Il suicidio energetico della Germania (e dell’Europa)
Una crisi frutto delle scelte politiche fallimentari di Berlino e di altri paesi europei.
Ciò a cui stiamo assistendo in queste settimane sembrava impensabile solo alcuni mesi fa: l’implosione del sistema produttivo tedesco, fondato sull’importazione di energia a basso costo dalla Russia e sull’impiego di manodopera a buon mercato dei paesi dell’Est europeo. Tale sistema aveva fatto della Germania una potenza esportatrice in tutto il mondo.
Ma a rischio è l’intera Europa, non solo perché la Germania è considerata la “locomotiva” del vecchio continente, ma perché quest’ultimo aveva sviluppato un’analoga dipendenza dalle fonti energetiche russe che assicuravano il 40% del fabbisogno europeo di gas via pipeline, ed il 5% sotto forma di Lng (gas naturale liquefatto).
Molte industrie ad alto valore aggiunto in Europa, ed in particolare in Germania (cementifici, industria siderurgica, industria chimica e del vetro), dipendono dal gas come materia prima o fonte di energia. L’industria tedesca è responsabile del 36% del consumo di gas del paese.
Sebbene si senta dire che l’Europa, e la Germania in particolare, avrebbero dovuto diversificare maggiormente le proprie fonti di approvvigionamento, se non addirittura sostituire interamente il gas russo negli anni passati per evitare una crisi di questo genere, c’era un’ottima ragione per la dipendenza energetica europea da Mosca.
E precisamente il fatto che il gas russo era di gran lunga quello più a buon mercato e più facilmente trasportabile nel vecchio continente, tramite comodi gasdotti, semplicemente in conseguenza della posizione geografica della Russia che è parte della massa eurasiatica.
Ciò che lascia maggiormente di stucco della crisi energetica ed economica in cui stanno sprofondando Germania ed Europa è che essa era tutt’altro che inevitabile, essendo frutto delle scelte politiche fallimentari delle leadership di Berlino e di altri paesi europei.
Il dilemma strategico tedesco e la miopia di Berlino
Il progetto tedesco, in particolare, è sempre stato fondato su un modello economicista privo di una visione politica e strategica di lungo periodo. L’obiettivo di Berlino non ha mai avuto una reale dimensione geopolitica, ma è rimasto focalizzato essenzialmente sul mero dominio economico dell’Unione Europea.
Per i tedeschi, la cooperazione con Mosca era finalizzata a questo, non ad un progetto di integrazione paneuropeo, o ad un’Europa “da Lisbona a Vladivostok” come aveva a più riprese proposto il presidente russo Vladimir Putin. Più semplicemente, doveva servire gli interessi economici tedeschi.
Fin dagli ultimi anni dell’Unione Sovietica, Mosca aveva proposto la creazione di un’architettura di sicurezza continentale basata sulla Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Csce) al fine di favorire un processo di disarmo nel continente ed avviare una cooperazione fra Nato e Patto di Varsavia.
L’idea era stata rilanciata da Gorbaciov attraverso la proposta di una “casa europea comune”, e poi dallo stesso Putin che aveva avanzato il concetto di una “grande Europa”, integrata dal punto di vista economico sotto l’ombrello di un’architettura di sicurezza comune.
Ciò avrebbe dovuto offrire una soluzione anche ad un problema chiave della sicurezza europea, la cosiddetta “questione tedesca”, incarnata dalle paure nutrite sia dai paesi dell’Europa occidentale che da quelli dell’Europa dell’Est nei confronti di una possibile egemonia della Germania.
Parte integrante di tale questione era tuttavia il dilemma strategico di Berlino, che potremmo riassumere così: prediligere una Ostpolitik che coniugasse le capacità produttive della Germania con le immense risorse della Russia, suscitando così il risentimento anglo-americano, oppure preferire una Westpolitik che avrebbe posto saldamente la potenza tedesca nell’alveo occidentale, privandola tuttavia della profondità strategica eurasiatica e relegandola al ruolo di ancella di Washington?
La Germania post-1989, sebbene nuovamente unificata e divenuta un gigante economico, non ha saputo risolvere questo dilemma.
Sebbene Mosca avesse appoggiato l’unificazione tedesca in cambio della promessa americana non scritta che la Nato non si sarebbe ulteriormente espansa verso Est, Berlino ha appoggiato l’allargamento dell’Alleanza che, escludendo la Russia, ha nuovamente trasformato l’Europa centrale e orientale in una zona di faglia geopolitica.
Così facendo, la Germania ha di fatto abbandonato gli accordi con Mosca nel quadro della Csce (e poi dell’Osce) finalizzati ad un’architettura paneuropea fondata sul concetto di “sicurezza indivisibile” (in base al quale il contraente di un accordo non può rafforzare la propria sicurezza a spese di quella della controparte).
Allo stesso tempo, Berlino ha fondato le sue fortune economiche proprio sulla manodopera di quell’Europa dell’Est divenuta terreno di scontro fra Nato e Russia (a causa della mancata integrazione di quest’ultima), e sulla cooperazione energetica con l’unica potenza inevitabilmente esclusa da un’architettura di sicurezza europea fondata esclusivamente sull’Alleanza Atlantica.
La Germania e la politica energetica europea
I nodi di questa contraddizione erano destinati a venire al pettine. Anche nell’ambito dell’Ue, la Germania ha seguito un approccio volto a massimizzare il proprio profitto economico, ma allo stesso tempo miope sotto il profilo strategico.
Ciò emerge chiaramente dalla sua politica energetica, in particolare per quanto riguarda i due gasdotti Nord Stream 1 e 2. Il primo, completato nel 2011, permise a Berlino di emanciparsi dal consolidato sistema di forniture attraverso Ucraina, Repubblica Ceca e Slovacchia.
I tedeschi non si fidavano degli instabili vicini slavi, mentre il Nord Stream 1, il cui tracciato era interamente nel Baltico, attraversava le zone economiche esclusive di paesi più affidabili, come Finlandia, Svezia e Danimarca.
Inoltre, dopo che Berlino si era schierata con Washington nel sostenere la Rivoluzione arancione del 2004, e poi la rivolta di Maidan del 2014, l’Ucraina era diventato un corridoio di transito meno affidabile anche per i russi.
Il Nord Stream 2 aveva tracciato e struttura finanziaria simili a quelli del predecessore. La russa Gazprom finanziava il 50% dell’opera, mentre il restante era diviso fra le compagnie di Germania, Francia, Austria e Regno Unito. Ciò permetteva a Berlino di avere l’appoggio della maggior parte dei paesi nordeuropei.
L’Italia aveva un progetto simile per importare il gas russo attraverso il gasdotto South Stream che avrebbe dovuto collegare la Russia alla Bulgaria tramite il Mar Nero, per poi raggiungere le coste italiane attraverso la Grecia.
Al pari del Nord Stream, questa pipeline avrebbe trasportato il gas russo direttamente a paesi dell’Ue, aggirando questa volta non soltanto l’Ucraina, ma anche la Turchia. La Commissione europea tuttavia si oppose fermamente all’infrastruttura poiché non conforme al cosiddetto “Terzo pacchetto energia” dell’Unione che stipulava che produzione e trasmissione del gas dovessero essere gestite da entità differenti.
Nord Stream 1 e 2, al contrario, vennero inizialmente esentati dal Terzo pacchetto energia. Allo stesso modo, la critica che contribuì ad affossare il South Stream, secondo cui esso avrebbe accentuato la dipendenza energetica europea dalla Russia, non influì sui due progetti Nord Stream.
Grazie ad essi, e alla penalizzazione dei paesi dell’Europa meridionale, la Germania poteva giocare un ruolo chiave nel mercato del gas europeo ed avere vantaggi per la propria industria. In sostanza, Berlino aveva incentrato sul gas la maggior parte del fabbisogno energetico del proprio settore industriale.
E’ anche per questo motivo che il governo e l’industria tedeschi hanno accolto di buon grado la decisione dell’Ue di inserire “temporaneamente” il gas fra le energie “verdi” nella tassonomia della finanza sostenibile dell’Unione.
Comanda Washington
Ma, se Berlino ha saputo gestire la sua supremazia economica ed energetica all’interno dell’Ue (anche a scapito degli interessi collettivi dell’Unione), non è stata invece in grado di trovare alcun antidoto contro le mire geopolitiche degli Stati Uniti.
Washington ha sempre detestato la prospettiva di un ulteriore consolidamento di Mosca nel mercato energetico europeo, ed ha sempre ostacolato la realizzazione del Nord Stream 2. In generale, i governi americani non hanno mai visto di buon occhio l’integrazione economica e commerciale dell’Europa – e in primo luogo della Germania – con la Russia.
Inoltre, mentre sostenevano economicamente e militarmente il governo antirusso insediatosi a Kiev dopo la rivolta del 2014, gli Usa volevano che l’Ucraina continuasse a beneficiare delle tasse di transito – pari ad oltre 1 miliardo di dollari l’anno – che Gazprom pagava per l’impiego dei gasdotti ucraini, sovvenzionando così l’economia del paese.
Washington osteggiava perciò qualsiasi progetto di gasdotto che aggirasse l’Ucraina.
Infine, dopo essere divenuti grandi produttori di shale gas, gli Stati Uniti hanno sempre cercato di penetrare a loro volta il mercato energetico europeo con le proprie esportazioni. Ma se, idealmente, gli Usa sognavano di sostituirsi alla Russia come fornitore energetico dell’Europa, in condizioni normali il gas russo rimaneva molto più competitivo dell’Lng a stelle e strisce.
Germania ed Europa sono tuttavia cadute nella trappola americana assecondando le politiche statunitensi volte a trasformare l’Ucraina in un terreno di scontro con la Russia. Dopo aver appoggiato la rivolta del 2014 e l’insediamento a Kiev di un governo ostile a Mosca, gli Usa hanno sostenuto tale governo nella guerra civile scoppiata nell’est del paese, dove le province del Donbass non avevano accettato il rovesciamento del presidente Viktor Yanukovych.
Washington ha anche incoraggiato l’imposizione di sanzioni europee contro Mosca, spingendo quest’ultima a cercare mercati alternativi, anche per le proprie esportazioni energetiche. Nel 2019, la Russia inaugurò il “Power of Siberia”, un gasdotto di 2.200 chilometri che dalla Siberia orientale raggiungeva il nord della Cina.
Il “Power of Siberia 2”, la cui costruzione dovrebbe cominciare nel 2024, sarà alimentato dagli stessi giacimenti che attualmente riforniscono il mercato europeo. Mosca sta anche puntando da anni sul rafforzamento delle proprie infrastrutture per l’esportazione di Lng che, a differenza del gas via pipeline, ha un mercato globale.
Autolesionismo europeo
Gli accordi di Minsk, negoziati nel 2015 con il contributo di Francia e Germania, rappresentarono un compromesso per risolvere il conflitto fra il governo ucraino e i ribelli del Donbass, garantendo a questi ultimi un’autonomia all’interno dello stato. Tali accordi, tuttavia, non sono mai stati implementati da Kiev.
Berlino e Parigi, che avevano giocato un ruolo importante nella stesura degli accordi, successivamente trassero i remi in barca, di fatto incoraggiando i tentativi di Washington di sabotare o rinegoziare l’intesa, e l’atteggiamento ostruzionistico del governo di Kiev.
Con la loro inerzia e la loro propensione ad assecondare l’alleato americano, Germania ed Europa hanno posto le premesse per divenire ostaggi del conflitto per procura tra Russia e Stati Uniti che si stava profilando in Ucraina.
Nel novembre del 2021, Berlino sospese il processo di certificazione dell’ormai completato Nord Stream 2, per poi interromperlo a tempo indeterminato il 22 febbraio di quest’anno, all’indomani del riconoscimento russo delle due repubbliche indipendentiste del Donbass.
L’imposizione delle sanzioni alla Russia avrebbe successivamente influito sul funzionamento del Nord Stream 1, in particolare per la mancata fornitura di assistenza e di pezzi di ricambio da parte occidentale. Per altro verso, Mosca, duramente colpita dalla guerra economica lanciatale da Stati Uniti ed Europa, non aveva più molti incentivi a garantire la puntualità delle forniture.
La Russia, ad ogni modo, ha mantenuto in attività il Nord Stream 1 (ad eccezione di un preannunciato periodo di manutenzione di 10 giorni a luglio), anche perché ciò le consente di continuare a vendere gas in quantità ridotte ma a prezzi maggiorati, conservando allo stesso tempo un potere contrattuale nei confronti dei clienti europei.
Tuttavia, improvvisamente Germania ed Europa si sono trovate di fronte alla prospettiva di vedere le loro forniture di gas decurtate o, nel caso peggiore, addirittura interrotte a causa delle loro politiche autolesioniste.
Alla luce della dipendenza dell’industria europea dal gas russo, ciò apriva le porte ad una crisi economica senza precedenti che avrebbe potuto portare alla perdita di diversi punti di Pil e alla chiusura di numerose industrie, oltre che all’eventualità di un inverno al freddo per i cittadini tedeschi e di altri paesi.
Una crisi annunciata
Ma la questione da sottolineare è che tutto ciò era ampiamente prevedibile, non solo perché era noto che le forniture di gas russo all’Europa erano insostituibili sul breve periodo, ma anche perché, alla vigilia del conflitto con Mosca, la Germania ed altri paesi europei stavano già fronteggiando una crisi energetica le cui cause nulla avevano a che fare con la Russia.
Nel gennaio di quest’anno, un mese prima dell’invasione russa, i responsabili dell’amministrazione Usa si erano mobilitati per trovare possibili fonti di approvvigionamento alternativo per l’Europa. Le multinazionali dell’energia, interpellate per l’occasione, avevano tuttavia ribadito l’ovvio, e cioè che non c’era modo di sostituire le forniture russe al vecchio continente in caso di conflitto.
Ma già a novembre, quando Berlino decise di sospendere il processo di certificazione di Nord Stream 2 (che avrebbe dato sollievo al mercato continentale fornendo 55 miliardi di metri cubi di gas in più all’anno, circa il 10% dell’attuale consumo europeo), la Germania stava facendo i conti con un’insolita scarsità di gas.
Ciò era dovuto al sommarsi di diversi fattori: 1) una produzione di energia eolica sotto la media annuale a causa della scarsità di vento, che aveva aumentato la domanda di gas e carbone; 2) la forte ripresa economica, sia in Asia che in Europa, dopo la crisi pandemica, che aveva accresciuto il fabbisogno di energia; 3) il “carbon pricing” europeo, che insieme all’accresciuta domanda di gas ha determinato un circolo vizioso che ha portato ad un ulteriore aumento dei prezzi; 4) infine, agli investimenti a favore della transizione energetica ha corrisposto un’eccessiva riduzione degli investimenti nelle fonti tradizionali , che ha determinato un calo di produttività da parte di queste ultime.
Stando così le cose, e alla luce dell’impossibilità di trovare in tempi brevi fonti energetiche alternative a quelle russe, ci si aspetta in Europa una dura crisi, caratterizzata da scarsità di gas, prezzi estremamente elevati, e probabile esigenza di razionamenti, che si protrarrà per tutto l’inverno del 2023 e forse del 2024.
La Germania tra rassegnazione e avventurismo
Malgrado questi dati, in Germania al momento non sembra esserci spazio per un ripensamento delle politiche fin qui adottate. Le istituzioni tedesche stanno già preparando la popolazione a due anni di drammatica scarsità energetica.
Il ministro dell’economia Robert Habeck ha annunciato l’intenzione di emendare la legge che definisce prioritario il consumo delle famiglie, al fine di favorire la fornitura di gas all’industria. Egli ha ammonito che la popolazione dovrà “fare la sua parte”.
Di fronte alla prospettiva di una prolungata scarsità di gas e dell’atteso impoverimento di ampi segmenti della popolazione, Habeck ha osservato che “ciò sottoporrà la Germania ad uno stress test”, e che la situazione porterà “la solidarietà sociale al limite” – “e probabilmente oltre”.
A dir la verità, si levano anche voci che chiedono la fine delle sanzioni e la ricerca di una soluzione diplomatica del conflitto con Mosca. Diversi politici sembrano temporeggiare nella speranza di una cessazione delle ostilità. L’inaugurazione del Nord Stream 2, che è pronto ad entrare in attività, risolverebbe moltissimi problemi.
Ma, al di là di questa attesa speranzosa, non è stata messa a punto alcuna strategia per il perseguimento di tali obiettivi.
Alle voci favorevoli alla diplomazia si contrappone invece un appello, pubblicato circa una settimana fa sul Frankfurter Allgemeiner Zeitung a firma di esponenti militari, scienziati e accademici (molti dei quali appartenenti alle università dell’esercito), che rifiuta l’idea di un accordo negoziato invocando invece un rafforzamento dell’offensiva economica e militare (inviando altre armi in Ucraina) contro la Russia.
In considerazione del fatto che Mosca non ha ottenuto una rapida vittoria in Ucraina, i firmatari ritengono che “l’attuale debolezza russa offre all’Occidente una serie di opzioni” che non possono essere trascurate, fra cui quella di logorare ulteriormente l’esercito russo “attraverso una stretta osservanza delle sanzioni”.
A fianco delle sanzioni, gli autori invocano anche il riarmo dell’esercito tedesco, che dovrebbe avere un ruolo guida nella militarizzazione del fianco orientale della Nato.
Probabilmente, l’esito del confronto fra i sostenitori di una soluzione diplomatica e i promotori di tesi simili a quelle espresse nell’appello appena citato, sia in Germania che altrove in Europa, determinerà le sorti del nostro continente.
Io comunque continuo a non capacitarmi della
assoluta inadeguatezza della classe politica europea. Anche se mal consigliati da lobby interessate il treno avrebbero dovuto vederlo arrivare o perlomeno intuire che gli sarebbe arrivato addosso. 🙄