La strategia negoziale di Trump è già sul punto di fallire?
In un quadro di “diplomazia muscolare”, dichiarazioni impulsive e contraddittorie, e nebulosità dei reali obiettivi diplomatici, i negoziati sull’Ucraina potrebbero finire presto in un vicolo cieco.

A poche settimane dall’avvio dei negoziati per la risoluzione del conflitto ucraino, lo sforzo diplomatico del presidente americano Donald Trump sta incontrando numerosi ostacoli.
Le ragioni sono molteplici.
Trump ha il merito di aver iniziato una trattativa impensabile fino a pochi mesi fa, alla luce dell’intransigenza di Kiev e dei suoi alleati occidentali riguardo alla prospettiva di aprire un dialogo con Mosca.
Ma le strategie negoziali della Casa Bianca sono state spesso incoerenti, talvolta dilettantesche, essenzialmente di natura transazionale e utilitaristica, oltre che poco attente alle posizioni dei suoi recalcitranti alleati.
A ciò bisogna aggiungere che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e i suoi sostenitori europei hanno fatto di tutto per boicottare il negoziato.
Accordi parziali e nebulosi
La strategia di Trump si è concentrata sul tentativo di giungere ad un cessate il fuoco iniziale di trenta giorni finalizzato all’avvio di vere trattative di pace.
Ma, in assenza di una definizione chiara degli obiettivi finali del negoziato, una tregua di questo genere avvantaggia la parte perdente nel conflitto: Kiev avrebbe modo di riorganizzarsi, ricevere munizioni e armamenti, e mobilitare nuovi uomini.
Da qui la cautela di Mosca. Il 13 marzo, il presidente russo Vladimir Putin ha chiarito che “partiamo dalla posizione che questa cessazione debba portare ad una pace a lungo termine ed eliminare le cause di questa crisi”.
Il capo del Cremlino ha aggiunto che, in merito alla proposta di cessate il fuoco, “emergono questioni relative al monitoraggio ed alla verifica” della tregua.
Come misura di buona volontà, Mosca si è invece detta disponibile a implementare due cessate il fuoco parziali, il primo riguardante le infrastrutture energetiche, il secondo il bacino del Mar Nero.
La prima proposta è emersa da una telefonata fra Trump e Putin. La seconda dagli incontri che la delegazione americana ha tenuto separatamente a Riyadh, in Arabia Saudita, con quella ucraina e quella russa fra il 23 e il 25 marzo.
Il cessate il fuoco energetico è stato subito macchiato da accuse reciproche di presunte violazioni. Particolarmente eclatante, senza dubbio, la principale violazione ucraina. Kiev ha distrutto la stazione di misurazione del gas di Sudzha, nella regione russa di Kursk.
Alla dura condanna russa, Kiev ha risposto affermando che Mosca avrebbe bombardato il proprio stesso impianto.
La Russia, dal canto suo, ha affermato che l’attacco ucraino compiuto con missili HIMARS sarebbe stato reso possibile dall’impiego di satelliti francesi e dalla collaborazione di specialisti britannici nel definire le coordinate dell’obiettivo.
Un altro problema è che dai negoziati indiretti tenuti a Riyadh sono emerse interpretazioni contrastanti degli accordi presi.
Come parte integrante del cessate il fuoco sul Mar Nero, i russi hanno chiesto la rimozione delle sanzioni dalla Rosselkhozbank (la banca agricola russa) e delle altre restrizioni che ostacolano l’esportazione dei fertilizzanti russi, incluse quelle sulle compagnie di assicurazioni.
Il testo fornito dalla Casa Bianca è sembrato accettare le richieste russe, affermando che “gli Stati Uniti contribuiranno a ripristinare l’accesso della Russia al mercato mondiale delle esportazioni agricole e dei fertilizzanti, ad abbassare i costi delle assicurazioni marittime, ed a migliorare l’accesso ai porti ed ai sistemi di pagamento per tali transazioni”.
Gli ucraini invece non hanno fatto menzione di simili accordi. Una quota essenziale di queste sanzioni dipende poi dai paesi europei i quali, insieme alla Commissione UE, hanno ribadito che non intendono in alcun modo ridimensionare l’impianto sanzionatorio nei confronti di Mosca.
La portavoce della Commissione Anitta Hipper ha addirittura dichiarato che “il ritiro incondizionato di tutte le forze militari russe dall’intero territorio dell’Ucraina sarà una delle principali precondizioni per modificare o revocare le sanzioni”.
Una posizione evidentemente del tutto irrealistica alla luce dell’attuale situazione sul terreno, e indicativa di quanto l’UE sia ostile all’iniziativa negoziale di Trump.
Del resto, sebbene la richiesta russa sia stata descritta come sproporzionata da numerosi commentatori europei, vale la pena ricordare che tali condizioni ricalcano quelle dell’accordo sul grano dal quale la Russia uscì nel luglio 2023 proprio perché i paesi europei continuavano ad ostacolare le esportazioni russe di fertilizzanti e generi alimentari.
L’ostacolo Zelensky
Un altro problema che ostacola il raggiungimento di un accordo di pace è rappresentato dall’illegittimità dell’attuale presidente ucraino, il cui mandato è scaduto lo scorso maggio.
Un avvicendamento al potere in teoria consentirebbe di avere a Kiev un presidente legittimo e, idealmente, più flessibile rispetto alle posizioni massimaliste di Zelensky.
Un cessate il fuoco permetterebbe la cancellazione della legge marziale, che impedisce di convocare consultazioni elettorali, al fine di giungere all’elezione di un nuovo presidente e di un nuovo parlamento.
Sembrava essere questo il piano dello stesso Trump all’inizio della sua offensiva diplomatica.
Secondo l’Economist, tuttavia, Zelensky avrebbe avviato seri preparativi per giungere alla propria rielezione in estate. Fonti governative ucraine hanno riferito al settimanale britannico che Zelensky avrebbe dato istruzioni al proprio entourage di organizzare il voto dopo il cessate il fuoco che gli americani speravano di riuscire a imporre entro fine aprile.
La legge ucraina prevede una campagna elettorale di almeno 60 giorni, dunque le elezioni si potrebbero tenere non prima di inizio luglio.
Perfino se Zelensky non dovesse essere rieletto, un candidato come l’ex comandante dell’esercito Valery Zaluzhny, considerato una possibile alternativa all’attuale presidente, non offrirebbe necessariamente garanzie di maggiore accondiscendenza in un negoziato di pace.
Di fronte a simili scenari, l’unica possibilità sarebbe una terza via, ventilata da Putin la scorsa settimana durante una visita a Murmansk, nella Russia nordoccidentale.
Riconoscendo a Trump la sincera intenzione di giungere a una soluzione negoziata del conflitto, il presidente russo ha ipotizzato la possibilità di stabilire un’amministrazione temporanea in Ucraina sotto gli auspici dell’ONU.
Essa avrebbe il compito di organizzare elezioni realmente democratiche che portino al potere un governo legittimato a livello popolare. Solo a quel punto avrebbero inizio i negoziati per giungere a un trattato di pace internazionalmente riconosciuto.
Putin ha sottolineato che precedenti di questo tipo si sono verificati a Timor Est, nella ex Jugoslavia e in Nuova Guinea. Sebbene egli non lo abbia menzionato, la definizione da parte dell’ONU di una forza di peacekeeping per svolgere le elezioni eliminerebbe in un sol colpo la necessità di una “coalizione dei volenterosi” a guida europea in Ucraina.
Trump ha però risposto in maniera inaspettatamente stizzita a una simile ipotesi, affermando di essere “arrabbiato” con Putin per aver messo in dubbio la credibilità di Zelensky e aggiungendo che, se non si dovesse arrivare ad un cessate il fuoco “per colpa della Russia”, egli sarebbe pronto a imporre “dazi secondari” su tutto il petrolio esportato da Mosca.
La reazione del presidente americano è tanto più sorprendente se si pensa che egli stesso aveva definito Zelensky “un dittatore” che “si rifiuta di svolgere le elezioni”.
Trump ha successivamente ammorbidito le sue affermazioni nei confronti della Russia, ma questo susseguirsi di dichiarazioni dai toni contrastanti non aiuta a creare un clima di fiducia fra le parti.
Sul versante ucraino, l’ostinazione del leader USA ad imporre a Kiev un “accordo capestro” sullo sfruttamento americano delle risorse minerarie ed energetiche del paese risulta a sua volta controproducente.
Raffreddamento americano?
Esponenti dell’amministrazione hanno inoltre confermato di essere “diffidenti” sulle reali intenzioni di Putin e di prevedere la possibilità di imporre sanzioni aggiuntive alla Russia.
Durante un incontro con i ministri degli esteri dei paesi baltici, il segretario di Stato Marco Rubio ha detto ai suoi colleghi che la pace in Ucraina non era garantita e che gli USA erano ancora lontani dal giungere a un accordo.
Dal canto suo, il portavoce del Consiglio per la Sicurezza Nazionale ha parlato di “profonda frustrazione” nei confronti del governo russo sui negoziati.
Metà del Senato USA – 25 repubblicani e 25 democratici – ha presentato una mozione per imporre sanzioni a Mosca qualora non si “impegni in buona fede” nelle trattative per il cessate il fuoco.
Dal canto loro, numerosi paesi europei stanno esercitando pressioni su Trump affinché fissi una chiara scadenza per l’accettazione del cessate il fuoco da parte della Russia, oltrepassata la quale Mosca verrebbe colpita da dure sanzioni secondarie sulle sue esportazioni petrolifere.
E’ quanto ha chiesto la scorsa settimana al presidente americano, fra gli altri, il suo omologo finlandese Alexander Stubb facendogli visita presso la sua residenza di Mar-a-Lago in Florida.
Come abbiamo visto, però, un cessate il fuoco in assenza di una chiara definizione degli obiettivi finali del negoziato non è accettabile per Mosca, in quanto avvantaggerebbe esclusivamente l’Ucraina.
Nei giorni scorsi, il viceministro degli esteri russo Sergei Ryabkov ha affermato chiaramente che Mosca non può accettare le proposte negoziali americane nella loro forma corrente in quanto non affrontano le cause che hanno provocato la guerra.
Ryabkov ha chiarito che negli attuali negoziati “non c’è posto per la nostra richiesta principale, ovvero la soluzione dei problemi legati alle cause profonde di questo conflitto” – problemi come la neutralità dell’Ucraina e l’espansione a est della NATO.
La frattura è stata apparentemente ricomposta dalla visita a Washington dell’inviato presidenziale russo Kirill Dmitriev, ma i problemi di fondo permangono.
L’Artico fra partnership e competizione
La cautela di Mosca è dettata anche dalla consapevolezza che, malgrado la recente apertura negoziale, Washington rimane un avversario da cui guardarsi.
Lo conferma la determinazione dell’amministrazione USA ad impadronirsi della Groenlandia, scenario che accrescerebbe la minaccia americana nell’Artico per la Russia.
Il corridoio marittimo tra Groenlandia, Islanda e Regno Unito, noto come “GIUK Gap”, è una strettoia che funge da collo di bottiglia per la flotta settentrionale russa, consentendo alla NATO di rilevare, tracciare e, se necessario, intercettare sottomarini e navi di superficie che tentano di transitare dall’Artico all’Atlantico.
Nei giorni scorsi, il vicepresidente J.D. Vance si è recato in visita presso la base militare statunitense di Pituffik sull’isola artica per lanciare un messaggio sbalorditivo ai propri alleati danesi che la controllano dal 1721.
“Il nostro messaggio alla Danimarca è molto semplice: non avete fatto un buon lavoro per la gente della Groenlandia. Avete investito troppo poco nella gente della Groenlandia e avete investito troppo poco nell'architettura di sicurezza di questa incredibile, bellissima terra”.
“Questo deve semplicemente cambiare”, ha aggiunto Vance. “È la politica degli Stati Uniti che ciò cambi”. La tesi di Trump, secondo il vicepresidente americano, è che “quest’isola non è al sicuro” perché “molti sono interessati ad essa”.
Ed è per questa ragione che, a giudizio di Vance, la Groenlandia starebbe meglio “sotto l’ombrello di sicurezza degli Stati Uniti”.
Altrettanto singolare è che la premier danese Mette Frederiksen, che è in prima fila nel sostegno all’Ucraina e nella campagna di riarmo dell’Europa contro la “minaccia russa”, non abbia quasi mai alzato la voce con quello che continua a definire “il nostro più stretto alleato ed amico” prima della visita di Vance in Groenlandia.
All’indomani di quella visita, il ministro degli esteri danese Lars Løkke Rasmussen si è permesso di osservare, fra l’altro, che la Groenlandia è parte della NATO e pertanto dovrebbe essere coperta dalle garanzie di sicurezza dell’Alleanza.
Se gli Stati Uniti dovessero impadronirsi dell’isola con la coercizione, certamente si tratterebbe di un evento in grado di mettere a rischio l’esistenza stessa della NATO. Ciò non toglie che una rafforzata presenza americana nell’Artico non sarebbe un elemento positivo per Mosca.
Tant’è vero che la diplomazia russa sta cercando di coinvolgere Washington in progetti di collaborazione comune nella regione che ne smussino la spinta aggressiva. E’ stato questo uno degli obiettivi della visita di Dmitriev alla Casa Bianca.
Fedele alla propria visione di un mondo multipolare, Mosca cerca di equilibrare i propri rapporti fra blocchi contrapposti senza aderire pienamente a nessuno di essi.
Il Cremlino continua sostanzialmente ad applicare la dottrina dell’ex premier Yevgeny Primakov, che consiste nell’evitare di aderire a schieramenti precostituiti, e nel preservare la sovranità russa rifiutando un’ideologia predeterminata.
La “diplomazia muscolare” di Trump
Ma l’Artico non è la sola regione dove gli USA si pongono come avversario di Mosca.
In Libia, dove la Russia ha ridislocato parte delle forze che aveva in Siria, Washington sta cercando di sottrarre il generale Khalifa Haftar, uomo forte che controlla la Cirenaica, all’influenza russa.
A partire da febbraio, i vertici militari americani hanno organizzato diversi incontri con vari leader libici, incluso Haftar e il figlio Saddam.
A fine febbraio due bombardieri B-52 americani hanno sorvolato la Libia orientale in occasione di esercitazioni militari congiunte tenute dal Pentagono con gli uomini di Haftar.
La predilezione di Trump per una diplomazia muscolare che rischia in ultima analisi di far fallire ogni sforzo negoziale è evidente anche nel suo approccio all’Iran.
Nei giorni scorsi il presidente americano ha apertamente minacciato di bombardare il paese se Teheran non accetterà di stipulare un nuovo accordo nucleare (dopo che quello raggiunto nel 2015 era stato affossato dallo stesso Trump), i cui termini probabilmente sarebbero dettati dalla Casa Bianca.
Per rendere ancor più concreta la minaccia, il Pentagono ha inviato ben sei bombardieri “stealth” B-2 (il 30% della disponibilità USA di bombardieri stealth, secondo la CNN) nella base di Diego Garcia nell’Oceano Indiano.
E questo mentre Washington ha ripreso a bombardare pesantemente il gruppo sciita degli Houthi, alleati di Teheran, nello Yemen. Anche in questo caso Trump non si è astenuto dal lanciare le proprie colorite quanto inquietanti minacce: ““L’inferno si abbatterà su di voi come non avevate mai visto prima”.
Dal canto suo, il Consigliere per la sicurezza nazionale Mike Waltz ha sottolineato che gli attuali bombardamenti sullo Yemen differiscono da quelli della precedente amministrazione perché questa volta la Casa Bianca intende prendere di mira esplicitamente la leadership degli Houthi, e considera l’Iran diretto responsabile degli attacchi compiuti da questi ultimi.
In un simile quadro di “diplomazia muscolare”, di dichiarazioni impulsive e contraddittorie, e di nebulosità dei reali obiettivi diplomatici, è possibile immaginare che anche i negoziati con Mosca sull’Ucraina finiscano prima o poi in un vicolo cieco.
Tanto più che sia l’intransigenza di Kiev che quella europea complicano ulteriormente il quadro negoziale.
Se le trattative dovessero fallire, però, un rinnovato impegno di Washington a sostegno di Kiev appare improbabile.
Più verosimile è che la Casa Bianca si sfili semplicemente dal conflitto, lasciando agli europei il compito di gestire la crisi.
Sembrerebbero confermarlo le indiscrezioni su un memorandum del Pentagono firmato dal Segretario alla Difesa Pete Hegseth all’inizio di marzo. Secondo questo documento, è estremamente difficile che gli USA forniscano un sostanziale supporto agli europei nel caso di un’avanzata militare russa.
I membri europei della NATO dovranno assumersi in prima persona la responsabilità della difesa del continente, mentre la priorità americana sarà quella di contenere la Cina, in primo luogo riguardo alla questione di Taiwan.
Le possibilità di una soluzione negoziata del conflitto ucraino paiono dunque quantomeno incerte, in un quadro internazionale dove dominano sempre più caos e frammentazione.
Io fossi Putin non mi limerei a chiudere un accordo con l'uomo arancione sull'Ucraina, ma pretenderei queso:https://nsarchive.gwu.edu/briefing-book/russia-programs/2017-12-12/nato-expansion-what-gorbachev-heard-western-leaders-early