L’11 settembre israeliano: molti misteri, nessuna risposta
A proposito dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, si è parlato di uno spettacolare fallimento dell’intelligence israeliana. Ma forse non è una descrizione adeguata.
“La portata del fallimento dell’intelligence israeliana è scioccante quasi quanto la brutalità e il successo dell’attacco di Hamas del 7 ottobre”, recita un articolo pubblicato dal Modern War Institute di West Point, centro di ricerca sulle tecniche di guerra all’avanguardia negli USA.
L’azione di Hamas è stata descritta come imprevista, inaspettata, sorprendente, in quello che molti in Israele hanno definito “l’11 settembre israeliano”. La barriera di separazione che segna il confine di Gaza, un’opera ad alta tecnologia costata più di 1 miliardo di dollari, è stata violata dai miliziani palestinesi con apparente facilità.
Sebbene la loro azione fosse meticolosamente pianificata, gli uomini di Hamas hanno usato equipaggiamento poco sofisticato per violare la barriera e compiere la loro incursione in territorio israeliano: droni a buon mercato, bombe, bulldozer, parapendio a motore, motociclette.
Proprio la lunga pianificazione dell’attacco rende ancor più inspiegabile come esso sia passato inosservato. Sebbene sia facile che azioni terroristiche di “lupi solitari” o di piccoli gruppi non vengano scoperte anticipatamente, diverso è il caso di piani complessi, messi a punto per mesi se non per anni, che coinvolgono centinaia di uomini.
Tanto più che il regime di sorveglianza a cui è assoggettata la società palestinese, costruito da Israele nel corso di decenni, è “altamente sofisticato e invasivo”, ha scritto Peter Beaumont sulle pagine del Guardian. Il monitoraggio delle attività di Hamas, in particolare, è ritenuto uno dei compiti più importanti della sicurezza israeliana.
Come elementi dell’Unità 8200 di guerra cibernetica delle forze armate israeliane rivelarono nel 2014, l’intelligence israeliana compie enormi sforzi per identificare potenziali informatori nei territori palestinesi.
Di solito vengono ricercati individui con problemi finanziari, di salute, o con altre vulnerabilità, ma anche i palestinesi detenuti nelle carceri israeliane.
L’industria israeliana della sorveglianza è tra le più avanzate a livello globale, come conferma il recente scandalo di Pegasus, sofisticato sistema di spionaggio messo a punto dalla compagnia israeliana NSO e venduto a numerosi governi in tutto il mondo, in grado di hackerare un telefono cellulare prendendo il controllo del dispositivo e dei suoi contenuti.
Un “gioiello tecnologico”
La potenziale minaccia rappresentata da Hamas è sempre stata evidente agli occhi della sicurezza israeliana così come degli abitanti dei kibbutz che vivevano vicino al confine di Gaza.
Da un lato del confine vi era una forza rinchiusa in un’esile striscia di terra da un assedio che durava dal 2007, una forza che non riconosceva Israele ed era determinata a preparare attacchi contro gli obiettivi sensibili del nemico.
Dall’altro, talvolta quasi addossate alla barriera di sicurezza, vi erano comunità civili e strutture militari che certamente potevano figurare tra i potenziali bersagli di un attacco. La semplice prossimità geografica generava la consapevolezza del pericolo esistente.
La costruzione della costosa e sofisticata barriera di separazione lungo tutto il confine di Gaza aveva proprio lo scopo di impedire a Hamas di infiltrarsi in territorio israeliano. Tentativi di attaccare i kibbutz si erano infatti già verificati in passato.
L’ultimo era avvenuto alla fine del 2017, dopo che già nel 2014 palestinesi armati erano stati sorpresi e uccisi dopo essere emersi da un tunnel diretto verso il kibbutz di Sufa, probabilmente con l’intenzione di “assassinare e sequestrare civili”.
La barriera di sicurezza era stata completata alla fine del 2021 con l’aggiunta di un muro sotterraneo, che affonda per decine di metri nel sottosuolo, dotato di sensori per scongiurare la minaccia dei tunnel. Esso andava a sommarsi ad una recinzione terrestre alta 6 metri e ad una barriera marina con strumentazione di monitoraggio per impedire un’eventuale incursione via mare.
La barriera terrestre è supportata da dispositivi di rilevamento come robot, droni e veicoli terrestri senza equipaggio, dotati di strumentazione visiva ed elettronica e supportati dall’intelligenza artificiale, che operano attraverso basi di comando e controllo disposte lungo la barriera.
La recinzione è protetta da sistemi d’arma controllati a distanza, e da radar e telecamere che coprono l’intero perimetro. Si tratta di un complesso tecnologico e ingegneristico che non ha eguali nel mondo.
Il generale Eran Ofir, responsabile dell’opera presso il ministero della difesa, dichiarò che la barriera era “uno dei progetti più complessi che l’establishment della difesa abbia mai costruito”, aggiungendo che “siamo sempre in guardia per sorvegliare, migliorare e garantire che la parte avversa non possa passare”.
Il “sonno” dell’intelligence
Malgrado quest’incredibile opera tecnologica, e l’enorme sforzo di intelligence abitualmente profuso dalle agenzie di sicurezza israeliane per monitorare ogni aspetto della vita palestinese, i numerosi segnali premonitori di una potenziale azione ostile sono stati inspiegabilmente trascurati.
Secondo l’agenzia di stampa iraniana Tasnim, i preparativi condotti da Hamas per compiere l’attacco del 7 ottobre hanno richiesto quattro anni (altre stime si attestano su un periodo di due anni), la creazione di una sala operativa centralizzata, e quattro serie di esercitazioni che simulavano attacchi via terra e via mare.
La scrupolosa pianificazione dell’attacco al kibbutz di Nir Oz, l’articolata azione offensiva contro la base Yarkon dell’Unità 8200 vicino al kibbutz di Urim, e i documenti ritrovati sul luogo del respinto attacco al kibbutz di Mifalsim, attestano una meticolosa organizzazione ed una ben coordinata catena di comando.
Le informazioni relative a piani così articolati dovevano essere note a centinaia di membri di Hamas. Come ha scritto Uri Bar-Joseph, professore emerito all’Università di Haifa e noto esperto di intelligence e sicurezza nazionale, “è difficile credere che nulla di questi preparativi sia stato rilevato dagli asset di alto livello per la raccolta informazioni dello Shin Bet [il servizio di sicurezza interno] e dell’MI [l’Intelligence Militare] nella Striscia di Gaza; e se così fosse, si tratterebbe di un fallimento di prim’ordine”.
Lo Shin Bet è l’agenzia incaricata di raccogliere informazioni da fonti umane nei territori palestinesi e – scrive Bar-Joseph – si ritiene che i suoi agenti possiedano un’intima conoscenza di ciò che accade a Gaza.
Neanche le intercettazioni elettroniche dell’MI e dello Shin Bet sembrano aver dato risultati, ma ciò potrebbe forse essere dovuto alle precauzioni adottate da Hamas dopo i successi dell’Unità 8200 lungamente sbandierati dalla stampa.
Più incomprensibile – osserva Bar-Joseph – è la decisione, circa un anno fa, di smettere di intercettare i walkie-talkie non criptati che i miliziani di Hamas usano regolarmente, e che hanno utilizzato anche durante l’attacco del 7 ottobre.
Alla possibilità che i preparativi di Hamas non siano stati rilevati, l’esperto israeliano contrappone poi un’ipotesi più inquietante: “E’ molto più probabile che buone informazioni siano arrivate” ai vertici dell’intelligence, e siano state vagliate e scartate in base all’assioma che “Hamas è stato dissuaso” dal compiere attacchi contro Israele.
Lo scorso maggio, l’attuale direttore dell’MI, Aharon Haliva, aveva affermato alla Conferenza di Herzliya (un vertice annuale per la discussione di tematiche di sicurezza, fra i più importanti in Israele) che Hamas aveva interesse a mantenere la calma a Gaza dopo l’operazione militare “Guardian of the Walls” condotta da Israele nella Striscia nel 2021.
Segnali incontrovertibili
Tuttavia, erano numerosi i segnali che sconfessavano la tesi propagandata dall’intelligence secondo cui la deterrenza israeliana aveva avuto successo su Hamas.
Lo scorso 12 ottobre, solo cinque giorni dopo l’attacco compiuto dal gruppo armato palestinese, la CNN pubblicava un reportage sulle esercitazioni compiute dai suoi miliziani in vari campi di addestramento a Gaza. Alcuni video mostrano gli uomini di Hamas simulare l’assalto a un kibbutz, utilizzando un modello a grandezza naturale costruito allo scopo, vicino al valico di Erez nel nord della Striscia.
Modelli analoghi sono stati costruiti altrove a Gaza. In particolare, nel sud dell’enclave palestinese vi erano i campi per addestrarsi con i parapendio a motore.
Un gruppo di residenti dei kibbutz prospicienti Gaza, guidato da un certo Menachem Gida (un appassionato di strumenti di comunicazione), ha fatto ciò che apparentemente l’intelligence israeliana ha trascurato di fare, monitorando le comunicazioni wireless non protette provenienti dalla Striscia.
Il gruppo ha captato informazioni sulle esercitazioni finalizzate a violare la barriera di separazione, ad attaccare i kibbutz ed a catturare ostaggi. Allarmati dal materiale intercettato, questi comuni cittadini hanno trasmesso tali informazioni all’esercito, che le ha qualificate come “fantasie”.
Infine, lo scorso aprile, le forze armate hanno limitato le capacità del gruppo di monitorare le comunicazioni di Hamas. Malgrado ciò, Gida e i suoi compagni hanno colto un’intensificazione delle esercitazioni in tempi recenti, e queste informazioni sono state riportate da un’emittente pubblica pochi giorni prima dell’attacco del 7 ottobre.
Le soldatesse di Nahal Oz
Rilevazioni che avrebbero dovuto essere tenute in ben altra considerazione dai vertici militari e dell’intelligence sono quelle provenienti dagli osservatori dell’esercito al confine con Gaza. In gran parte soldatesse di stanza presso la base di Nahal Oz, questi preziosi elementi dell’esercito avevano rilevato qualcosa di insolito almeno tre mesi prima dell’attacco.
Sessioni di addestramento sempre più frequenti, che erano arrivate a svolgersi più volte al giorno, operazioni di scavo e sistemazione di esplosivi lungo il confine. I soldati che svolgono questo compito di osservazione forniscono informazioni di intelligence in tempo reale ventiquattr’ore al giorno, sette giorni alla settimana.
Le informazioni vengono raccolte attraverso telecamere, sensori ed altri strumenti, dettagliando ogni piccolo cambiamento che si verifica nell’area di monitoraggio di cui questi soldati sono responsabili.
Le informazioni così raccolte vengono poi trasmesse ai livelli superiori della catena di comando, inclusi i responsabili dell’intelligence. Ma, secondo i resoconti delle soldatesse della base di Nahal Oz, questi dati non sono stati presi seriamente.
Una di loro, Yael Rotenberg, ha riferito di aver comunicato che numerosi palestinesi in abiti civili si avvicinavano alla barriera di separazione con delle mappe, e compivano operazioni di scavo. Le è stato risposto che erano contadini, e che non c’era da preoccuparsi.
Rotenberg è l’unica sopravvissuta, assieme alla sua collega Maya Desiatnik, fra i soldati di sorveglianza presenti alla base quando l’attacco di Hamas ebbe inizio.
Altri osservatori militari hanno confermato i resoconti delle soldatesse: l’intensificarsi dell’addestramento, esercitazioni che prevedevano l’assalto a mezzi corazzati, l’impiego di armi da fuoco, l’attraversamento del confine dopo aver fatto saltare in aria una finta barriera di separazione.
Tutte queste informazioni sono state trasmesse ai superiori, i quali ripetevano che non erano importanti.
Disattenzioni
Altro episodio singolare è la mancata sostituzione dei palloni di monitoraggio segnalati come fuori uso poche settimane prima dell’attacco. Si tratta di palloni aerostatici utilizzati per monitorare il territorio di Gaza.
La guerra ucraina aveva poi fatto emergere innumerevoli video di piccoli droni a buon mercato utilizzati sia dagli ucraini che dai russi per sganciare ordigni esplosivi su mezzi e soldati nemici. Questa lezione è stata rapidamente recepita dall’esercito israeliano, ma solo dopo l’attacco di Hamas.
Mentre i mezzi corazzati che operano a Gaza presentano gabbie metalliche che proteggono la torretta dalla minaccia dei droni, non ne erano dotate né le torri di sorveglianza lungo la barriera di separazione, colpite dai droni di Hamas, né i carri armati similmente distrutti dal gruppo palestinese durante il suo attacco.
Avvertimento egiziano
Gli stessi servizi egiziani hanno rivelato che Abbas Kamel, ministro dell’intelligence, aveva personalmente contattato l’ufficio del premier israeliano, dieci giorni prima dell’attacco, ammonendo che “qualcosa di grosso” era in preparazione a Gaza.
Kamel sarebbe rimasto sbalordito dall’indifferenza con cui le sue informazioni erano state accolte dagli israeliani.
Questi ultimi hanno negato che un simile avvertimento fosse stato comunicato. Ma il presidente della Commissione affari esteri della Camera dei rappresentanti USA, il repubblicano Michael McCaul, pochi giorni dopo l’attacco ha confermato: “Sappiamo che l’Egitto aveva avvertito gli israeliani che un evento come questo sarebbe potuto accadere”.
McCaul ha aggiunto di non voler entrare in dettagli riservati, “ma un ammonimento era stato dato”.
Un nuovo paradigma
Assieme alle testimonianze recentemente emerse sull’eccessivo uso della forza da parte dell’esercito israeliano nel rintuzzare l’attacco di Hamas del 7 ottobre (a causa del quale un numero non esiguo delle 1.200 vittime dell’attacco sarebbe in realtà rimasto ucciso nel fuoco incrociato tra le forze israeliane e i miliziani palestinesi, o dal fuoco indiscriminato di tank ed elicotteri israeliani), la débâcle dell’intelligence di Tel Aviv solleva interrogativi sulla condotta dei servizi di sicurezza a cui solo un’inchiesta approfondita può dare qualche risposta.
Tali interrogativi alimentano la collera delle famiglie delle vittime e degli ostaggi nei confronti del premier Benjamin Netanyahu, il quale ha tuttavia rinviato ogni indagine sull’accaduto alla fase postbellica.
Diverse ragioni sono state avanzate per giustificare il clamoroso fallimento israeliano nel prevedere e sventare l’attacco, dall’eccessivo senso di sicurezza dei servizi di intelligence, allo smodato ricorso alla tecnologia, dall’instabilità politica e sociale in Israele per le recenti proteste contro la riforma giudiziaria di Netanyahu, all’attenzione delle forze armate troppo focalizzata sulle tensioni in Cisgiordania.
Fra le tante spiegazioni che si possono avanzare, ve n’è tuttavia una particolarmente allarmante: l’eventualità che dietro questi incredibili errori dei servizi di sicurezza vi fosse l’intenzione di dimostrare che Israele non può più affidarsi all’intelligence per impedire gli attacchi da Gaza, ma deve scongiurare potenziali minacce eliminandole preventivamente.
Come ha dichiarato minacciosamente un alto ufficiale israeliano, “l’unica soluzione è non affidarsi più all’intelligence”, poiché “la deterrenza non è più sufficiente…siamo di fronte a un nuovo paradigma”.
Che dire?! Direi che dopo questa disamina è abbastanza chiaro, se non ovvio, che l'attacco di Hamas del 7 Ottobre è stato un caso di LIHOP ("Let It Happen On Purpose"), come molti avevano sospettato sin dall'inizio.