Netanyahu, la parabola del capitalismo israeliano, e la crisi di Israele
E’ ormai una “classe capitalista transnazionale” a controllare le sorti economiche, e spesso anche politiche, del paese. Ed è il premier Netanyahu ad averne supervisionato l’ascesa.
A fine ottobre, un gruppo di 300 economisti israeliani ha inviato una lettera al primo ministro Benjamin Netanyahu e al ministro delle finanze Bezalel Smotrich, chiedendo loro di bloccare immediatamente tutte le voci di spesa non essenziali nel bilancio statale, e di riconsiderare le priorità di spesa per far fronte all’incombente crisi economica provocata dalla guerra in corso con Hamas.
“Non cogliete l’entità della crisi che l’economia israeliana sta per affrontare”, affermava la lettera. “Proseguire nell’attuale condotta danneggia l’economia, mina la fiducia dei cittadini nel sistema pubblico e compromette la capacità dello Stato di Israele di riprendersi dalla situazione in cui si trova”.
Tra i firmatari vi era l’ex governatore della Banca di Israele, Jacob Frenkel, ed altri economisti che avevano ricoperto ruoli di spicco nella banca, nel ministero delle finanze, e nel sistema economico e finanziario israeliano.
Ripercussioni economiche del conflitto
Secondo un sondaggio, già a fine ottobre circa il 70% delle aziende tecnologiche e delle startup israeliane si trovava a fare i conti con interruzioni delle proprie attività poiché molti dei loro dipendenti erano stati richiamati come riservisti nell’esercito.
Michel Strawczynski, economista presso l’Università Ebraica di Gerusalemme ed ex direttore del dipartimento di ricerca della banca centrale israeliana, ha affermato che due precedenti conflitti – la guerra in Libano nell’estate del 2006 e quella contro Hamas nel 2014 – erano costati a Israele fino allo 0,5% del PIL avendo colpito principalmente il settore turistico. Ma questa volta “le stime parlano di un calo dal 3,5 al 15% in termini annuali” per l’ultimo trimestre di quest’anno.
Intere città sono state abbandonate e molte attività commerciali chiuse, sia nel sud che al confine settentrionale, mentre le 250.000 persone evacuate sono state costrette a cercare rifugio negli alberghi del paese o presso parenti. Inoltre, la chiamata di 360.000 riservisti, in tempo di pace impiegati nel settore produttivo, ha messo a dura prova le aziende e ha reso incerti i loro profitti.
All’inizio della guerra, il governo ha ordinato alla Chevron di fermare la produzione nel giacimento di gas naturale di Tamar, per ridurre la vulnerabilità a potenziali attacchi missilistici nemici. L’esperto di energia Amit Mor ha stimato che la chiusura potrebbe costare a Israele 200 milioni di dollari al mese di mancate entrate.
Ma già prima della guerra, l’economia israeliana, abitualmente in grado di rivaleggiare con quelle dell’Europa occidentale, era in difficoltà. Un tempo alimentata dagli investimenti tecnologici, essa è stata danneggiata dalla proposta di riforma giudiziaria avanzata da Netanyahu, che intendeva diluire i poteri della magistratura. Lo scorso anno, le preoccupazioni sulla stabilità del governo, sull’aumento dell’inflazione e sul rallentamento mondiale degli investimenti tecnologici, hanno ugualmente pesato sull’economia.
Origini del capitalismo israeliano
Storicamente, l’apparente predominio dello Stato nella società israeliana ha portato molti osservatori ad etichettare Israele come un paese che ha abbracciato una qualche forma di socialismo per buona parte della sua storia. Altri studiosi hanno però dimostrato senza ombra di dubbio che l’economia israeliana è sempre stata incentrata sul capitalismo e sulla capacità di accumulazione da parte dei conglomerati dominanti.
Sia durante lo sviluppo del progetto sionista nella Palestina sotto mandato britannico (1917-1947), sia durante il processo di costruzione dello Stato in Israele durante gli anni ’50 del secolo scorso, il settore privato non solo ha rappresentato la spina dorsale del progetto sionista in Palestina, ma ha avuto un impatto decisivo sull’evoluzione della struttura sociale della comunità ebraica, nonché sulla creazione di un vantaggio economico nei confronti dei palestinesi e nel conflitto arabo-israeliano nel suo complesso.
Nella visione dei pionieri sionisti, il kibbutz (“riunione”, “raggruppamento”, al plurale indicato dalla parola kibbutzim) doveva essere un’utopica comunità rurale fondata su regole egualitarie e sul concetto di proprietà collettiva, che avrebbe fuso tali ideali con quelli del sionismo e del nazionalismo ebraico.
I primi kibbutznik (nome con cui si denota un membro del kibbutz) erano giovani idealisti immigrati in Palestina dall’Europa all’inizio del XX secolo. Questo progetto egualitario escludeva però gli arabi che abitavano la Palestina.
Inoltre, l’importazione di capitale privato ebraico fu un fattore determinante nel plasmare lo sviluppo economico del progetto coloniale sionista in Palestina (del quale i kibbutzim divennero progressivamente parte integrante), e nel determinare un vantaggio sulla comunità araba locale.
La partecipazione delle imprese ebraiche nella guerra del 1948 e nella fondazione dello Stato di Israele fu una risorsa essenziale a sostegno dell’assorbimento dei sopravvissuti dell’Olocausto e degli immigrati ebrei provenienti dai paesi arabi.
Il neonato Stato israeliano a sua volta giocò un ruolo chiave nella creazione del contesto istituzionale che ha determinato lo sviluppo dei principali gruppi capitalisti in Israele. Lo Stato incanalava le risorse provenienti dall’estero (le indennità di guerra tedesche e gli aiuti del governo americano) verso i pochi conglomerati che dominarono l’economia israeliana.
Esso creò la cornice che permise a questi gruppi di espandersi a spese di minori concentrazioni di capitale, grazie a partenariati fra pubblico e privato, ed aiuti allo sviluppo.
Gli anni del boom
Attraverso la combinazione di una massiccia immigrazione (che accrebbe enormemente la popolazione ebraica), di forti iniezioni di capitali stranieri (principalmente americani e delle ricche comunità ebraiche all’estero), e della creazione di un forte esercito, l’economia israeliana crebbe molto velocemente a partire dal 1948.
Fu “l’epoca d’oro” del capitalismo postbellico, con tassi di profitto ed investimenti ugualmente elevati. Il prodotto nazionale lordo israeliano crebbe ad una media annuale del 10,4% fra il 1948 e il 1972. Allo stesso tempo, Israele era uno dei paesi più egualitari al mondo, con il 20% più ricco della popolazione che guadagnava circa 3 volte più del 20% più povero.
Questo egualitarismo era tuttavia limitato alla popolazione ebraica. Come David Ben-Gurion, considerato il “padre fondatore” di Israele, scrisse in un opuscolo del 1956, lo stesso movimento dei kibbutzim non era dedito agli ideali del socialismo quanto piuttosto alla protezione della manodopera ebraica, la quale non era frutto della lotta di classe, quanto del separatismo etnico. Per Ben-Gurion, infatti, il sionismo doveva elevare gli interessi etnici e nazionali al di sopra della solidarietà di classe.
Conversione al neoliberismo
Come nel resto delle economie capitaliste avanzate, la redditività del capitale in Israele diminuì drasticamente dalla metà degli anni ’60 all’inizio degli anni ’80. Ciò portò a difficoltà economiche nel quadro più ampio delle crisi internazionali del 1974-75 e del 1980-2.
Tra il 1973 e il 1985, la crescita del prodotto nazionale lordo scese a circa il 2% annuo, senza alcun aumento reale della produzione pro capite. Allo stesso tempo, il tasso di inflazione andò fuori controllo, raggiungendo un picco del 445% nel 1984.
Come in molte altre economie capitaliste, in Israele cominciarono a emergere governi che miravano a porre fine alla socialdemocrazia e ad “aprire” l’economia senza restrizioni al capitale, riducendo allo stesso tempo il “welfare” israeliano e il sostegno a entità collettive come i kibbutzim. Israele era entrata nell’era neoliberista.
Nel 1983, la Borsa di Tel Aviv crollò. Il governo di destra del partito Likud diede la colpa alle banche. Esso rilevò Bank Hapoalim, che aveva partecipazioni dirette e indirette in circa 770 aziende e controllava quasi il 35% dell’economia israeliana, con l’obiettivo di privatizzare tutti questi asset statali. Assieme a Bank Hapoalim, altri due importanti istituti bancari, Bank Leumi e Bank Discount, furono venduti a capitali privati. L'industria delle telecomunicazioni e i porti furono privatizzati.
Negli anni ’90, massicci flussi migratori provenienti dall’ex Unione Sovietica (ma anche dal Nord Africa), aggiungendosi alla forza lavoro palestinese a buon mercato, abbassarono ulteriormente il costo della manodopera . Il periodo di “tregua” apparente nel conflitto israelo-palestinese, dopo gli accordi di Oslo del 1993, favorì un ulteriore afflusso di investimenti stranieri.
Internazionalizzazione del capitale
Alla fine degli anni ‘90, dopo un decennio di frenetica ristrutturazione economica, il capitale israeliano era non solo diventato più concentrato, ma anche profondamente integrato con investitori stranieri e compagnie multinazionali.
Delle 652 società quotate alla Borsa di Tel Aviv nel 1999, 82 erano totalmente o parzialmente controllate da cinque gruppi dominanti. Il valore di queste 82 società rappresentava fino al 41% della capitalizzazione totale del mercato. Anche la parte rimanente era altamente concentrata.
Il secondo carattere distintivo degli anni ’90 fu la crescente internazionalizzazione del potere economico israeliano. Nel 1998, le proprietà straniere avevano superato il 14% del mercato azionario di Tel Aviv, rispetto al 3% di soli cinque anni prima.
In meno di un decennio, Israele fu invasa dagli investitori stranieri, privati e istituzionali, legali ed illegali. Molte imprese israeliane divennero parzialmente o totalmente controllate da capitali stranieri.
Allo stesso tempo, alcune fra le aziende israeliane in più rapida crescita – principalmente nel settore dell’alta tecnologia – quotarono le loro azioni all’estero.
Con i capitali stranieri che si impadronivano di asset locali, e i capitalisti israeliani che investivano all’estero, l’effetto combinato fu quello di “denazionalizzare” la classe capitalistica israeliana. In meno di dieci anni, i capitalisti israeliani divennero parte di una “classe capitalista transnazionale”.
L’era Netanyahu: trionfo della disuguaglianza
E’ questa classe che controlla le sorti economiche, e spesso anche politiche, del paese. Ed è il premier Netanyahu, che ha governato Israele per almeno un quinto dei 75 anni di vita dello Stato ebraico, ad aver guidato una parte rilevante di questa trasformazione.
Nato a Tel Aviv e formatosi in gran parte negli Stati Uniti, Netanyahu ha ricoperto la carica di primo ministro dal 1996 al 1999, dal 2009 al 2021, e dalla fine del 2022 ad oggi. Egli ha poi ricoperto numerose altre cariche nelle istituzioni e nei governi israeliani.
Ad esempio fu nel 2003, in qualità di ministro delle finanze, che egli tagliò ulteriormente il welfare, privatizzò altre aziende statali, ridusse l’aliquota massima dell’imposta sul reddito, smantellò una parte rilevante dei servizi del settore pubblico, ed impose leggi a danno dei sindacati.
A causa delle politiche degli ultimi decenni, Israele è divenuto uno dei paesi ad alto reddito con le maggiori disuguaglianze. Il divario tra i redditi più bassi e quelli più ricchi è il secondo nel mondo industrializzato, con un elevato tasso di povertà infantile. Quasi 2 milioni di israeliani vivono in povertà, poco più del 20% della popolazione.
La povertà non è però equamente distribuita fra i vari gruppi che la compongono: arabi israeliani ed ebrei ultraortodossi hanno tassi di povertà superiori, e minori livelli di impiego e di istruzione. Questi due gruppi sono anche quelli che crescono più velocemente da un punto di vista demografico.
A partire dal 2011, ondate di protesta si ripetono nel paese a cadenza quasi annuale. Il malcontento però non ha trovato sbocco nel sempre più frammentato panorama delle formazioni politiche israeliane, dove il costate “spauracchio” dell’irrisolto conflitto israelo-palestinese ha invece favorito l’ascesa di partiti su base etnica e religiosa.
La carta razziale e religiosa viene giocata dal grande capitale israeliano per sfuggire ad un confronto serio sulle rivendicazioni economiche e sociali degli strati più poveri della popolazione.
I casi di corruzione per i quali è stato infine incriminato Netanyahu sono emblematici di un intero sistema di corruzione istituzionalizzata, al cui interno gruppi contrapposti di oligarchi e monopolisti esercitano pressioni sulla classe politica per ottenere leggi che ostacolano una reale competizione favorendo il consolidarsi di veri e propri cartelli.
Il settore dei media è divenuto terra di conquista di questi magnati, i quali hanno compreso che giornali e televisioni possono essere utilizzati come strumenti di pressione nei confronti della classe politica, e di manipolazione dell’opinione pubblica.
In questo quadro, lo stesso conflitto con i palestinesi diventa uno strumento di controllo delle pressioni sociali e delle rivendicazioni delle classi più disagiate, di fatto smorzandole in cambio della “protezione” promessa dalle classi dominanti nei confronti del “nemico esterno”.
Supportato militarmente e finanziariamente dagli Stati Uniti, Israele probabilmente riuscirà a fare i conti con gli aspetti più seri della crisi economica, seppur aggravata dall’attuale conflitto.
Ma le fratture politiche e sociali di un paese frammentato e diviso continueranno a corrodere lo Stato dall’interno, mentre il protrarsi della guerra, accrescendo il rischio di un suo allargamento, mette a repentaglio la sicurezza esterna di Israele e la stabilità regionale.