Nel confronto fra stato-nazione e “big corporation”, a uscire sconfitta sarà la democrazia
Il G20, il modello delle public-private partnership, e l’ascesa delle grandi corporation.

Il G20 tenutosi la scorsa settimana a Bali, in Indonesia, ha visto discutere non solo i principali temi di politica internazionale, a partire dal conflitto ucraino, ma anche e soprattutto le questioni legate all’implementazione della cosiddetta Agenda 2030 promossa dall’ONU.
L’Agenda 2030 è un programma sottoscritto nel settembre 2015 da 193 paesi membri dell’ONU, che include 17 “Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile”, i cosiddetti Sustainable Development Goals (SDGs).
Una peculiarità dell’Agenda 2030 è quella di essere fondata, in gran parte, sulle cosiddette partnership fra pubblico e privato – public-private partnership (PPP). Le partnership fra il settore pubblico e le corporation e multinazionali del settore privato sono considerate un meccanismo chiave per finanziare progetti infrastrutturali.
Il concetto di PPP fu coniato e propagandato per la prima volta negli anni ’70 del secolo scorso, allorché le idee neoliberiste presero piede mettendo in discussione il precedente paradigma keynesiano.
In quel contesto, le crisi e le difficoltà economiche furono attribuite non ai fallimenti e alle inadeguatezze del mercato, ma all’inefficienza dei governi e del settore pubblico. Le PPP furono invocate come alternativa ai servizi pubblici e alle “inefficienti” imprese statali, spesso in un’ottica di promozione delle privatizzazioni.
Quanto abbia fatto strada questo approccio economico lo testimonia lo stesso G20 di Bali, che ha ospitato come evento di apertura il cosiddetto B20 (Business 20), forum che riunisce la comunità globale degli affari.
Fondato già nel 2010, il B20 rappresenta uno degli eventi chiave del G20, riunendo almeno 2.000 partecipanti della “business community”, fra cui 1.000 delegati dei paesi del G20, inclusi gli alti dirigenti delle principali multinazionali.
Il B20 fornisce raccomandazioni e linee guida sulle priorità stabilite dalla presidenza di turno del G20 per la crescita e lo sviluppo.
Allo scopo di accelerare la ripresa globale dopo la crisi pandemica del Covid-19, la dichiarazione congiunta del G20 riunitosi a Bali ha appoggiato la creazione di “reti sanitarie digitali globali” che si fondino sui passaporti sanitari introdotti con il Covid-19.
La dichiarazione congiunta segue le raccomandazioni fatte dal ministro della sanità indonesiano Budi Gunadi Sadikin (un ex banchiere) durante il B20, secondo il quale i passaporti sanitari sarebbero un utile strumento per permettere all’economia e alla comunità internazionale degli affari di rimanere attive durante “la prossima pandemia”.
Al B20 ha preso la parola anche Klaus Schwab, fondatore e presidente del World Economic Forum (WEF), organizzazione che riunisce le principali corporation e multinazionali globali, e che promuove una radicale “ristrutturazione” del mondo fondata sul decollo della quarta rivoluzione industriale, allo scopo di superare la crisi attuale (quella crisi di cui le multinazionali che compongono il WEF sono in gran parte responsabili).
Tale rivoluzione, incentrata sulle già citate public-private partnership, sarà fondata sull’introduzione di strumenti come l’identità digitale e le “Central Bank Digital Currencies” (CBDC), valute digitali direttamente controllate dalle banche centrali.
Il WEF sostiene l’introduzione dei passaporti sanitari come forma embrionale di identità digitale.
Come ho scritto in un precedente articolo, anche
l’Italia si è dotata di un’imponente infrastruttura tecnologica, la piattaforma nazionale-digital green certificate (PN-DGC), che ha caratteristiche di interoperabilità con quella europea, l’European Digital Green Certificate Gateway (EU-DGCG).
Essa contempla la possibilità di usare tecnologie a registri distribuiti (blockchain) per la validazione e protezione dei dati. In altre parole, il passaporto sanitario è una forma embrionale di identità digitale.
L’UE prevede l’introduzione di un sistema complessivo di identità digitale che dovrebbe essere utilizzato dall’80% dei cittadini europei entro il 2030. Il Covid ha favorito la massiccia introduzione di sistemi di identità digitale in tutto il mondo.
L’identità digitale sarà un elemento cardine della cosiddetta Industria 4.0 (in particolare per la gestione delle cosiddette “smart cities”), per la cui realizzazione è in atto una serrata competizione globale, in special modo fra Cina e Occidente.
Tuttavia, l’identità digitale pone enormi problemi di tutela della privacy e della libertà stessa dei singoli cittadini, poiché li rende virtualmente tracciabili in tutte le loro attività, oltre che dipendenti da tecnologie ancora non completamente sicure per l’erogazione di servizi essenziali.
Tecnologie come l’identità digitale ed altri sistemi di tracciamento conferiscono agli Stati poteri di sorveglianza di massa senza precedenti nella storia. Il problema si pone naturalmente innanzitutto per regimi scarsamente democratici che hanno introdotto sistemi di identità centralizzati. Ma anche in un sistema parzialmente decentralizzato come quello europeo diversi rischi permangono.
Secondo un altro paper pubblicato dal WEF, “l’identità digitale determina a quali prodotti, servizi e informazioni possiamo accedere”. In altre parole, siamo di fronte a un nuovo tipo di contratto sociale che vedrebbe la possibile introduzione di forme di “credito sociale”, non molto diverse da quelle parzialmente sperimentate in varie parti della Cina.
L’adozione del modello dei passaporti sanitari da parte del G20 e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) universalizza un sistema che non fa l’interesse dei cittadini, ma quello delle grandi corporation e multinazionali di Big Pharma e della Big Tech, pronte a diffondere sul mercato nuovi vaccini e farmaci sperimentali, e soluzioni digitali che rischiano di tradursi nell’imposizione di un sistema di sorveglianza di massa.
Ciò è possibile perché corporation e multinazionali, anche grazie al modello delle public-private partnership, hanno eroso l’indipendenza dei governi e scalato dall’interno le principali organizzazioni internazionali, dall’OMS all’ONU, al G20, anteponendo i loro interessi a quelli della collettività.
Per comprendere meglio come ciò sia stato possibile, ripropongo qui un mio articolo apparso circa un anno fa sul Fatto Quotidiano, che descrive temi rimasti attuali, come l’ascesa della Big Tech e delle grandi corporation biotecnologiche in un contesto di progressivo indebolimento dello stato-nazione.
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Le tech companies accrescono il controllo: il potere dei cittadini è sempre più irrisorio
Cosa succederebbe se lo stato-nazione, fondamento del sistema internazionale degli ultimi secoli, venisse sostituito dalle corporation multinazionali, soprattutto dalle cosiddette tech companies, il cui successo si fonda su campi che vanno dall’information technology alle biotecnologie?
E’ uno dei temi recentemente trattati nel Bloomberg New Economy Forum di Singapore, assieme all’esigenza di ricostruire l’economia globale dopo il Covid-19.
A sollevare l’interrogativo è il ruolo senza precedenti che tali compagnie hanno giocato nella pandemia, in settori come e-commerce, digitalizzazione e smart working, la telemedicina e i nuovissimi vaccini a mRNA.
“Siamo entrati nell’era della biologia e del genoma”, ha ottimisticamente affermato Francis deSouza, amministratore delegato di Illumina, leader nel settore della genetica. Secondo lui, tecniche come il gene editing permetteranno di migliorare la qualità della vita e prolungarne la durata.
Ian Bremmer, presidente dell’Eurasia Group, dalle pagine di Foreign Affairs ha recentemente ipotizzato scenari in cui i giganti della Big Tech ridefiniranno l’ordine mondiale esercitando un’influenza geopolitica anche superiore a quella degli stati.
Le tech companies controllano aspetti crescenti della società, dell’economia, dell’informazione, e perfino della sicurezza nazionale (dal cloud-computing alla cybersecurity).
Esse hanno il monopolio sulle tecnologie della prossima rivoluzione industriale – la cosiddetta Industria 4.0 (reti 5G, intelligenza artificiale, internet-of-things, ecc.) – ed esercitano crescente sovranità sullo spazio digitale.
La maggior parte dei servizi cloud nel mondo viene fornita da quattro compagnie, la cinese Alibaba, Google, Amazon e Microsoft. Alibaba e Tencent dominano i servizi di pagamento, i social media e l’e-commerce in Cina.
E poi ci sono le praterie aperte dalle biotecnologie, dove il ruolo dell’intelligenza artificiale diventa essenziale, e si sta assistendo a una crescente compenetrazione fra Big Tech e Big Pharma.
Alphabet (società che controlla Google), ad esempio, ha progressivamente investito nel settore sanitario e farmaceutico, e perfino in quello della prevenzione pandemica.
Bremmer traccia tre possibili scenari. Nel primo, prevalgono le big corporation a vocazione nazionale, e lo stato-nazione mantiene il suo ruolo guida. Nel secondo, lo stato-nazione sopravvive in forma indebolita, convivendo con le multinazionali a vocazione globalista.
Nell’ultimo, lo stato-nazione progressivamente svanisce lasciando spazio ai giganti della “tecno-utopia” (o più probabilmente di una totale distopia) che assorbiranno i cittadini in un’economia digitale nella quale scompare il ruolo di intermediazione dello stato. E’ il Metaverso di Zuckerberg, tanto per intenderci.
A cavallo di questi scenari si pone il modello dello stakeholder capitalism proposto da Klaus Schwab, fondatore del World Economic Forum (WEF), polo di attrazione dell’élite economica globale.
Schwab, che proprio lo scorso 22 novembre si è recato in visita da Draghi a Palazzo Chigi, teorizza una nuova forma di capitalismo in cui sono le grandi compagnie ad occuparsi dei bisogni di tutte le componenti (stakeholder) della società, prendendo il posto dello stato.
Si obietterà che proprio con la pandemia lo stato-nazione ha acquistato rinnovato vigore intervenendo pesantemente nella gestione dell’economia. Ma è un’impressione illusoria.
Sebbene siamo ormai usciti dal laissez faire tipico del neoliberismo, il nuovo interventismo statale è di fatto al servizio dei grandi gruppi economici. E, non a caso, essi hanno tratto enorme vantaggio dalla crisi pandemica, mentre piccole e medie imprese erano costrette a chiudere, e i lavoratori perdevano l’impiego.
Le big corporation hanno scalato lo stato dall’interno, a partire dall’America.
L’ascesa di Amazon venne incoraggiata dall’amministrazione Obama. L’ex presidente era anche molto vicino a Eric Schmidt, amministratore delegato di Google, poi divenuto stretto collaboratore del Pentagono nella corsa all’impiego militare dell’intelligenza artificiale, in un pericoloso testa a testa con la Cina per il primato tecnologico mondiale.
Le politiche economiche di Biden, invece, sono plasmate dal direttore del National Economic Council Brian Deese, già dirigente di Blackrock. Assieme al suo rivale Vanguard, questo gruppo gestisce 20 trilioni di asset finanziari in tutto il mondo, praticamente un monopolio incontrastato a Wall Street.
I legami fra amministrazione USA e grandi industrie farmaceutiche sono altrettanto stretti.
Alla guida della Food and Drug Administration (FDA), che ha approvato i vaccini a mRNA, Biden ha recentemente nominato Robert Califf, già dirigente di Verily (controllata di Alphabet nel settore biotecnologico e sanitario) e grande azionista di Big Pharma.
Le corporation hanno acquisito influenza anche nelle grandi organizzazioni internazionali, dall’ONU all’OMS.
Lo UN Global Compact, promosso nel 2000 dall’allora segretario generale Kofi Annan, diede ai grandi gruppi accesso privilegiato alle organizzazioni controllate dalle Nazioni Unite. Così, ad esempio, l’OMS lavora a stretto contatto con la Bill and Melinda Gates Foundation e la Rockefeller Foundation.
Di fronte a questa forza soverchiante, il potere contrattuale dei comuni cittadini è sempre più irrisorio.
Che lo stato-nazione sopravviva o meno, i suoi azionisti di riferimento non sono più gli elettori, che non hanno ormai alcuna reale capacità di controllo. Al contrario, sono proprio i cittadini ad essere controllati sempre più da vicino da uno stato che, proprio grazie alle tech companies, ha un potere di sorveglianza di massa senza precedenti nella storia.
Inquietante