Nagorno-Karabakh: la tragedia dell’esodo armeno
La fulminea invasione azera non ha solo posto fine al sogno del Karabakh armeno, ma ha creato le premesse per un nuovo fronte di instabilità al crocevia fra Russia, Turchia e Iran.

La terza guerra del Nagorno-Karabakh, contesa enclave armena all’interno dell’Azerbaigian , è durata appena ventiquattr’ore. A differenza delle due guerre precedenti – quella del 1988-1994, e la successiva del settembre-novembre 2020 – la Repubblica di Armenia non ha preso parte al conflitto.
Il 19 settembre, le forze azere hanno attaccato questo piccolo territorio già fiaccato da mesi di embargo economico che avevano portato la popolazione sull’orlo della fame, in quella che Baku ha definito un’operazione “antiterrorismo”.
Il giorno dopo, le forze separatiste dell’Artsakh (nome con cui gli armeni identificano la regione, internazionalmente riconosciuta come parte dell’Azerbaigian) capitolavano.
Nei giorni successivi, file ininterrotte di auto hanno percorso la strada di montagna che unisce il Karabakh all’Armenia, lungo il cosiddetto corridoio di Lachin, con a bordo migliaia di civili che abbandonavano le loro case assieme a ciò che potevano portare con sé.
Si stima che oltre 100.000 persone abbiano lasciato il Karabakh, la quasi totalità della popolazione di etnia armena. Le conseguenze sociali, economiche, e politiche di questa ondata di profughi si avvertiranno nella regione per lungo tempo.
Questo esodo segna il fallimento di anni di infruttuosi negoziati internazionali, e la fine del progetto nato nel 1988, allorché gli armeni del Nagorno-Karabakh per la prima volta cercarono di separarsi dall’Azerbaigian sovietico.
Ma questo drammatico episodio segna anche la perdita forse definitiva di un territorio segnato da secoli di storia e cultura armena.

Ricchezza storica, etnica e religiosa della Transcaucasia
Cristianizzati nel IV secolo d.C., i territori armeni preservarono la loro identità sotto la dominazione selgiuchide, mongola e ottomana. Dall’inizio del XVI secolo, il Caucaso costituì la parte settentrionale di una vasta e indefinita zona di frontiera che separava l’Impero ottomano sunnita dalla Persia sciita.
Nel XVIII secolo, il Karabakh e la Transcaucasia orientale (l'attuale Azerbaigian) erano sotto il dominio persiano, ma i re armeni indipendenti (melik) all’interno e al di fuori del Karabakh avevano sviluppato una certa predilezione per i russi a nord.
All'inizio del secolo successivo, l’impero zarista si annesse questo territorio. Quando lo divisero in province, i russi legarono la regione del Karabakh alle pianure orientali, separandola amministrativamente dalla provincia di Erevan, che in seguito sarebbe diventata il nucleo dell'Armenia sovietica.
Gli altopiani del Caucaso sono una regione di incredibile ricchezza etnica, linguistica, e religiosa. Estendendosi dal Mar Nero alle coste del Caspio, il Caucaso ospita georgiani, armeni, azeri, russi, turchi, curdi, yazidi, daghestani, abkhazi, ceceni, circassi, osseti, e altre comunità.
La maggioranza di armeni, georgiani e azeri era costituita da contadini, ma vi erano differenziazioni sociali all’interno di ciascuna popolazione. Per gli armeni, la classe dominante era costituita dalla borghesia urbana.
Baku, che sarebbe divenuta la capitale dell’Azerbaigian indipendente alla fine del 1918, ospitava un’emergente classe media armena, che cooperava con l’amministrazione russa, mentre la campagna della Transcaucasia orientale era abitata da una numerosa popolazione musulmana di lingua turca, i moderni azeri.
L’emergere dei nazionalismi
Sebbene la regione rimanesse uno spazio multietnico, l’influenza delle idee europee che ruotavano attorno al concetto di nazionalismo fece sì che queste popolazioni che avevano convissuto per secoli cominciassero a vedere il loro futuro in termini nazionali.
La modernizzazione creò tensioni e disuguaglianze sociali che finirono per svilupparsi secondo linee etniche. Nel 1905, mentre l’impero zarista era scosso da tumulti rivoluzionari, un’ondata di violenza interetnica che contrapponeva armeni e turchi azeri travolse la regione provocando centinaia di morti.
Seguì poi l’immane tragedia della prima guerra mondiale. Per gli armeni quel conflitto fu particolarmente traumatico a causa della decisione del governo ottomano di avviare una campagna di deportazioni e massacri ai danni della comunità armena che era parte del suo impero. Tale campagna provocò un milione e mezzo di morti.
Una porzione significativa della popolazione della moderna Armenia è costituita da discendenti dei sopravvissuti a quella catastrofe, ed è anche attraverso la lente di quegli eventi che gli armeni hanno vissuto il conflitto con gli azeri.
Sotto il dominio sovietico, proseguì la trasformazione del Caucaso meridionale in distinti spazi nazionali. La realtà sul terreno, costituita da popolazioni mescolate fra loro e storicamente legate alle stesse aree, mal si adattava però alla moderna visione di nazionalità legata a un territorio ben definito.
La designazione del Nagorno-Karabakh come regione autonoma all’interno della Repubblica sovietica dell’Azerbaigian fu un tentativo di appianare questo dilemma insolubile. Per settant’anni, sotto il dominio sovietico, armeni e azeri mantennero relazioni essenzialmente pacifiche. Ma i dissapori crebbero con il passare del tempo.
Guerra e pulizia etnica
Sia l’Armenia che l’Azerbaigian rivendicavano legami storici con la regione del Karabakh. Per gli armeni, tali legami si incarnavano nella presenza di chiese e monasteri medievali e nella storia dei principati armeni semi-autonomi della regione. L’attenzione degli azeri si concentrava invece sulla ricca storia culturale dei khanati del XVIII secolo incentrati sulla città di Shusha.
Vi erano anche tensioni economiche a dividere i due popoli. Quando il florido Karabakh fu incorporato nell’Azerbaigian, l’Armenia era un territorio povero che avrebbe avuto poco da offrire agli abitanti dell’enclave. Essa era però divenuta un’area industriale in epoca sovietica, e riteneva di aver maturato il diritto di rivendicare l’antico territorio. Gli azeri, dal canto loro accusavano gli armeni di ricevere un trattamento preferenziale da parte del partito centrale di Mosca.
Baku aveva però anche perseguito una politica di colonizzazione etnica nel Nagorno-Karabakh nel tentativo di diluire la maggioranza armena, e aveva discriminato gli armeni all’interno dell’enclave. Nella vicina exclave azera del Nakhchivan, stretta fra Armenia, Turchia ed Iran, gli armeni, che costituivano quasi metà della popolazione all’inizio degli anni ’20, erano divenuti una sparuta minoranza poco prima del crollo dell’URSS.
Gli intermittenti appelli armeni volti a riottenere il Karabakh rimasero inascoltati da parte di Mosca. Ma con l’indebolirsi del potere sovietico alla fine degli anni ’80, diffuse proteste scoppiarono sia in Armenia che nella vicina enclave.
Nel febbraio del 1988, l’amministrazione locale del Nagorno-Karabakh votò a favore dell’indipendenza dall’Azerbaigian come misura preliminare all’unificazione con l’Armenia. In seguito al voto, tenutosi a dispetto di Baku, nella città azera di Sumqayit scoppiò un pogrom anti-armeno.
Decine di persone furono uccise e l’episodio pose le basi per un ciclo crescente di violenze in tutta la regione, incluso un massacro di civili azeri a Khojaly nel 1992 che provocò centinaia di morti.
A quel punto gli scontri erano già sfociati in un conflitto armato vero e proprio fra Armenia ed Azerbaigian. I due paesi, a seguito del crollo dell’Unione Sovietica, avevano raggiunto l’indipendenza nel 1991.
La guerra fece trentamila morti ed oltre un milione di sfollati a seguito della pulizia etnica. Mentre gli armeni che ancora vivevano numerosi in Azerbaigian furono costretti ad abbandonare il paese, un numero ancora maggiore di azeri fu cacciato dall’Armenia, dal Karabakh e dalle regioni che lo circondavano.
Conflitto congelato
Il conflitto si concluse nel 1994 con la vittoria di Erevan, che non soltanto riprese il controllo del Nagorno-Karabakh, ma attraverso l’occupazione dei distretti di Kalbajar e Lachin, popolati principalmente da azeri e curdi, stabilì una contiguità territoriale fra l’Armenia propriamente detta e l’autoproclamata Repubblica di Artsakh formatasi nell’enclave.
Da allora, il conflitto rimase irrisolto. I negoziati condotti dal gruppo di Minsk dell’OSCE (l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), presieduto da USA, Francia e Russia, non ebbero successo. E gli scontri a più riprese verificatisi lungo la “linea di controllo” istituita dal cessate il fuoco, e in altre sezioni del confine fra Armenia ed Azerbaigian, costituirono una perenne minaccia alla pace.
La Russia, che aveva negoziato la fine delle ostilità, conservò il suo ruolo di mediatore privilegiato fra i due contendenti. Assieme agli stretti rapporti economici con entrambi i paesi, eredità dell’epoca sovietica, ciò consentì a Mosca di preservare una certa influenza nella regione, allo stesso tempo impedendo al conflitto tra Erevan e Baku di deflagrare. Ma il suo ruolo di principale arbitro degli equilibri regionali fu progressivamente messo in discussione dagli sviluppi successivi.
Rivoluzione di velluto
Il punto di svolta fu rappresentato dalla cosiddetta “rivoluzione di velluto” in Armenia, che nel 2018 permise all’attuale primo ministro Nikol Pashinyan di salire al potere emarginando la corrotta e impopolare élite politica post-sovietica che aveva governato il paese fino a quel momento.
La rivoluzione fu condotta soprattutto da giovani e giovanissimi (di età anche inferiore ai vent’anni) con l’ausilio di social media e strumenti di comunicazione online, secondo uno schema non dissimile dalle “rivoluzioni colorate” che negli anni passati avevano interessato Georgia, Ucraina e Kirghizistan.
Pashinyan, che in precedenza aveva manifestato il proprio desiderio che l’Armenia guardasse all’Europa voltando le spalle alla Russia, insediò un governo inesperto che includeva numerosi attivisti affiliati ad ONG finanziate da fondazioni e governi occidentali. Tale governo avviò una stretta collaborazione con l’USAID (U.S. Agency for International Development) per implementare una radicale agenda di riforme.
L’USAID opera in Armenia fin dal 1988, essendo passata da un’attività inizialmente focalizzata sugli aiuti umanitari all’assistenza rivolta ad iniziative sulla competitività economica, la governance, e la promozione di mezzi di informazione e organizzazioni della società civile.
Altra organizzazione USA da anni attiva in Armenia con progetti finalizzati alla “transizione democratica” è il National Endowment for Democracy (NED), tradizionalmente votato a sostenere gruppi di opposizione, attivisti e mezzi di informazione in paesi governati da regimi ostili agli Usa.
Sebbene Pashinyan non abbia cercato subito di distanziare apertamente l’Armenia dalla Russia, i rapporti fra Erevan e Mosca erano destinati a deteriorarsi.
Vendetta azera
Nel frattempo l’Azerbaigian aveva notevolmente rafforzato il suo esercito con l’aiuto di Ankara in nome della solidarietà panturca. Nel settembre del 2020, Baku iniziò un nuovo conflitto nella regione del Nagorno-Karabakh, che capovolse gli equilibri sul terreno ed accelerò l’allontanamento di Erevan da Mosca.
Più di settemila soldati rimasero uccisi nel conflitto, che si protrasse per 44 giorni. Ancora una volta, dopo i tentativi negoziali falliti di Francia e Stati Uniti, alla fine fu Mosca ad ottenere un cessate il fuoco, ma la situazione strategica era profondamente mutata.
Non solo Baku aveva riconquistato i distretti azeri occupati da Erevan nella guerra precedente, ma aveva anche strappato una grossa porzione del Karabakh al controllo armeno, inclusa la storica città di Shusha.
Solo un’esile lingua di terra, il corridoio di Lachin, istituito dagli accordi sul cessate il fuoco, continuava a collegare la Repubblica di Artsakh all’Armenia propriamente detta. Il corridoio sarebbe stato monitorato da una forza di interposizione russa.
Frattura tra Erevan e Mosca
Sebbene il cessate il fuoco mediato dai russi avesse salvato il Nagorno-Karabakh dalla completa conquista azera, i rapporti fra Pashinyan e Mosca hanno continuato a peggiorare.
Dopo lo scoppio del conflitto ucraino, Erevan ha cercato di ridurre la sua dipendenza dalla Russia rafforzando invece i legami con gli Stati Uniti.
Lo scorso maggio, Pashinyan ha accennato alla possibilità che l’Armenia lasci l’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (CSTO, secondo l’acronimo inglese) che include anche Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Russia e Tagikistan.
Già nel settembre 2022, Erevan si era rifiutata di prendere parte alle esercitazioni della CSTO in Kazakistan citando a propria giustificazione i nuovi scontri armati scoppiati tra Armenia e Azerbaigian. In quell’occasione, Pashinyan aveva richiesto assistenza militare alla CSTO a causa di un attacco azero al territorio armeno propriamente detto. Quest’ultima aveva però insistito sulla necessità di risolvere la crisi per via diplomatica.
Alcuni mesi fa, Pashinyan ha suscitato sconcerto affermando che Erevan era pronta a riconoscere il Nagorno-Karabakh come parte dell’Azerbaigian se le autorità azere avessero garantito la sicurezza della popolazione armena dell’enclave.
A settembre, l’Armenia ha addirittura tenuto esercitazioni militari congiunte con gli USA dopo che all’inizio del mese Pashinyan si era spinto a dichiarare che il suo governo aveva commesso un “errore strategico” ad affidarsi a Mosca per la sicurezza del paese.
Nel frattempo, sua moglie Anna si era recata in Ucraina per portare aiuti umanitari per la prima volta dall’inizio della guerra. Infine, il parlamento armeno ha votato l’adesione alla Corte Penale Internazionale (CPI), la quale ha recentemente emesso un mandato di arresto nei confronti del presidente russo Putin. Lo stesso giorno, la ministra degli esteri francese Catherine Colonna annunciava un accordo in base al quale Parigi avrebbe fornito equipaggiamento militare all’esercito armeno.
La risposta russa alle mosse di Pashinyan è stata dura. Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha definito “estremamente ostile” la decisione armena di aderire alla CPI. E Mosca ha accusato il premier armeno di aver ceduto alle pressioni occidentali, riconoscendo il Nagorno-Karabakh come parte dell’Azerbaigian e alterando così le condizioni concordate nel cessate il fuoco del 2020, ed in particolare la situazione del contingente di pace russo.
Il sacrificio dell’Artsakh
Intanto, approfittando del fatto che la Russia era impegnata nel conflitto ucraino e che Pashinyan aveva lasciato trapelare la propria indisponibilità ad impegnare truppe armene in uno scontro diretto per la difesa del Karabakh, il presidente azero Ilham Aliyev ha lanciato il 19 settembre la sua fulminea offensiva che ha permesso a Baku di riprendere interamente il controllo della regione.
Sebbene Pashinyan abbia cercato di addossare alla Russia la colpa dell’accaduto, accusandola di essersi schierata con l’Azerbaigian, vi è in Armenia chi punta il dito contro lo stesso Pashinyan il cui riconoscimento di fatto del Karabakh come parte dell’Azerbaigian è stato visto da molti come un tradimento della causa dell’Artsakh.
Secondo Benyamin Poghosyan, presidente del Centro per gli studi strategici politici ed economici di Erevan, l’obiettivo del primo ministro armeno è normalizzare i rapporti con i “carnefici” dell’Armenia, Azerbaigian e Turchia, allo scopo di ridurre la dipendenza armena da Mosca e spianare la strada verso l’integrazione con l’Occidente. A tal fine, il Karabakh era più un fardello di cui sbarazzarsi che una risorsa.
Né Pashinyan ha tratto qualche vantaggio dalle esercitazioni militari congiunte appena svolte con gli USA, dalla visita di Samantha Power (attuale amministratore dell’USAID) a Erevan, o dalle dichiarazioni di solidarietà dei leader europei per i quali l’Azerbaigian rappresenta uno strategico fornitore di energia.
Un nuovo fronte contro la Russia
L’interesse occidentale nella crisi è tuttavia evidente. Come ha scritto Gordon Hahn, ricercatore ed esperto di questioni russe, dal 24 febbraio 2022 (data dello scoppio della guerra ucraina) l’approccio di Washington al conflitto tra Armenia e Azerbaigian è cambiato.
Ancor di più, gli USA vedono questa crisi attraverso la lente dello scontro fra Occidente e Russia. Laddove Mosca vorrebbe risolvere il conflitto per ristabilire il legame con Erevan, Washington intende invece attrarre l’Armenia nella sfera d’influenza occidentale, o alternativamente aprire un nuovo fronte contro la Russia.
Obiettivo chiave degli Stati Uniti è dunque quello di sottrarre a Mosca il negoziato fra Baku e Erevan, eventualmente tramite un ruolo dell’Europa. Scopo finale sarebbe quello di stabilire un formato di cooperazione nel sud del Caucaso che escluda sia la Russia che l’Iran, coinvolgendo i tre paesi caucasici (Georgia, Armenia, Azerbaigian) insieme alla Turchia.
Ankara fra NATO, Russia e Iran
Ankara, dal canto suo, ha interesse a normalizzare i rapporti con l’Armenia anche al fine di aprire il cosiddetto “corridoio di Zangezour” che unirebbe l’Azerbaigian all’exclave di Nakhchivan e, attraverso l’estremo lembo nordoccidentale di quest’ultima, al territorio turco.
Il corridoio aprirebbe dunque una via terrestre sicura fra Turchia ed Azerbaigian, collegando il mondo turco dall’Anatolia all’Asia centrale. Tale progetto è tuttavia avversato dall’Iran, alleato storico dell’Armenia, il quale teme che esso possa spezzare il suo legame terrestre con la Russia attraverso Armenia e Georgia.
Il crescente ruolo turco a fianco dell’Azerbaigian ha anche l’effetto di limitare l’influenza russa nel Caucaso, in particolare ridimensionando il ruolo negoziale di Mosca tra Erevan e Baku, e contenendo la sua proiezione economica nella regione e verso l’Iran.
Ma, se la Turchia vuole normalizzare i propri rapporti con l’Armenia, Ankara è però contraria ad un ruolo di Francia e Stati Uniti nella risoluzione del conflitto fra Erevan e Baku.
Questi paesi occidentali vengono infatti percepiti dalla Turchia come sbilanciati a favore di Erevan, a causa delle consistenti diaspore armene che vivono in territorio francese e americano e che sono storicamente ostili ai turchi, accusandoli di genocidio per i tragici eventi del primo conflitto mondiale.
Ankara teme inoltre che un ruolo evidente della NATO nel Caucaso possa suscitare la reazione di Russia e Iran, mettendo a repentaglio i propri piani di espansione economica nella regione e in Asia centrale.
L’ultimo baluardo a difesa di Erevan
Teheran, dal canto suo, vede con preoccupazione il rafforzamento dei legami fra Turchia e Azerbaigian, paese che ha anche uno stretto rapporto di cooperazione economica e militare con Israele.
Il corridoio di Zangezour, che potrebbe ulteriormente integrarsi con il “corridoio mediano” della Belt and Road Initiative cinese, “taglierebbe” l’International North–South Transport Corridor (INSTC), rotta logistica e commerciale che mette in collegamento l’Iran con la Russia a nord, e l’India a sudest, attraverso la regione del Caspio.
Ancor di più Teheran teme che un Azerbaigian imbaldanzito dalle recenti vittorie, e dall’alleanza con Turchia ed Israele, possa tentare di risolvere la questione del corridoio di Zangezour, non per via negoziale, ma occupando militarmente la provincia armena meridionale di Syunik.
L’Iran ha anche accusato Baku di concedere ad Israele il territorio azero per operazioni di intelligence e spionaggio ai suoi danni, che potrebbero fra l’altro servire a fomentare tendenze separatiste nella minoranza azera dell’Iran.
Per tutte queste ragioni, Teheran ha ripetutamente messo in chiaro che l’integrità territoriale dell’Armenia è una linea rossa che non può essere oltrepassata, e che l’Iran sarà pronto a difendere con le armi.
La recente tragedia del Karabakh conclusasi con il drammatico esodo degli armeni, dunque, più che chiudere un capitolo della travagliata storia del Caucaso, potrebbe aprirne uno ancor più pericoloso per la stabilità regionale ed internazionale.
Grazie mille!
Forse uno dei migliori, se non il migliore articolo sull'intricatissima situazione nel Caucaso che abbia letto finora.
“Deportazioni e massacri” è un po’ riduttivo per descrivere il primo genocidio del XX secolo di cui mai si parla. Per il resto ottimo articolo.