golan ed ha letteralmente demilitarizzato la Siria, distruggendo gran parte delle basi militari e degli arsenali del paese. Malgrado ciò, il leader di HTS al-Julani ha dichiarato di non essere interessato ad uno scontro con Tel Aviv.
Avendo eliminato le difese aeree siriane, ed avendo preso il controllo del monte Hermon, la vetta più alta del paese, Israele ha ormai libero accesso allo spazio aereo siriano, oltre che a quello libanese, ed ha un comodo corridoio per attaccare eventualmente l’Iran, visto che lo spazio aereo del vicino Iraq è controllato dall’alleato americano.
Sia Netanyahu che il ministro della difesa Israel Katz hanno minacciato la nuova leadership siriana, affermando che se essa permetterà all’Iran di riprendere piede nel paese, Israele non indugerà ad attaccarlo militarmente.
Tel Aviv è pronta a promuovere ulteriormente il proprio piano di indebolimento e frammentazione degli Stati arabi, alleandosi con le minoranze della regione (curdi, drusi, cristiani, ecc.) e promuovendo la loro autonomia o indipendenza, al fine di fiaccare i propri avversari (un progetto noto in passato col nome di piano Yinon), a cominciare dalla Siria stessa.
Se l’asse filo-iraniano è notevolmente indebolito dalla caduta di Assad, nuove sfide potrebbero tuttavia materializzarsi in Siria per Israele. Il paese potrebbe emergere come nodo di un nuovo asse sunnita, costituito dalla Turchia e dal Qatar.
Entrambi questi paesi hanno sostenuto HTS, ed entrambi appoggiano Hamas i cui leader potrebbero trovare in Siria un ulteriore rifugio.
Un asse di questo tipo è probabilmente destinato a rivelarsi più fragile di quello iraniano. Ma una massiccia presenza di Hamas in Siria potrebbe contribuire a destabilizzare la vicina Giordania dove i Fratelli Musulmani hanno una nutrita presenza in parlamento, e dove risiedono altri gruppi islamici militanti.
La stabilità della Giordania è di importanza strategica sia per Israele che per l’architettura di sicurezza regionale americana.
Mosca appesa a un filo
Uno degli aspetti più difficili da chiarire, nella vicenda del rovesciamento di Assad, riguarda il ruolo giocato dalla Russia.
Intervenendo militarmente in Siria nel 2015, Mosca riuscì a risollevare le sorti del governo di Damasco insieme all’Iran e ad Hezbollah, che fornirono il grosso delle forze di terra.
Essendo agile, incentrata soprattutto sull’impiego della forza aerea, la missione russa si rivelò sostenibile anche dopo lo scoppio della guerra in Ucraina. I problemi sono emersi dopo il 7 ottobre 2023, allorché Israele ha cominciato ad eliminare sistematicamente depositi di armi, infrastrutture militari, uomini di Hezbollah ed esponenti di alto livello della Guardia Rivoluzionaria iraniana in Siria.
L’offensiva militare israeliana in Libano ha indebolito ulteriormente Hezbollah, mentre i continui bombardamenti dell’aviazione di Tel Aviv in Siria hanno spinto l’Iran a disimpegnare un numero crescente di forze dal paese.
Quando HTS ha attaccato Aleppo, la rapidità dell’avanzata dei ribelli e la debolezza delle forze armate governative hanno lasciato a Mosca ben poco tempo per reagire.
Non è chiaro se ci sia stato anche un fallimento dell’intelligence. Secondo alcune fonti russe, Assad sarebbe stato avvertito dall’alleato del rischio di un attacco, ma non avrebbe preso contromisure adeguate.
Secondo altre fonti, essendo consapevoli della drammaticità della situazione i russi avrebbero avviato negoziati con le forze dell’opposizione siriana, sulla possibilità di conservare le proprie basi di Khmeimim e Tartus sulla costa, già prima dell’attacco dei ribelli.
John Helmer, decano dei corrispondenti da Mosca, sostiene che vi sarebbe stato un dissidio fra lo stato maggiore russo e lo stesso Putin. Quest’ultimo si sarebbe rifiutato di autorizzare le forze armate a difendere dagli attacchi israeliani un eventuale ponte aereo iraniano in soccorso di Assad, o a colpire le forze turche in Siria.
Comunque siano andate le cose, sembrerebbe che Mosca abbia aperto per tempo canali di comunicazione con le forze dell’opposizione siriana per negoziare almeno la salvaguardia di Khmeimim e Tartus, le due principali basi russe nel paese.
Non bisogna dimenticare che negli anni passati i russi avevano tentato di negoziare diversi accordi di riconciliazione fra Damasco e i ribelli, ed avevano anche promosso una riforma della costituzione siriana. Mosca aveva dunque già contatti stabili almeno con alcuni gruppi dell’opposizione.
Se la Russia dovesse perdere le proprie basi in Siria, a risentirne sarebbe soprattutto la proiezione di Mosca nel continente africano.
Sebbene la sorte delle basi rimanga appesa a un filo, la Russia ha certamente delle carte da giocare: può offrire al nuovo governo un contrappeso alla Turchia, è il principale esportatore di grano in Siria, può aiutare a rifondare l’esercito, ed in generale contribuire alla ricostruzione del paese.
La sconfitta di Teheran
Se Mosca può sperare di mantenere una presenza in Siria, la situazione appare invece molto più precaria per l’Iran.
Dopo aver perso diversi uomini e comandanti di alto livello della Guardia Rivoluzionaria (come Razi Mousavi e Mohammad Reza Zahedi) fra il dicembre 2023 e l’aprile di quest’anno, Teheran aveva ridotto sensibilmente la propria presenza militare in Siria.
Responsabili iraniani avevano anche avvertito Assad del pericolo imminente di un attacco, riscontrando tuttavia una scarsa reazione da parte di quest’ultimo.
Teheran ha anche cercato di mobilitare milizie dall’Iraq, ma con scarso successo a causa di problemi logistici e della minaccia rappresentata dall’aviazione israeliana e da quella americana.
Nella difesa di Aleppo, gli iraniani hanno anche perso un altro alto comandante della Guardia Rivoluzionaria, Kyumars Pourhashemi.
Negli ultimi mesi, Teheran aveva cominciato a considerare Assad come un alleato inaffidabile. Dopo lo scoppio della guerra a Gaza, egli aveva allacciato trattative con Emirati Arabi Uniti ed Arabia Saudita finalizzate ad un possibile allontanamento dall’Iran.
La missione diplomatica del movimento yemenita Ansar Allah (noto anche col nome di Houthi) a Damasco era stata costretta a chiudere. Il gruppo era emerso come uno dei membri chiave dell’asse filo-iraniano, e il suo allontanamento dalla capitale siriana costituiva certamente un segnale negativo.
Assad, inoltre, si era dimostrato indifferente di fronte alle gravi perdite subite dagli iraniani in Siria, ed anzi aveva ostacolato le operazioni di sostegno a Hezbollah, impegnato in una durissima guerra con Israele in Libano.
In altre parole, egli sembrava aver abbandonato la resistenza contro Israele e gli USA, assumendo invece una condotta acquiescente. Non va dimenticato, a tal proposito, che Netanyahu aveva ripetutamente ammonito Assad che stava “giocando col fuoco” se avesse continuato a sostenere l’asse filo-iraniano.
Di fronte alla fulminea offensiva dei ribelli, ed alla scarsa resistenza delle forze armate di Damasco, dunque, anche l’Iran ha deciso di gettare la spugna e di allacciare contatti con i ribelli per salvare il salvabile.
Pur avendo legami con alcune minoranze in Siria, Teheran non ha tuttavia lo stesso potere contrattuale di cui dispone Mosca nel paese, mentre i rapporti con i ribelli partono certamente da una posizione peggiore, ed ogni eventuale presenza iraniana nel paese deve fare i conti con la minaccia militare israeliana.
Dopo i durissimi colpi subiti da Hamas a Gaza, da Hezbollah in Libano, e dopo la caduta di Assad in Siria, l’asse iraniano risulta senza dubbio ridimensionato, e ciò costringe Teheran a ripensare la sua strategia regionale.
Un futuro fosco
La Siria, dal canto suo, deve confrontarsi con sfide enormi, che vanno dalla ricostruzione di una nazione economicamente distrutta agli ostacoli di una complessa transizione politica, dalla coesione dei ribelli alla convivenza delle varie componenti etniche e confessionali, a cui bisogna aggiungere le ingerenze delle numerose potenze regionali ed internazionali in competizione nel paese.
Anche alla luce della completa demilitarizzazione della Siria, al-Julani e il governo di transizione sono praticamente ostaggio degli USA e di Israele, da un punto di vista economico (Washington può continuare a usare l’arma delle sanzioni) e militare.
La Turchia, insieme al Qatar, vorrà tuttavia giocare un ruolo di primo piano nel paese, mentre Russia, Iran, Arabia Saudita, ed Emirati Arabi Uniti cercheranno di giocare ciascuno le proprie carte.
Di fronte al groviglio di forze contrapposte all’interno della Siria, e alle tensioni regionali ed internazionali che ruotano attorno ad essa, appare plausibile uno scenario libico per il paese, ulteriormente aggravato da un contesto regionale caratterizzato da una crescente disgregazione, sul quale continuano a soffiare minacciosi venti di guerra.
Grazie, un'analisi approfondita e chiara, pur nella sua giusta complessità.