Israele/Palestina: la violenza di Hamas per sfuggire all’oblio
L’attacco di Hamas riporta al centro il rimosso problema palestinese, complicato dalla rivalità fra Israele e Iran, e attira su Gaza la sproporzionata risposta militare israeliana.
Nelle prime ore del 7 ottobre, Hamas ha lanciato un attacco dalla Striscia di Gaza che ha colto il mondo di sorpresa. Una pioggia di razzi si è riversata sul territorio israeliano mentre droni armati colpivano le torri del sistema di allarme elettronico lungo la barriera che circonda l’esile lingua di terra palestinese.
Dopo aver violato la barriera in più punti, o averla oltrepassata con deltaplani a motore, i miliziani palestinesi si sono infiltrati nelle città e nelle basi militari limitrofe, uccidendo indiscriminatamente militari e civili, inclusi anziani e bambini, e catturando numerosi ostaggi che sono stati condotti nella Striscia.
Verso mezzogiorno, il premier israeliano Benjamin Netanyahu annunciava che Israele era “in guerra”, assicurando che “il nemico” avrebbe pagato un prezzo “mai conosciuto prima”.
Nel frattempo, l’aviazione israeliana cominciava a colpire presunte strutture di Hamas, incluse diverse torri residenziali, all’interno della Striscia di Gaza, mentre l’esercito era impegnato a neutralizzare i combattenti palestinesi presenti sul territorio israeliano.
Il bilancio, dopo quattro giorni di conflitto, era impressionante. Il ministero della sanità israeliano parlava di 1.200 israeliani uccisi e 3.700 feriti. Stime delle forze armate parlavano di 169 soldati uccisi. Circa 1.500 miliziani di Hamas erano stati eliminati in territorio israeliano, mentre il ministero della sanità di Gaza comunicava l’uccisione di 1.055 persone e il ferimento di 5.184 nella Striscia.
L’azione di Hamas ha avuto una dimensione nuova e inusitata. E’ la prima volta che i suoi uomini sono riusciti a sconfinare in territorio israeliano in così gran numero ed a prendere il controllo di intere comunità israeliane. E’ anche la prima volta che essi sono riusciti a catturare decine di ostaggi, civili e militari.
Un misterioso fallimento dell’intelligence
L’apparato di sicurezza israeliano sembra essere stato colto di sorpresa, in quello che è stato definito un fallimento di intelligence senza precedenti nella storia di Israele. E’ stato suggerito il paragone con la guerra dello Yom Kippur del 1973, il cui cinquantesimo anniversario è caduto il 6 ottobre, proprio alla vigilia dell’attacco di Hamas. In quell’occasione, l’esercito egiziano e quello siriano sfondarono inaspettatamente le difese israeliane, infliggendo all’esercito di Tel Aviv un duro colpo psicologico.
L’azione palestinese è stata condotta durante la giornata di sabato, lo Shabbat ebraico, che quest’anno coincideva anche con la festività di Simchat Torah. Si è anche detto che l’esercito israeliano era concentrato su possibili minacce provenienti dal Libano e dalla Cisgiordania. Le divisioni interne causate dalla riforma giudiziaria avanzata dal governo, che hanno suscitato la protesta di numerosi riservisti, possono aver intaccato la prontezza delle forze armate.
Eppure Hamas deve aver preparato questo attacco per mesi, ed appare incredibile che tali preparativi siano passati del tutto inosservati. Gaza è una delle aree più strettamente sorvegliate del pianeta, tramite sensori, telecamere, droni ed altri strumenti elettronici, attraverso il controllo delle comunicazioni, tramite la raccolta di informazioni da fonti umane (Israele ha tradizionalmente usufruito di una vasta rete di informatori a Gaza).
Molti osservatori si sono chiesti come sia stato possibile che i piani di una simile operazione siano potuti rimanere segreti, che il sistema di allarme (pur pesantemente danneggiato) non abbia rilevato in alcun modo le molteplici falle prodotte nella barriera attorno a Gaza, che le postazioni militari attorno alla Striscia fossero così sguarnite, che le forze armate israeliane abbiano impiegato ore per reagire.
Così come vi sono le testimonianze di diversi soldati in congedo secondo i quali ogni movimento attorno alla barriera è normalmente registrato attraverso molteplici sistemi di sorveglianza, per cui movimenti di uomini come quelli dell’operazione condotta da Hamas sono inevitabilmente rilevati.
Yigal Carmon, ex consigliere antiterrorismo dei governi Shamir e Rabin, aveva pubblicato alla fine di agosto un rapporto eloquentemente intitolato “Signs of Possible War in September – October”.
Basandosi principalmente su fonti aperte, il rapporto registrava gli accresciuti sforzi di contrabbandare armi in Cisgiordania e a Gaza, così come gli incontri fra rappresentanti iraniani e membri di Hamas, Hezbollah, e della Jihad Islamica.
E’ emerso anche che, alcuni giorni prima dell’azione di Hamas, il capo dell’intelligence egiziana Abbas Kamel aveva avvertito l’ufficio del premier israeliano che qualcosa di grosso era in preparazione a Gaza. Kamel sarebbe rimasto “sbalordito” dall’indifferenza mostrata dai responsabili israeliani, i quali avrebbero ignorato l’avvertimento.
La notizia è stata confermata da più fonti. Il Cairo ha grande interesse ad evitare la destabilizzazione di una delle aree più povere e densamente popolate del pianeta, che confina con il suo territorio.
Secondo fonti arabe, gli stessi membri di Hamas sarebbero rimasti sorpresi dal “successo” oltre ogni previsione del loro attacco.
Netanyahu fuori dall’angolo
Comunque siano andate le cose, a seguito della violenta azione di Hamas, Netanyahu ha ottenuto un insperato ricompattamento del paese dopo circa un anno di aspre divisioni e oceaniche proteste di piazza causate dalla sua riforma giudiziaria, considerata da molti come una minaccia alla democrazia israeliana.
La mobilitazione militare, in vista di un probabile intervento di terra nella Striscia, ha ricomposto la frattura con l’esercito e con le forze politiche che si oppongono al premier, culminando nella costituzione di un governo di unità nazionale con il leader dell’opposizione Benny Gantz, già ministro della difesa e capo di stato maggiore dell’esercito. I problemi di Netanyahu, però, sono probabilmente solo rimandati.
E’ stato anche costituto un ristretto “gabinetto di guerra” composto, oltre che da Gantz e Netanyahu, dall'attuale ministro della difesa Yoav Gallant, da Gadi Eizencot, altro ex capo di stato maggiore e membro del partito di Gantz, e da Ron Dermer, attuale ministro degli affari strategici.
Le ragioni di Hamas
A prescindere dalle misteriose e inspiegabili falle nell’intelligence israeliana, l’abilità militare di Hamas e la sua capacità di pianificazione hanno giocato un ruolo altrettanto importante.
La scelta di compiere l’attacco praticamente in coincidenza con il cinquantenario della guerra dello Yom Kippur, nella cui fase iniziale gli eserciti arabi misero in grave difficoltà Israele, probabilmente non è casuale.
Ma senza dubbio vi sono motivazioni più profonde alla base di quest’azione così meticolosamente pianificata, sebbene la Casa Bianca, seguita da altri politici e mezzi di informazione occidentali, abbia parlato di “attacchi non provocati” dei terroristi di Hamas contro i civili israeliani.
L’azione del gruppo palestinese è stata certamente efferata e indiscriminata, scavando un nuovo solco fra i due popoli. Era prevedibile che, pur riportando l’attenzione sulla questione palestinese, essa avrebbe provocato una nuova terribile esplosione di violenza invece di riattivare gli sforzi negoziali.
Tuttavia definirla “non provocata” equivale a decontestualizzare e destoricizzare un episodio drammatico della conflittuale convivenza israelo-palestinese. Ciò riflette la tendenza degli ultimi anni a derubricare completamente la questione palestinese dall’elenco delle crisi internazionali da risolvere.
Ed è proprio questo tentativo, evidente sia in Israele che a livello internazionale, di archiviare definitivamente il problema palestinese, destinandolo all’oblio, che probabilmente ha rappresentato per Hamas un potente incentivo a compiere un’azione così eclatante e sanguinosa.
Un popolo privato dei propri diritti
Noura Erekat, avvocato per i diritti umani e docente alla Rutgers University, ha scritto che, nel narrare i tragici eventi di questi giorni, “pochi osservatori occidentali hanno evidenziato il contesto di violenza strutturale di Israele che ha condannato i palestinesi a una morte lenta, perdendo così un’opportunità fondamentale per promuovere una soluzione vera e duratura nella regione”.
La nascita di Israele coincise con la “Nakba” (Catastrofe) palestinese, che tra il 1947 e il 1949 portò alla distruzione di circa 530 villaggi e città, ed alla pulizia etnica di 750.000 palestinesi. Israele ha mantenuto il controllo militare sulla grande maggioranza dei palestinesi sul territorio israeliano dal 1948 al 1966, e sui Territori occupati di Cisgiordania e Gaza dal 1967 ad oggi.
Negli ultimi 56 anni, le autorità israeliane hanno facilitato il trasferimento di ebrei israeliani nei Territori occupati garantendo loro uno status privilegiato, rispetto ai palestinesi che vi risiedono, in materia di diritti civili, accesso alla terra, libertà di movimento, diritti di residenza e di proprietà.
I governi israeliani che si sono succeduti nel tempo non solo hanno progressivamente abbandonato ogni pretesa di negoziare con la loro controparte la creazione di uno stato palestinese, ma sembrano intenzionati a governare indefinitamente i palestinesi continuando a negar loro diritti e libertà fondamentali.
Ciò vale per gli oltre 2 milioni di palestinesi che vivono sotto assedio a Gaza da 16 anni, in quella che è stata definita una “prigione a cielo aperto”, ma anche per i 3 milioni di palestinesi ormai costretti a vivere in 167 enclave separate fra loro in Cisgiordania, secondo quella che organizzazioni come Human Rights Watch ed Amnesty International hanno definito una forma di apartheid.
Nel frattempo, a Gerusalemme Est, anch’essa ormai separata dal resto dei Territori occupati, i residenti palestinesi vengono costantemente espulsi dalle loro case in base ad un chiaro programma di “ebraizzazione” della città.
La prigione di Gaza
Sebbene solitamente si ritenga che l’assedio di Gaza sia iniziato nel 2007, dopo la cattura del soldato israeliano Gilad Shalit da parte di Hamas, esso in realtà era già in atto dal 2005, anno in cui il premier Ariel Sharon decise il disimpegno unilaterale israeliano dalla Striscia, rimuovendo tutti i coloni e distruggendo gli insediamenti e le loro infrastrutture per impedire ai palestinesi di usufruirne. Da allora, Israele ha mantenuto il controllo esclusivo dello spazio aereo, delle acque territoriali, e del perimetro terrestre di Gaza (ad eccezione del confine sud controllato dall’Egitto).
L’ONU e diverse organizzazioni umanitarie hanno condannato l’assedio definendolo illegale e catastrofico. Le carenze igieniche, la scarsità di acqua potabile, la frequente penuria di cibo provocata dall’embargo, spinsero nel 2015 un’agenzia dell’ONU ad ammonire che la Striscia sarebbe potuta diventare inabitabile entro il 2020.
Il 53% della popolazione di Gaza (per circa metà costituita da minorenni) vive sotto il livello di povertà, in condizioni drammaticamente aggravate dai ripetuti e massicci attacchi militari condotti da Israele a partire dal 2008.
Inoltre, va ricordato che quella di Gaza è essenzialmente una popolazione di profughi. Circa il 70% di coloro che vivono nella Striscia proviene da famiglie sfollate nella guerra del 1948.
Gli aspetti taciuti del rapporto Hamas-Israele
Spesso si sente affermare che le condizioni drammatiche in cui versa Gaza sono una pressoché inevitabile conseguenza del fatto che la Striscia è governata da un gruppo estremista come Hamas, con il quale non è possibile alcun negoziato visto che esso rifiuta perfino il diritto di Israele ad esistere.
Tuttavia, anche a questo proposito sono necessarie alcune precisazioni.
Negli anni ’70 del secolo scorso, Israele favorì l’ascesa di Hamas addirittura attraverso finanziamenti al movimento della Fratellanza Musulmana, da cui sarebbe emerso il gruppo. In quegli anni, l’avversario di Tel Aviv era l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), una formazione laica e di sinistra guidata da Yasser Arafat, leader del partito Fatah.
Come rivelò nel 2001 un ex alto funzionario della CIA, l’iniziale sostegno di Israele a Hamas “fu un tentativo volto a dividere e diluire l’appoggio ad un’OLP laica e forte, ricorrendo ad un’alternativa religiosa in competizione”.
Per le componenti più reazionarie dell’establishment israeliano, il sostegno a Hamas aveva una finalità ancor più radicale. L’idea era che, se il gruppo avesse raggiunto il potere, avrebbe respinto qualsiasi processo di pace.
Ciò avrebbe permesso ad Israele di continuare a sostenere formalmente la soluzione dei due stati deprecando la mancanza di un “partner di pace” dal lato palestinese.
Fu così che, mentre i rappresentanti dell’OLP dovevano fronteggiare la dura repressione dello stato ebraico nei Territori occupati, Hamas poteva operare liberamente a Gaza, ed anche ricevere generosi finanziamenti.
Quando divenne primo ministro nel 2009, Netanyahu fece propria la strategia secondo cui rafforzare Hamas a spese dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), nel frattempo subentrata all’OLP, era un bene per Israele.
Obiettivo di questa strategia era perpetuare la frattura tra Hamas a Gaza e l’ANP in Cisgiordania. Tale frattura, a sua volta, avrebbe prolungato la paralisi diplomatica e allontanato il “pericolo” di negoziati con i palestinesi finalizzati alla creazione di due stati.
Tra il 2012 e il 2018, Netanyahu diede il via libera al Qatar per trasferire una somma complessiva di circa 2 miliardi di dollari a Gaza. Almeno metà di questa somma finì nelle tasche di Hamas, inclusa la sua ala militare.
In un’intervista rilasciata nel maggio 2019, Gershon Hacohen, uno stretto alleato di Netanyahu, dichiarò: “Dobbiamo dire la verità, la strategia di Netanyahu è impedire l’opzione dei due stati, e perciò sta trasformando Hamas nel suo partner più stretto: Hamas è apparentemente un nemico, ma segretamente un alleato”.
Un governo visceralmente antipalestinese
L’insediamento, lo scorso dicembre, dell’ultimo governo Netanyahu, composto in buona parte da esponenti radicali e antipalestinesi, ha ulteriormente aggravato la situazione e i livelli della violenza perpetrata a danno dei residenti nei Territori occupati.
Dall’inizio dell’anno alla fine di settembre, oltre 200 palestinesi e 30 israeliani sono stati uccisi nei Territori occupati e in Israele. Dal pogrom nella città di Huwara ad opera dei coloni, alle incursioni letali delle forze israeliane a Jenin, gli episodi di violenza ai danni dei palestinesi si sono moltiplicati.
Alcuni esponenti del governo Netanyahu perseguono politiche apertamente annessioniste.
Nel 2017, l’attuale ministro delle finanze Bezalel Smotrich pubblicò un manifesto radicale intitolato il “Piano decisivo” (o alternativamente il “Piano di soggiogazione”) che prevedeva di offrire ai palestinesi in Israele e nei Territori occupati tre opzioni: accettare di divenire residenti con ridotti diritti di voto, emigrare, oppure resistere ed esporsi alla potenza militare delle forze armate israeliane.
Similmente, un decennio prima di divenire ministro della giustizia, Yariv Levin aveva affermato che era necessario implementare riforme giudiziarie finalizzate essenzialmente all’annessione dei territori palestinesi.
Il trasferimento o l’espulsione dei palestinesi verso altri paesi è anche un elemento chiave dell’agenda dei coloni che occupano sempre più massicciamente la Cisgiordania.
Normalizzazione israelo-saudita
Il deterioramento della situazione palestinese nei Territori occupati e in Israele è stato accompagnato dalla progressiva marginalizzazione della questione palestinese a livello internazionale.
Il presidente americano Joe Biden ha proseguito la politica del suo predecessore Donald Trump di accantonare il problema palestinese puntando invece alla normalizzazione dei rapporti fra Israele e i paesi arabi. In particolare, la Casa Bianca stava negoziando una difficile riconciliazione fra Tel Aviv e Riyadh.
Nel 2020, Trump aveva sponsorizzato i cosiddetti “Accordi di Abramo” che avevano portato all’instaurazione di rapporti diplomatici fra Israele da un lato, e Bahrein ed Emirati Arabi Uniti dall’altro.
Oltre a puntare alla riappacificazione fra Israele e i paesi arabi a prescindere dalla questione palestinese, tali accordi si prefiggevano la creazione di un fronte arabo-israeliano “de facto” che portasse all’ulteriore emarginazione dell’Iran.
Per queste due ragioni, scrissi fin da allora che gli Accordi di Abramo non avrebbero portato la pace nella regione. Gli eventi di questi giorni confermano drammaticamente quella tesi.
Il deterioramento della situazione in Palestina, e il negoziato israelo-saudita inviso ai palestinesi, sono probabilmente le ragioni che hanno spinto Hamas ad agire, in un ultimo disperato tentativo di scongiurare il definitivo oblio della questione palestinese.
Il gruppo potrebbe perfino aspirare alla rioccupazione di Gaza da parte israeliana, che gli consentirebbe di tornare esclusivamente alla lotta armata lasciando a Israele l’impossibile compito di governare la Striscia.
Nel frattempo, l’intera causa palestinese è ad un bivio, con l’ANP guidata da Mahmoud Abbas profondamente delegittimata e ormai sull’orlo del collasso a causa dei magri risultati ottenuti, mentre si profila un’incerta lotta per la successione all’ottantasettenne Abbas.
Hamas e l’Iran
A complicare ulteriormente il quadro, vi sono le accuse rivolte all’Iran da diversi responsabili israeliani ed americani, secondo cui Teheran sarebbe il mandante dell’attacco compiuto da Hamas. Per le ragioni esposte sopra, anche gli iraniani hanno interesse a sabotare un riavvicinamento fra Israele e Arabia Saudita.
Malgrado tali accuse, la posizione ufficiale della Casa Bianca e del governo Netanyahu è che, sebbene Teheran possa in linea generale essere considerata complice di Hamas per avergli fornito sostegno finanziario, addestramento ed armi (al pari del Qatar, del resto), al momento non vi sarebbero prove di un coinvolgimento iraniano diretto nell’ideazione e organizzazione dell’attacco del 7 ottobre.
L’opinione dominante è che Hamas, pur essendo un alleato dell’Iran, sia una attore palestinese indipendente che non agisce agli ordini di Teheran. Sebbene il gruppo possa aver impiegato armi e finanziamenti iraniani, esso avrebbe agito in base ai propri interessi derivanti dalla realtà palestinese.
Allo stesso tempo, a Washington e Tel Aviv vi è preoccupazione per il crescente coordinamento fra Hamas, la Guardia rivoluzionaria iraniana, e il libanese Hezbollah, anche attraverso la creazione di una sala operativa congiunta in Libano.
Tale coordinamento accresce i rischi di una probabile operazione israeliana di terra a Gaza, che potrebbe sfociare in un conflitto su più fronti, con il coinvolgimento di Hezbollah, ma anche dello scacchiere siriano, dell’Iraq e dello Yemen. In questi paesi, i gruppi armati sciiti alleati di Teheran hanno minacciato di colpire gli interessi americani nella regione nel caso di un intervento USA al fianco di Israele a Gaza.
A ciò si aggiunge il dilemma di Washington, la cui mobilitazione a sostegno di Tel Aviv, attraverso l’invio di armi e della portaerei USS Gerald Ford, potrebbe andare a scapito dello sforzo bellico a supporto di Kiev.
L’operazione militare israeliana a Gaza si preannuncia dunque sanguinosa, con conseguenze catastrofiche per i residenti della Striscia, e tuttavia caratterizzata da obiettivi non ancora chiaramente definiti (al di là della volontà di ridimensionare pesantemente, o addirittura tentare di annientare, Hamas), ed esposta a rischi di escalation regionale e di grave inasprimento delle tensioni internazionali.
Ottima analisi, Roberto. L'ipocrisia occidentale, tanto solerte nel richiamare i diritti di qualsiasi persona, si amplifica quando la questione palestinese, che si trascina da tre quarti di secolo, viene addirittura eliminata dalle agende politiche delle varie cancellerie per non turbare "l'unica democrazia del Medio Oriente". E qui pare predominante la componente ebraica statunitense che condiziona pesantemente qualsiasi politica interna ed estera di Washington. Sin quando la perenne crisi israelo-palestinese sarà sfruttata per fini che vanno oltre anche la geo politica, fini che si possono individuare in una pedina del controllo mondiale, allora quel territorio e i palestinesi in particolare pagheranno un contributo pesantissimo. Certo, stante la situazione è estremamente difficile, ma un'idea di incontro per tentare l'avvio di una soluzione dovrebbe partire dall'eliminazione politica delle forze religiose integraliste da entrambi i fronti. Con una situazione così radicalizzata pare quasi facile pronosticare un'ulteriore catastrofe, forse voluta da qualche regia mica tanto occulta.
Analisi eccellente, come sempre.