Davos 2022: la metamorfosi del World Economic Forum
Il Wef riscopre la geopolitica e si schiera nella nuova contrapposizione globale
All’insegna dello slogan “La storia a un punto di svolta”, Davos 2022 è stato uno fra i più significativi incontri annuali del World Economic Forum (Wef) fin dalla sua fondazione più di cinquant’anni fa.
Le giornate di colloqui e dibattiti in questa località svizzera fra le montagne dei Grigioni, la scorsa settimana, hanno rispecchiato il clima pesante che si respira in Occidente dallo scoppio del conflitto in Ucraina.
Davos è un paese di circa 11.000 abitanti. L’imponente dispositivo di sicurezza dispiegato a protezione dell’evento – una no-fly zone imposta dall’aviazione svizzera, e 5.000 soldati in aggiunta agli uomini della polizia locale, (praticamente 1 militare ogni 2 abitanti del paese, e più di 2 militari per ciascuno degli oltre 2.000 invitati all’incontro) – testimonia sia della rilevanza di tale appuntamento, sia del senso di insicurezza delle élite occidentali in questo frangente storico.
Un frangente che segna la fine della globalizzazione basata sul business transnazionale, all’ombra dell’egemonia unipolare americana che abbiamo conosciuto negli ultimi trent’anni, e una sorta di appello a “serrare i ranghi” dello schieramento atlantico.
Agenda globalista
Fondato nel 1971 dal professore tedesco Klaus Schwab, che ne è tuttora presidente, il Wef ha sempre promosso un’agenda globalista basata sul coinvolgimento del grande capitale privato a prescindere dai differenti sistemi politici in cui si trova ad operare.
Anche la Russia era un membro attivo del Forum. Nell’ottobre del 2021, Mosca aveva annunciato l’apertura in territorio russo di un Centro per la quarta rivoluzione industriale affiliato al Wef.
Negli ultimi anni, e fino a pochi mesi fa, il presidente cinese Xi Jinping era stato fra gli invitati più attesi a Davos, e fra gli speaker più popolari.
Di fronte a un’America sempre più ripiegata sui propri problemi interni, e incline a nuove forme di protezionismo (basti pensare alla guerra dei dazi di Trump), il presidente cinese si era atteggiato a difensore della globalizzazione e del libero commercio a partire dall’edizione del 2017.
In quell’occasione, Schwab aveva lodato la Belt and Road Initiative (Bri), il progetto cinese di integrazione eurasiatica anche noto come “nuova via della seta”. Un memorandum d’intesa tra il Wef e Pechino era stato firmato a maggio di quell’anno nella capitale cinese per “sviluppare modelli di cooperazione fra pubblico e privato” a sostegno della Bri.
Solo pochi mesi fa, all’appuntamento virtuale di Davos tenutosi a gennaio, Xi Jinping aveva posizionato Pechino come motore indispensabile di una nuova globalizzazione. Il messaggio cinese agli uomini d’affari riuniti all’incontro era stato chiaro: la Cina sarebbe rimasta un rifugio sicuro per il capitale transnazionale.
Demolizione controllata dell’economia
Ma le crepe nell’ordine globale erano già evidenti. Il sistema finanziario occidentale non si era più ripreso dopo la crisi del 2008. L’economia era stata sostenuta artificialmente dai massicci interventi delle banche centrali che, a suon di quantitative easing, avevano espanso i loro bilanci oltre ogni limite alimentando nuove bolle speculative.
Un nuovo tracollo, inevitabile, era giunto con la crisi del Covid-19, durante la quale le élite finanziarie hanno compiuto una sorta di “demolizione controllata” dell’economia.
I provvedimenti economici per “contenere il covid” hanno anche rappresentato la seconda tappa in un processo di smantellamento e riorganizzazione della globalizzazione (attraverso la chiusura dei confini e la ridefinizione delle catene di fornitura) che era iniziato con la guerra commerciale di Trump.
I nodi, tuttavia, non hanno tardato a giungere al pettine: catene di fornitura in tilt, impennata dell’inflazione, aumento del prezzo delle materie prime e dei costi di spedizione.
Riformare il capitalismo
Per Schwab, la crisi del Covid-19 all’inizio del 2020 rappresentava “una rara e ristretta finestra di opportunità per riflettere, reinterpretare e reimpostare il nostro mondo al fine di creare un futuro più sano, equo e prospero”.
Secondo il fondatore del Wef, il mondo doveva “agire congiuntamente e rapidamente per rinnovare tutti gli aspetti delle nostre società e delle nostre economie, dall’istruzione al contratto sociale, e alle condizioni di lavoro. Ciascun paese, dagli Stati Uniti alla Cina, deve partecipare, ed ogni industria, da quella petrolifera e del gas a quella tecnologica, deve essere trasformata. In breve, abbiamo bisogno di un ‘Grande Reset’ del capitalismo”.
Le componenti di questo Grande Reset dovevano essere tre:
1) l’introduzione della stakeholder economy, una nuova forma di capitalismo in cui sono le grandi compagnie a occuparsi dei bisogni di tutte le componenti (stakeholder) della società, di fatto prendendo il posto dello stato;
2) la transizione verso le energie rinnovabili ed un’economia più sostenibile;
3) il lancio definitivo della Quarta rivoluzione industriale, un insieme di nuove tecnologie il cui effetto finale sarebbe stato quello di “fondere il mondo fisico, digitale e biologico, influenzando tutte le discipline, le economie e le industrie, e perfino sfidando l’idea di cosa rappresenti l’essere umano”.
Nella pratica, tuttavia, il Build Back Better, slogan strettamente legato al concetto di Grande Reset, e ossessivamente propagandato da tutti i leader occidentali al culmine della crisi del Covid-19, si è tradotto in un’inflazione senza precedenti a causa della ridefinizione delle catene di fornitura, in prezzi di gas e petrolio alle stelle in conseguenza di una mal concepita transizione energetica, nel crollo dei mercati e nella stagnazione economica – tutto ciò ben prima del conflitto con la Russia.
La trasformazione economica del Grande Reset rischia di tradursi, inoltre, in un’automazione sempre più spinta della produzione, che lascerà senza lavoro milioni di persone, in una possibile ridefinizione del sistema finanziario incentrata sull’introduzione dell’identità digitale e di valute digitali controllate dalle banche centrali, e in una crescente sorveglianza di massa.
Nelle parole dello stesso Klaus Schwab, “nella sua forma più pessimistica e disumanizzata, la Quarta rivoluzione industriale potrebbe davvero avere il potenziale per “robotizzare” l’umanità privandoci così del nostro cuore e della nostra anima”.
Un party transatlantico
Dopo il 2008, l’aumento delle tensioni geopolitiche fra Stati Uniti da un lato, e Russia e Cina dall’altro, è andato di pari passo con l’avvitarsi della crisi economica in Occidente.
Se l’incontro annuale del Wef è sempre stato all’insegna del globalismo e del business senza frontiere, l’edizione conclusasi pochi giorni fa a Davos si è contraddistinta per il fatto di non essere più in grado di riunire nella stessa stanza i principali attori globali.
Gli uomini d’affari russi erano frequentatori abituali delle precedenti edizioni, ma questa volta le compagnie russe sono state escluse dall’incontro, mentre il padiglione di “Casa Russia” è stato trasformato nella “Casa dei crimini di guerra russi”.
Laddove il presidente cinese Xi Jinping si era sempre rivolto in prima persona alla platea del Wef negli ultimi anni, questa volta a Davos vi era solo una delegazione cinese di basso livello, concentrata soprattutto sulle questioni climatiche.
Per un forum solitamente abituato a mettere in risalto l’interconnessione degli affari globali, Davos 2022 è sembrato piuttosto una sorta di party transatlantico. L’Ucraina è stata posta al centro del palcoscenico.
“Questa guerra è davvero un punto di svolta nella storia, e rimodellerà il nostro panorama politico ed economico nei prossimi anni”, ha dichiarato Schwab nel suo discorso di apertura.
In conseguenza delle durissime (ed autolesioniste) sanzioni imposte dall’Occidente, un altro brandello di globalizzazione, quello dell’integrazione russo-europea, cede il posto a una nuova cortina di ferro nel vecchio continente.
Il presidente ucraino Zelensky, che si è rivolto in video alla platea di Davos, è stato accolto con applausi calorosi, ed ha invitato i manager presenti ha rompere ogni residuo rapporto con la Russia.
“Ogni commercio con l’aggressore dovrebbe essere interrotto”, ha dichiarato, aggiungendo che “tutte le imprese straniere dovrebbero lasciare la Russia affinché i vostri marchi non siano associati a crimini di guerra”.
Addio al modello neoliberista globalizzato
Gli ha fatto eco, il giorno successivo, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, affermando che “la libertà è più importante del libero commercio”, e che “la protezione dei nostri valori è più importante del profitto”.
Una frase che potrebbe essere interpretata anche in altro modo, tuttavia, alla luce della nuova contrapposizione fra blocchi che sulla scena mondiale sta prendendo il posto del precedente modello globalizzato all’ombra dell’egemonia unipolare americana.
Il messaggio di Stoltenberg – non a caso il primo rappresentante dell’alleanza militare transatlantica – sottintende, infatti, che l’egemonia occidentale (ed americana in primis) è più importante del modello economico che essa può di volta in volta adottare.
Se il modello neoliberista globalizzato non è più funzionale a questo obiettivo (peraltro ormai sfuggente), può essere abbandonato in favore di un atteggiamento più protezionistico, caratterizzato da catene di fornitura regionalizzate e non più globali, e fondate su un principio di resilienza piuttosto che di efficienza, anche se ciò comporterà inevitabilmente un aumento dei costi.
Il ritorno della geopolitica
Sul Financial Times, Gideon Rachman ha scritto che “i politici e i generali sono tornati al comando, e gli uomini d’affari, che per decenni hanno creduto che il mondo intero fosse un potenziale mercato, sono disorientati”.
Senza dubbio, i partecipanti al forum di Davos si sono infine dovuti confrontare con il ritorno della geopolitica, un processo messo in moto ormai da diversi anni, dopo che la crisi finanziaria del 2008, e le fallimentari imprese militari americane in Iraq e Afghanistan, hanno minato le fondamenta dell’edifico unipolare americano.
Ma ciò non significa che i grandi poteri economici (finanziari, tecnologici, farmaceutici, ecc.) rappresentati dal Wef si accingano ad assumere un ruolo di secondo piano. Anzi, tali poteri saranno essenziali nella nuova competizione globale sul piano tecnologico e delle risorse.
Semmai, nel nuovo scenario di contrapposizione internazionale che si sta delineando, il forum di Davos dovrà rassegnarsi a giocare un ruolo meno globale, soprattutto in prospettiva di un crescente “decoupling” fra Usa e Cina.
Così, a trovarsi più disorientati a Davos sono stati i politici e gli uomini d’affari non occidentali, che hanno dovuto fare i conti con un nuovo mondo in cui le riserve di una banca centrale possono essere confiscate e le banche commerciali possono essere disconnesse dal sistema internazionale di pagamento dello Swift.
Per loro è difficile credere alla retorica dello scontro fra democrazia e autocrazia promossa dall’amministrazione Biden, e allo stesso tempo vi è il timore di dover presto essere costretti a scegliere fra America e Cina.
“Chiamata alle armi”
Questi problemi non riguardano un uomo d’affari prestato alla politica come George Soros, miliardario americano di origine ungherese che ha fondato la Open Society Foundations, giocando un ruolo chiave nella trasformazione dell’Ucraina da paese sovietico a mercato per i capitali occidentali e a paese pilota della Quarta rivoluzione industriale promossa dal Wef.
Rivolgendosi ai partecipanti di Davos, egli si è scagliato contro i leader di Russia e Cina. Il primo, Vladimir Putin, colpevole di aver dato inizio ad un conflitto che potrebbe assumere dimensioni mondiali, ed al quale “la nostra civiltà non sopravviverebbe”. Il secondo, Xi Jinping, responsabile di perseguire una politica di soppressione totale del Covid-19 di fatto non sostenibile.
Un’analoga “chiamata alle armi” è stata pronunciata dalla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen.
Attribuendo a Putin l’intera colpa del conflitto in Ucraina, la von der Leyen ha affermato che “contrastare l’aggressione della Russia è un compito dell’intera comunità globale.”
“L’Ucraina deve vincere questa guerra. E l’aggressione di Putin deve essere una disfatta strategica. Faremo tutto ciò che possiamo per aiutare gli ucraini ad avere la meglio ed a riprendere il futuro nelle loro mani”, ha dichiarato la leader europea.
L’unica eccezione in questo panorama di aperta polarizzazione è stata rappresentata dall’ex segretario di stato americano Henry Kissinger, il quale ha ammonito che non riaprire i negoziati con la Russia e continuare ad antagonizzare Mosca potrebbe avere conseguenze disastrose per la stabilità dell’Europa sul lungo periodo.
Tali ammonimenti, tuttavia, non hanno ottenuto molto seguito. Complessivamente, Davos ha abbracciato il nuovo clima di contrapposizione che si respira in Occidente, ha rotto i legami con Mosca, e si interroga su quale sarà il futuro dei suoi rapporti con Pechino.
“Il futuro lo costruiamo noi”
Pur nella crescente polarizzazione internazionale, che in certa misura ridimensiona il ruolo globale del Wef, questa organizzazione rimane uno dei gangli del potere economico e politico occidentale – di un Occidente, tuttavia, meno universale, più ripiegato su se stesso, tuttora incapace di uscire da una crisi nata in seno al modello occidentale, e dove anzi il futuro di quel che rimane della democrazia è messo sempre più a rischio dalle crescenti disuguaglianze e dall’enorme concentrazione di potere politico ed economico in poche mani.
Il Wef rimane una delle principali incarnazioni di questa concentrazione di potere, e di un processo decisionale che viene imposto dall’alto a una società che ha sempre meno voce in capitolo nella definizione del proprio futuro.
Come ha affermato Schwab nel suo discorso inaugurale alla platea di Davos, “il futuro non accade semplicemente, il futuro viene costruito da noi, da una comunità potente come voi qui in questo gruppo. Noi abbiamo i mezzi per migliorare lo stato del mondo”.
Come si evince da queste parole, il “noi” si riferisce ai poco più di 2.000 invitati presenti a Davos.