“Carri di Gedeone”: la fame come arma di guerra a Gaza
La nuova offensiva israeliana, e uno scellerato piano di gestione degli aiuti, stanno sprofondando la Striscia in un caos catastrofico, e forse verso uno spaventoso sistema concentrazionario.

Con una nuova operazione di terra, l’esercito israeliano intende occupare il 75% della Striscia di Gaza entro due mesi. Attualmente le forze armate di Tel Aviv ne controllano stabilmente circa il 40%.
Minacciosamente denominata “Carri di Gedeone”, figura biblica che alla testa di pochi guerrieri annientò l’antica tribù araba dei Madianiti, l’offensiva si annuncia potenzialmente come una brutale operazione di “ingegneria demografica”, se non di pulizia etnica.
In base ai piani dei vertici militari israeliani, l’intera popolazione civile dell’enclave palestinese dovrebbe essere “concentrata” in tre aree designate.
Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, attualmente circa 700.000 persone sono ammassate nella zona costiera di al-Mawasi, nella parte meridionale della Striscia (metà di queste sono sfollate dalla città di Rafah, al confine con l’Egitto, ormai rasa al suolo).
Un altro milione di palestinesi si trovano invece nella parte settentrionale, e verranno concentrati a Gaza City. Una restante porzione di almeno 350.000 residenti verrà ammucchiata nei campi profughi della zona centrale della Striscia, in particolare a Deir el-Balah.
Attualmente, oltre il 70% della Striscia è già sotto ordini di evacuazione o costituita da zone militari israeliane.
L’operazione è completata dall’introduzione di un nuovo piano di gestione degli aiuti, a guida israelo-americana, che estromette l’ONU e ne sostituisce la capillare struttura di distribuzione con un sistema centralizzato.
Tale sistema, costituito da pochissimi centri di erogazione dei generi alimentari, situati soprattutto nel sud della Striscia, è stato condannato dall’ONU e da numerose organizzazioni umanitarie in quanto costringe la popolazione a uno sfollamento forzato per approvvigionarsi.
Obiettivi di Israele
Lo scopo immediato dell’operazione, secondo le dichiarazioni dei vertici militari israeliani, è distruggere le rimanenti infrastrutture di Hamas, sia militari che civili, ricorrendo ad una maggiore potenza di fuoco, e concentrandosi in particolare sulla rete dei tunnel sotterranei.
Le dichiarazione rilasciate nelle scorse settimane da esponenti del governo sono tuttavia ancor più minacciose.
Dopo aver violato il cessate il fuoco, lo scorso 18 marzo, il premier israeliano Benjamin Netanyahu non ha più nascosto di puntare a una pulizia etnica della Striscia di Gaza. Negli ambienti politici israeliani essa viene descritta eufemisticamente come “implementazione del Piano Trump”.
Il riferimento è al piano proposto a febbraio dal presidente americano, che prevede la ridislocazione della popolazione palestinese in altri paesi e la trasformazione della Striscia in una “Riviera del Medio Oriente”.
In tale contesto, Netanyahu ha espresso la sua visione di una fine della guerra nei seguenti termini: “Hamas deporrà le armi; ai suoi leader sarà consentito di espatriare; ci prenderemo cura della sicurezza generale della Striscia di Gaza e permetteremo la realizzazione del Piano Trump di migrazione volontaria”.
Il premier israeliano ha concluso affermando: “Questo è il piano; non lo nascondiamo e siamo pronti a parlarne in qualsiasi momento”.
Durante un’audizione a porte chiuse davanti alla Commissione Affari Esteri e Difesa della Knesset, lo scorso 13 maggio, Netanyahu ha osservato che Israele sta “distruggendo sempre più abitazioni”, a Gaza cosicché i palestinesi “non avranno un posto a cui tornare”, secondo quanto riferito dal quotidiano Maariv.
“L’unica conseguenza ovvia sarà che i cittadini di Gaza sceglieranno di emigrare fuori dalla Striscia”, ha concluso il premier israeliano, ammettendo però che “il nostro principale problema è trovare paesi che li accolgano”.
Pulizia etnica come scelta preferenziale
Un piano di questo genere in realtà non è affatto nuovo. Già alla fine del 2023, a conflitto appena iniziato, erano emersi due piani israeliani – uno di un think tank vicino a Netanyahu, e l’altro del ministero dell’intelligence – per il trasferimento della popolazione di Gaza nel Sinai egiziano.
Circa un anno dopo, le forze armate di Tel Aviv avrebbero implementato il cosiddetto “piano dei generali” per spopolare la parte settentrionale della Striscia, attraverso l’applicazione di un assedio totale e di una tattica della “terra bruciata” da parte dell’esercito.
Gran parte della popolazione di Gaza nord avrebbe però fatto ritorno alle proprie case distrutte durante il cessate il fuoco all’inizio di quest’anno, con una marcia impressionante dal sud della Striscia.
Ma Israele si sta apprestando a spopolare nuovamente la regione. A fine marzo il governo ha anche creato un ufficio speciale per l’“emigrazione volontaria” dei palestinesi dalla Striscia.
Il ministro della Difesa Israel Katz aveva affermato in quell’occasione che l’ufficio avrebbe lavorato in coordinamento con organizzazioni internazionali e con altri paesi, che ad oggi però non sono stati trovati.
Dopo aver da tempo isolato la zona settentrionale dal resto della Striscia attraverso la costruzione del Corridoio Netzarim (una strada militare fortificata), a inizio aprile l’esercito israeliano ha tracciato una seconda strada militare, il Corridoio Morag, che taglia l’enclave palestinese a nord di Rafah.
Israele ha così creato una gigantesca zona cuscinetto, occupata dalle proprie forze armate, che si estende dal confine egiziano alla periferia di Khan Yunis e copre il 20% della Striscia.
Gli aiuti umanitari come arma
In quell’occasione, il ministro Katz aveva ribadito che l’esercito non avrebbe abbandonato le zone di cui aveva preso possesso, che il governo avrebbe proceduto all’applicazione del piano di “emigrazione volontaria”, e che il blocco degli aiuti umanitari nei confronti della Striscia, iniziato il 2 marzo, sarebbe proseguito.
A metà maggio, la popolazione di Gaza era ormai alla fame, una realtà riconosciuta dallo stesso esercito israeliano.
Secondo l’Integrated Food Security Phase Classification (IPC), organismo internazionale legato all’ONU, 244.000 persone nella Striscia si trovavano già al quinto livello, il più critico su una scala di 5, definito come “catastrofe/carestia”.
Lanciando la nuova operazione militare “Carri di Gedeone”, Netanyahu ha infine annunciato l’ingresso di una limitata quantità di aiuti nella Striscia. Egli ha giustificato la decisione, di fronte agli esponenti più intransigenti del suo governo, affermando che le pressioni nei confronti di Israele stavano “raggiungendo una linea rossa”.
Il premier israeliano ha candidamente rivelato che “i più grandi amici [di Israele] nel mondo”, inclusi “senatori americani”, gli avevano detto che c’era una cosa che non avrebbero potuto tollerare: “Non possiamo accettare immagini di fame, fame di massa. […] Non saremo in grado di appoggiarvi”.
Il ministro delle finanze israeliano Bezalel Smotrich, figura intransigente di solito contraria all’ingresso di qualsiasi aiuto a Gaza, ha accettato la decisione di Netanyahu sostenendo che “il minimo necessario” sarebbe entrato nella Striscia al fine di assicurare che “il mondo non ci fermi e non ci accusi di crimini di guerra”.
Gaza Humanitarian Foundation
Da tempo il governo israeliano aveva elaborato un piano per assumere il diretto controllo della distribuzione degli aiuti sottraendolo all’UNRWA, l’Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi.
Parallelamente all’inizio della nuova offensiva, Tel Aviv aveva previsto di inaugurare un’erogazione alternativa dei generi di prima necessità attraverso un’entità appositamente creata allo scopo, la Gaza Humanitarian Foundation (GHF).
La campagna israeliana di delegittimazione dell’UNRWA precede il conflitto scoppiato il 7 ottobre 2023 ed ha raggiunto il suo apice durante il conflitto stesso. Già alla fine del 2023, Tel Aviv aveva pianificato di estromettere l’organismo internazionale dalla gestione degli aiuti a Gaza.
Nel corso delle operazioni militari, inoltre, Israele ha distrutto o danneggiato almeno il 70% delle strutture UNRWA nella Striscia, uccidendo oltre 250 membri dello staff dell’organizzazione.
Nel frattempo, il governo Netanyahu ha elaborato il suo piano alternativo. Sebbene la GHF venga definita come una fondazione a guida americana che opera in coordinamento con Israele, secondo un’inchiesta del New York Times essa è a tutti gli effetti “una creatura israeliana”.
La GHF ha iniziato pochi giorni fa il proprio lavoro di distribuzione degli aiuti nella Striscia, con il supporto di società di sicurezza private americane, ma è già andata incontro a incidenti che hanno provocato il ferimento e anche la morte di alcuni palestinesi.
Un sistema inadeguato
Il suo modus operandi è stato giudicato del tutto inadeguato e pericoloso dall’ONU e da numerose organizzazioni umanitarie internazionali. Il suo apporto, “una goccia nel mare” delle necessità di Gaza.
Il piano della GHF prevede la creazione di una manciata di centri logistici e di distribuzione concentrati soprattutto nel sud e nella zona centrale della Striscia (attualmente tre sono stati ultimati a Rafah, e uno in prossimità del Corridoio Netzarim).
I palestinesi sono dunque obbligati a percorrere a piedi lunghe distanze per ricevere le razioni di cibo in questi centri sovraffollati (dove la sicurezza è gestita da contractor americani), dopo essere stati sottoposti a uno screening biometrico.
Secondo il piano originario della GHF, durante una fase iniziale di durata imprecisata il sistema arriverebbe ad assistere non più del 60% della popolazione di Gaza.
Ciascun centro dovrebbe dunque servire circa 300.000 persone, ma solo un singolo rappresentante per famiglia vi sarà ammesso, per ritirare un pacco di circa 20 kg che dovrebbe sfamare tutti i familiari per alcuni giorni.
A fronte di questo sistema, l’UNRWA gestiva invece una struttura capillare che dispone di circa 400 punti di distribuzione uniformemente presenti in tutta la Striscia, e consegnava la farina non solo a forni e panetterie sul territorio, ma direttamente alle famiglie.
Il nuovo metodo di distribuzione degli aiuti viene imposto da Israele, in collaborazione con gli Stati Uniti, con il pretesto che esso serva ad impedire il furto su vasta scala dei generi alimentari da parte di Hamas.
Ma, come hanno denunciato sia l’ONU che diverse organizzazioni umanitarie internazionali, non vi è alcuna prova (né Israele le ha fornite) del fatto che Hamas compia simili furti sistematici.
Al contrario, vi sono prove dal fatto che Israele consente a bande criminali palestinesi sotto la sua “protezione” di razziare gli aiuti, per poi addossare la colpa a Hamas.
“Zone umanitarie sterili”
Secondo documenti interni della GHF di cui è entrato in possesso il Washington Post, nell’assetto finale del progetto della fondazione i palestinesi vivrebbero in compound sorvegliati, ciascuno dei quali ospiterebbe decine di migliaia di “non combattenti”.
Netanyahu li ha definiti “zone umanitarie sterili” per i civili. E’ facilmente immaginabile che il processo di “sterilizzazione” porti a eccessi ed abusi di ogni tipo nei confronti dei palestinesi.
In attesa della realizzazione del citato progetto di “emigrazione volontaria”, che rimane molto incerto, la popolazione di Gaza verrebbe dunque organizzata secondo un piano che a tutti gli effetti è assimilabile a un sistema di campi di concentramento.
Sono gli stessi documenti interni della GHF consultati dal Washington Post a “paventare il rischio” che il piano così concepito venga assimilato a un sistema concentrazionario dall’opinione pubblica internazionale.
Come riferisce il quotidiano statunitense, al piano per la creazione di “bolle umanitarie” nelle quali concentrare i palestinesi cominciò a lavorare un’unità del ministero della Difesa israeliano, denominata “Coordination of Government Activities in the Territories” (COGAT), già alla fine del 2023.
Ma l’idea alla base della creazione della GHF nacque durante incontri privati fra alti ufficiali militari ed imprenditori israeliani legati all’esercito ed al governo, svoltisi in quello stesso periodo.
Tali personaggi sottoposero il progetto a Phil Reilly, un ex ufficiale della CIA che aveva addestrato i contras in Nicaragua e aveva servito a Kabul.
La Safe Reach Solutions (SRS), società di sicurezza privata gestita da Reilly, ha già operato a Gaza all’inizio del 2025, perquisendo le auto palestinesi durante il cessate il fuoco.
Secondo un’inchiesta di Haaretz, la SRS avrebbe operato a Gaza senza previa autorizzazione di sicurezza da parte dello Shin Bet (il servizio segreto interno di Israele) e su pressione di Ron Dermer, ministro degli Affari Strategici e uomo di fiducia di Netanyahu.
Sia la GHF che la SRS sono state registrate nel novembre 2024 da stretti collaboratori di Reilly. Un ulteriore livello di ambiguità è dato dal fatto che inizialmente esistevano due GHF, una registrata negli USA e l’altra in Svizzera.
La seconda ha chiuso le proprie attività dopo che le autorità svizzere hanno aperto un’inchiesta nei suoi confronti.
Sostegno americano
Non è neanche chiaro chi finanzi la GHF, la quale afferma di aver ottenuto 100 milioni di dollari da un governo estero di cui però non ha fatto il nome.
Yair Lapid, esponente dell’opposizione israeliana, ha sostenuto che Israele finanzierebbe la fondazione attraverso un sistema di shell companies all’estero.
Avigdor Lieberman, ex ministro delle finanze israeliano, ha affermato che i fondi per gli aiuti proverrebbero dal Mossad e dal ministero della Difesa.
A febbraio, è stato il COGAT a contattare diverse ONG internazionali per invitarle a collaborare con il piano della GHF. Di fronte alle reazioni negative delle ONG, alcuni promotori israeliani del progetto hanno suggerito che gli Stati Uniti ne assumessero la guida.
Secondo il Washington Post, l’amministrazione Trump avrebbe accettato di sostenere direttamente il progetto. La Casa Bianca ha minacciato organizzazioni umanitarie come il World Food Program che avrebbe tagliato loro i finanziamenti erogati dal governo americano se non avessero collaborato con la GHF.
Gli Stati Uniti hanno anche appoggiato il progetto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU ed hanno chiesto alle Nazioni Unite di collaborare al suo successo.
Come direttore esecutivo della GHF è stato nominato Jake Wood, un ex marine americano che dopo essere stato in Iraq e Afghanistan aveva fondato Team Rubicon, una ONG che ha operato ad Haiti dopo il terremoto del 2010.
Team Rubicon ha anche collaborato con Palantir, società statunitense che sviluppa tecnologie di sorveglianza e sistemi d’arma fondati sull’intelligenza artificiale e che rifornisce l’esercito israeliano.
A garantire lo svolgimento delle operazioni della GHF provvede, assieme alla SRS, un’altra società di sicurezza privata USA, la UG Solutions, che ha anch’essa già operato a Gaza ed è composta da ex forze speciali americane.
Condanna dell’ONU
Oltre ad avere numerose zone d’ombra, il progetto della GHF sembra contrassegnato dalla confusione. Nell’esercito israeliano sono emersi malumori e incertezze sulle modalità di collaborazione con la fondazione.
Alcuni giorni fa lo stesso Jake Wood si è dimesso affermando che questo “programma di aiuti non può essere attuato nel rispetto dei principi di umanità, neutralità, equità e indipendenza, principi che non intendo abbandonare”.
Dal canto suo Jonathan Whittall, responsabile ONU degli affari umanitari nei Territori occupati, ha lanciato accuse durissime nei confronti della fondazione, affermando che il suo piano non si traduce soltanto in un controllo degli aiuti da parte della potenza occupante, ma è uno schema di “scarsità pianificata”.
Whittall lo ha definito un sistema di “razionamento incentrato sulla sorveglianza” che “legittima una politica intenzionale di privazione”.
Egli ha ricordato che “l’ONU ha rifiutato di partecipare a questo schema, ammonendo che è logisticamente impraticabile e viola i principi umanitari, poiché utilizza gli aiuti come strumento al servizio degli sforzi di Israele volti a spopolare le aree di Gaza”.
Sia lui che altri esponenti dell’ONU hanno ribadito che un sistema di aiuti efficiente esiste, ed è il sistema internazionale che ha operato finora nella Striscia, e che deve avere solo il benestare di Israele per compiere efficacemente il proprio lavoro di assistenza.
"Avigdor Lieberman, ex ministro delle finanze israeliano, ha affermato che i fondi per gli aiuti proverrebbero dal Mossad e dal ministero della Difesa."
Vabbè, paga lo zio Sam insomma. Magari pure gli europei partecipano