Dal fragile cessate il fuoco in Libano alla guerra in Siria – parte I
Il conflitto regionale scaturito dalla crisi di Gaza ha messo in difficoltà l’asse della resistenza filo-iraniano, indebolendo Hezbollah in Libano e creando un vuoto geopolitico nella vicina Siria.
Mentre il Libano, uno dei fronti della guerra regionale scatenata dalla crisi di Gaza, torna a una situazione di calma perlomeno temporanea, un altro, la Siria, si infiamma con conseguenze difficilmente prevedibili per gli equilibri mediorientali.
Fin dalla loro nascita, i moderni Stati di Siria e Libano, profondamente uniti da legami storici, culturali, economici e geografici, costituiscono due elementi pressoché indissolubili del Vicino Oriente. Ciò che accade all’uno solitamente ha ripercussioni sull’altro, e viceversa.
Entrambi questi paesi sono da tempo coinvolti, loro malgrado, in una violenta battaglia per la ridefinizione degli equilibri regionali, ed ora anche mondiali, confermando che l’Asia Occidentale resta uno dei teatri più tragicamente caldi dell’attuale scontro globale per l’egemonia.
Contenuti dell’accordo libanese
In Libano, un cessate il fuoco è entrato in vigore il 27 novembre, a due mesi esatti dall’assassinio del segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah e dall’inizio della campagna israeliana di bombardamenti poi sfociata nell’invasione terrestre del sud del paese.
Quegli episodi avevano trasformato in una guerra aperta lo scontro di confine tra il movimento libanese e le forze armate di Tel Aviv che si protraeva dall’8 ottobre 2023, ovvero dal giorno successivo all’attacco di Hamas all’origine dell’intervento armato di Israele nella Striscia di Gaza.
L’accordo di cessate il fuoco, stipulato fra il governo israeliano e quello libanese, e mediato da Stati Uniti e Francia (l’ex potenza coloniale nel paese), con un coinvolgimento solo indiretto di Hezbollah, si compone dei seguenti punti:
- Il ripiegamento, entro 60 giorni, di Hezbollah oltre il fiume Litani, situato circa 30 km a nord del confine con Israele, contestualmente al ritiro delle forze israeliane dal territorio libanese.
- Lo schieramento delle forze armate libanesi a presidio di questa fascia di territorio, in collaborazione con le forze internazionali dell’UNIFIL.
- L’esercito libanese si fa garante dell’effettiva evacuazione di Hezbollah e di tutto il suo equipaggiamento militare dal territorio a sud del fiume Litani, e dovrà assicurare che il gruppo sciita non si riarmerà.
- Un “Meccanismo” tripartito di monitoraggio, presieduto dagli USA, comprendente la Francia, ed ospitato dall’UNIFIL, verificherà l’implementazione degli accordi e rileverà eventuali violazioni delle controparti.
- Una separata “Commissione tecnico-militare per il Libano”, guidata dall’Italia e composta da altri 7 paesi (USA, Canada, Gran Bretagna, Francia, Germania, Spagna e Olanda), è delegata al rafforzamento ed all’addestramento dell’esercito libanese al fine di “ispezionare e smantellare” infrastrutture militari, confiscare armi e prevenire la presenza nell’area di “gruppi non autorizzati”.
- Israele e Libano si impegnano a compiere passi volti alla totale implementazione della risoluzione ONU 1701 (risalente al 2006). Gli USA e le Nazioni Unite faciliteranno i negoziati fra Israele e Libano per la risoluzione delle rimanenti dispute di confine in accordo con tale risoluzione.
Un cessate il fuoco “asimmetrico”
L’accordo ufficiale è affiancato da una “lettera di garanzia” inviata da Washington al governo israeliano, la quale riconosce a Israele il diritto di agire preventivamente contro ogni minaccia militare proveniente dal Libano purché si premuri di preavvertire gli Stati Uniti.
La lettera assicura anche che gli USA condivideranno informazioni di intelligence con Tel Aviv riguardo a potenziali “violazioni” da parte di Hezbollah, e che Israele può entrare nello spazio aereo libanese per compiere operazioni di sorveglianza e raccogliere dati di intelligence.
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha confermato che, con il consenso di Washington, Israele si riserva “piena libertà di azione” a livello militare di fronte ad eventuali “minacce” provenienti da Hezbollah.
Questa lettera di garanzia è stata concessa unilateralmente dagli Stati Uniti all’alleato israeliano di fronte al rifiuto del governo libanese di inserire nell’accordo ufficiale concessioni che implicassero la violazione della propria sovranità.
E’ chiaro che sia Beirut sia Hezbollah (che non ha mai fatto parte dei negoziati ufficiali) erano consapevoli dell’esistenza di questa lettera, la quale conferisce all’accordo una “asimmetria” a vantaggio di Israele, come confermato dalle ripetute violazioni del cessate il fuoco compiute da parte israeliana nei giorni successivi all’entrata in vigore dello stesso.
Evidentemente, però, sia il governo libanese che il gruppo sciita hanno ritenuto che fosse il “male minore”. Israele ha violato per anni la risoluzione 1701 dell’ONU usando lo spazio aereo libanese a proprio piacimento, fra l’altro anche per bombardare la Siria.
Inoltre, quando i mediatori francesi hanno suggerito alla controparte libanese di rifiutare misure che compromettevano la sovranità del paese, è intervenuto il Segretario di Stato USA Antony Blinken, il quale avrebbe “spiegato” al presidente francese Emmanuel Macron che la posizione di Parigi stava mettendo a rischio il cessate il fuoco.
Del resto, secondo alcune fonti, lo stesso ruolo negoziale francese sarebbe stato accettato da Israele solo in cambio della dichiarazione di Parigi che Netanyahu era “immune” all’applicazione del mandato d’arresto per crimini di guerra emesso nei suoi confronti dalla Corte Penale Internazionale.
Una tregua cercata
Sia Hezbollah che il Libano, d’altra parte, avevano bisogno del cessate il fuoco. Il gruppo armato sciita ha perso i suoi principali leader nel conflitto, ed ha subito danni ingenti al proprio arsenale e alle proprie infrastrutture.
Ma soprattutto, l’enorme numero di vittime civili (quasi 4.000), più di un milione di sfollati, e la distruzione di migliaia di abitazioni da parte di Israele, hanno posto Hezbollah in una situazione difficile di fronte agli altri libanesi.
Dal canto suo, Netanyahu aveva bisogno anch’egli di una pausa militare sul fronte settentrionale. L’esercito israeliano, composto in gran parte da riservisti (molti dei quali al loro quarto turno di servizio), è logorato da oltre un anno di guerra, e ha dovuto affrontare un avversario ostico che gli ha impedito di avanzare in territorio libanese, infliggendogli dolorose perdite.
Netanyahu non è riuscito a impedire il continuo lancio di razzi, missili e droni da parte di Hezbollah sul territorio israeliano, i quali hanno più volte raggiunto Tel Aviv. Le città israeliane del nord hanno subito danni ingenti.
Il cessate il fuoco può essere stato in parte anche una mossa del premier israeliano per ingraziarsi il presidente americano entrante Donald Trump, il quale aveva espresso il proprio desiderio che i combattimenti cessassero prima del suo insediamento.
Sebbene Netanyahu non sembri ancora intenzionato a porre fine allo sterminio di Gaza, una tregua sul fronte nord poteva rappresentare un gesto di buona volontà nei confronti del nuovo presidente USA.
Egli è inoltre riuscito a disaccoppiare il fronte libanese da Gaza, strappando a Hezbollah un cessate il fuoco non più condizionato alla cessazione delle ostilità nella Striscia.
Malcontento in Israele
Malgrado ciò, le reazioni in Israele alla notizia dell’accordo sono state generalmente negative. I leader dell’opposizione hanno dichiarato che esso non avrebbe riportato sicurezza al confine settentrionale.
Alcuni sondaggi indicano che solo il 20% degli elettori della coalizione di governo e metà di quelli dell’opposizione hanno appoggiato l’accordo. Ed oltre il 60% degli israeliani ritiene che il cessate il fuoco durerà al più qualche mese.
Mentre gli sfollati libanesi stanno tornando in massa alle loro case in gran parte distrutte in prossimità del confine, quelli israeliani hanno mostrato una diffidenza molto maggiore, e alcuni hanno dichiarato che non torneranno.
Molti israeliani hanno espresso la propria delusione per la mancata creazione di una zona cuscinetto occupata da Israele in Libano. Va ricordato che, fin dalla propria fondazione, Israele ha ambito al territorio libanese meridionale ed alle risorse idriche del fiume Litani.
Lo stesso Netanyahu ha dichiarato di aver accettato il cessate il fuoco per tre ragioni (nessuna delle quali lascia presagire una pace stabile): 1) la necessità di concentrarsi sulla “minaccia iraniana”; 2) avere il tempo necessario per rifornire di armi gli arsenali israeliani ormai svuotati; 3) aumentare la pressione su Hamas ormai isolato a Gaza.
Le aspirazioni di Washington
Dal canto suo, annunciando il cessate il fuoco il presidente americano uscente Joe Biden ha dichiarato che esso avvicina la sua visione di un Medio Oriente “più integrato” attraverso la prospettiva di normalizzare i rapporti fra Israele e Arabia Saudita.
Del tutto irrealisticamente, egli ha affermato che tale normalizzazione aprirebbe la strada alla “creazione di uno Stato palestinese”. Non vi è però dubbio che gli sforzi per giungere ad una riconciliazione fra Riyadh e Tel Aviv proseguiranno sotto l’amministrazione Trump.
A differenza di quanto avvenuto in occasione della decisione di autorizzare l’impiego di missili USA a lunga gittata per colpire il territorio russo, presa senza comunicare nulla a Trump, stavolta la Casa Bianca ha regolarmente informato il team del presidente entrante sul proprio operato diplomatico. E l’entourage del magnate repubblicano avrebbe espresso soddisfazione in proposito.
Nel frattempo sia Washington che Tel Aviv puntano a contenere Hezbollah in Libano attraverso l’impiego dell’esercito libanese. “E’ chiaro fin dal 2006 che il loro obiettivo è cercare di trasformare l’esercito libanese in una sorta di unità antiterrorismo […] una forza interna in grado di contenere Hezbollah […] piuttosto che una forza armata in grado di difendersi dalle minacce esterne, ovvero dagli israeliani”, ha dichiarato Karim Makdisi, professore di politica internazionale all’Università Americana di Beirut, al sito di informazione online “Drop Site”.
Resta il fatto che molti soldati e ufficiali dell’esercito sono in buoni rapporti con Hezbollah, e che il 45% di essi è composto da sciiti.
Le priorità di Hezbollah
Dal canto suo il nuovo segretario generale di Hezbollah, Naim Qassem, ha enunciato in un recente discorso le priorità del gruppo in questa nuova fase: la ricostruzione, l’elezione di un nuovo presidente libanese, la preservazione dell’unità nazionale e del ruolo politico, economico e sociale di Hezbollah.
Ma egli ha anche dichiarato che “lavoreremo per rafforzare le capacità difensive del Libano, e la Resistenza sarà pronta ad impedire al nemico di indebolire il paese, in collaborazione con l’esercito libanese”.
La priorità del partito rimane tuttavia una maggiore integrazione nella vita politica del Libano, e il raggiungimento di una maggiore coesione fra i libanesi.
L’amara esperienza di Hezbollah in questa guerra è che la “dottrina dell’unità dei fronti” elaborata dall’asse della resistenza filo-iraniano e dagli stessi vertici del gruppo sciita – dottrina secondo cui, qualora uno dei membri dell’asse fosse rimasto coinvolto in una guerra, tutti gli altri sarebbero intervenuti in suo sostegno sui fronti a loro accessibili (dalla Siria all’Iraq, allo Yemen) – si è rivelata imperfetta.
Essa si è confermata efficace nel contesto di una guerra di logoramento, come è avvenuto nei primi mesi dopo lo scoppio del conflitto a Gaza, ma inadeguata nel caso di una guerra ad alta intensità in cui vengono coinvolte le popolazioni civili e gli interessi primari dei vari membri dell’asse.
Da qui l’esigenza del partito sciita di concentrarsi in primo luogo sulla ricostruzione del tessuto politico e sociale libanese.
La Siria nel mirino
Ciò nonostante, l’intelligence statunitense ritiene che Hezbollah finirà per riarmarsi ridando slancio alla propria industria bellica locale, ma anche ricevendo nuovo materiale bellico attraverso la Siria.
Da qui la recente campagna americana ed israeliana di pressioni nei confronti del presidente siriano Bashar al-Assad affinché riduca in ogni modo il supporto logistico a Hezbollah, o addirittura abbandoni l’asse della resistenza.
Il premier israeliano Netanyahu ha minacciosamente dichiarato che “Assad deve comprendere che gioca col fuoco” se continuerà a permettere il trasferimento di armi iraniane a Hezbollah.
Nei mesi scorsi, Israele ha ripetutamente bombardato la Siria, sia per colpire uomini di Hezbollah e della Guardia Rivoluzionaria iraniana nel paese, sia per intimidire il governo di Damasco, sebbene quest’ultimo abbia mantenuto un basso profilo nell’attuale scontro regionale.
Nelle ore che hanno preceduto l’entrata in vigore del cessate il fuoco (e anche nei giorni successivi), l’aviazione israeliana ha ripetutamente bersagliato i valichi di confine tra Siria e Libano, ed ogni altra possibile via di accesso al paese dei cedri attraverso il territorio siriano.
La Siria è inoltre fiaccata da anni di durissime sanzioni americane (ed europee) che hanno impedito al paese di risollevarsi dalla guerra, lasciando la popolazione in uno stato di crescente povertà.
La ridimensionata presenza di Hezbollah nel paese a causa della guerra in Libano, gli incessanti bombardamenti israeliani che hanno spinto Teheran a ridurre al minimo le proprie forze armate sul territorio siriano, e il disimpegno russo dovuto al conflitto ucraino, avrebbero creato un vuoto geopolitico in Siria, del quale ha approfittato un attore che era finora rimasto in disparte nell’attuale scontro regionale: la Turchia.
(Segue)