Israele, USA e Iran: la guerra è appena cominciata – Parte II
Malgrado le dichiarazioni trionfalistiche, per Netanyahu e Trump la “guerra dei dodici giorni” ha avuto un esito fallimentare. Lo scontro è destinato a proseguire, con crescenti rischi per la regione.

Potete leggere la prima parte dell’articolo a questo link.
Malgrado la lunga e meticolosa preparazione, e l’appoggio logistico e di intelligence fornito dagli Stati Uniti, l’attacco sferrato da Israele lo scorso 13 giugno non ha raggiunto gli obiettivi prefissati.
Come ha osservato Hesamoddin Ashna, già consigliere dell’ex presidente iraniano Hassan Rouhani, al termine della “guerra dei dodici giorni” né Israele né l’Iran sono emersi vittoriosi, e nessuno dei due si sente sconfitto.
Lungi dall’essere permanente, il cessate il fuoco è subordinato alla capacità di ciascuno “di ricostruire le capacità offensive e difensive, la forza economica e la coesione sociale il più rapidamente possibile”.
Israele, ad ogni modo, non ha portato a casa il risultato a cui ambiva. Il governo Netanyahu aveva puntato a qualcosa di più ambizioso del ridimensionamento del programma nucleare iraniano (ed anche quest’ultimo obiettivo è in buona parte fallito, come vedremo).
I vertici militari israeliani hanno tentato una vera e propria operazione di cambio di regime, o addirittura di collasso dello stato, ai danni dell’Iran.
Una sofisticata operazione di intelligence
Gli strateghi israeliani avevano pianificato un’operazione che avrebbe accoppiato la forza aerea ad operazioni speciali condotte sul suolo iraniano attraverso commando israeliani ed agenti arruolati sul posto, che hanno dispiegato sciami di piccoli droni al fine di neutralizzare le difese aeree iraniane e massimizzare l’effetto sorpresa.
Il lavoro di pre-posizionamento dei droni sul territorio iraniano era ovviamente iniziato con mesi di anticipo, e ricorda molto da vicino l’operazione “Spider Web” con cui lo scorso 1° giugno l’Ucraina ha colpito numerose basi militari russe danneggiando o distruggendo diversi bombardieri strategici di Mosca.
Alla luce della somiglianza (riguardo all’inedito impiego dei droni) e vicinanza temporale fra le due operazioni, che hanno richiesto entrambe lunghi tempi di pianificazione, non si può affatto escludere un qualche processo di “osmosi” fra i servizi di intelligence dei due paesi tramite la “mediazione” di servizi occidentali.
Sia l’intelligence americana che quella britannica hanno strettissimi rapporti con i servizi ucraini e con quelli israeliani. Londra sembra avere un esplicito accordo di collaborazione militare con Israele in chiave anti-iraniana.
“Decapitare” la Repubblica Islamica
Ad aprile, appena un mese dopo il suo insediamento, il nuovo comandante dell’esercito israeliano Eyal Zamir aveva stabilito che il mese di giugno avrebbe offerto la migliore “finestra di opportunità” per l’operazione contro l’Iran.
Accanto all’azione finalizzata a neutralizzare le difese aeree iraniane, Israele aveva progettato una vera e propria operazione di decapitazione non solo dei vertici scientifici del programma nucleare iraniano, ma anche dei vertici militari (e politici) del paese.
La campagna contro gli scienziati nucleari, denominata “Operazione Narnia”, ha portato all’eliminazione di una quindicina di essi (assieme a loro, spesso sono state sterminate le loro famiglie).
Quella contro i vertici militari, che gli israeliani hanno chiamato “Operazione “Red Wedding” (da una scena di “Game of Thrones”), ha portato all’uccisione di una decina di alti capi militari fra cui il comandante delle forze armate Mohammad Baqeri, il comandante supremo della Guardia Rivoluzionaria Hossein Salami, e il comandante delle forze aerospaziali di questo stesso corpo armato, Amir Ali Hajizadeh.
Ali Shamkhani, consigliere di fiducia della Guida Suprema Ali Khamenei, inizialmente creduto morto, è sopravvissuto a stento alle gravi ferite provocate da un bombardamento della sua abitazione.
Il ministro della difesa israeliano Katz ha dichiarato che lo stesso Khamenei sarebbe stato eliminato se le forze armate di Tel Aviv ne avessero avuto l’opportunità, ma era stato impossibile localizzarlo.
Le affermazioni di Katz sembrano smentire le precedenti dichiarazioni del presidente americano Donald Trump.
Il 17 giugno, egli aveva scritto su Truth, il suo social preferito: “Sappiamo esattamente dove la cosiddetta “Guida Suprema” si nasconde. È un bersaglio facile, ma lì è al sicuro. Non lo elimineremo (non lo uccideremo!), almeno non per ora”.
Dopo che i più alti vertici militari iraniani erano stati uccisi, altri generali hanno ricevuto telefonate minatorie nelle quali si intimava loro di registrare video con una dichiarazione di resa, pena l’eliminazione dei loro figli. Nessuno di essi ha però ceduto alle minacce.
A far presupporre che Israele abbia puntato a provocare un collasso dello stato in Iran si aggiunge il fatto che sono state colpite le forze paramilitari dei Basij ed altre strutture della sicurezza interna, la sede della televisione di stato, e il carcere di Evin dove sono reclusi i principali dissidenti (nel bombardamento, sono rimaste uccise una settantina di persone, inclusi detenuti e loro familiari in visita).
Complessivamente, 28 province iraniane sono state colpite dai bombardamenti israeliani, che hanno preso di mira non solo obiettivi militari, ma anche infrastrutture civili, inclusi depositi di carburante, grandi magazzini, zone residenziali, ospedali, provocando oltre un migliaio di vittime, secondo un rapporto stilato dall’organizzazione Human Rights Activists in Iran (HRAI) (non affiliata al governo).
Una reazione inaspettata
Questa aggressione frontale da parte di Israele ha però avuto un effetto opposto a quello sperato dal governo Netanyahu. La Repubblica Islamica non solo ha resistito all’urto, ma ha mostrato una compattezza che ha colto di sorpresa israeliani ed americani.
La gran parte degli iraniani ha percepito l’azione israeliana non come un attacco rivolto contro il regime della Repubblica Islamica, ma contro la nazione dell’Iran.
Malgrado il carattere composito della società iraniana e le molteplici appartenenze etniche, gli iraniani sono accomunati da un forte senso di identità nazionale plasmato dalla memoria collettiva delle numerose ingerenze straniere nel paese.
Al di là delle divergenze ideologiche e sociali, essi antepongono l’ostilità nei confronti delle aggressioni straniere, ed in particolare occidentali, al risentimento verso il governo.
I gruppi di opposizione sostenuti dall’Occidente, come la setta islamo-marxista dei Mojahedin-e Khalq (MEK), o i monarchici fedeli a Reza Pahlavi (figlio del deposto Shah, e da molti iraniani percepito come un fantoccio nella mani di USA e Israele), non hanno alcun radicamento nel paese.
Gli apparati statali e militari, dopo lo shock iniziale e malgrado la perdita dei vertici della catena di comando, hanno reagito rimpiazzando prontamente i comandanti uccisi e mostrando la solidità di una struttura stratificata e istituzionalizzata, non dipendente da singole figure carismatiche.
Nessuna defezione si è registrata all’interno di tali apparati, nessun tentativo di rivolta, ma al contrario un marcato ricompattamento, si è verificato nella popolazione.
Pioggia di missili iraniani
Fin dalla sera del 13 giugno, le forze armate iraniane hanno risposto lanciando ondate di missili e droni in direzione del territorio israeliano. Gli attacchi iraniani sono cresciuti d’intensità nei giorni successivi, raggiungendo un tasso di penetrazione dello scudo missilistico israeliano pari al 16%, secondo un’indagine del Telegraph basata su dati satellitari.
Ciò si traduce nel fatto che decine di missili balistici iraniani hanno colpito il territorio israeliano provocando danni ingenti (quantificabili in 3 miliardi di dollari, secondo Bloomberg).
Il quotidiano israeliano Haaretz stima che solo a Tel Aviv siano stati danneggiati 480 edifici, molti dei quali in maniera grave.
Sebbene il governo israeliano abbia imposto la censura sugli obiettivi strategici colpiti dall’Iran, secondo la citata inchiesta del Telegraph i missili iraniani hanno colpito almeno 5 basi militari israeliane distribuite in diverse parti del paese.
Tra esse figurano un’importante base aerea, un centro di intelligence e una base logistica.
Tra gli altri obiettivi colpiti, il quotidiano britannico cita 7 infrastrutture energetiche (tra cui una raffineria a Haifa), due edifici del Weizmann Institute, uno dei principali centri di ricerca del paese, e il Soroka University Medical Center.
I danni alle aree residenziali hanno provocato 15.000 sfollati.
Il Telegraph cita anche il noto giornalista israeliano Raviv Drucker di Channel 13, secondo il quale molti attacchi iraniani alle basi militari israeliane sono andati a bersaglio , ma a causa della censura non ne è stata data notizia.
“Ciò ha creato una situazione in cui le persone non si rendono conto di quanto siano stati precisi gli iraniani e di quanti danni abbiano causato in molte zone”, ha detto Drucker.
Grazie alla fitta rete di rifugi antiaerei, Israele ha registrato solo 28 vittime, ma l’economia israeliana è rimasta paralizzata per dodici giorni.
Al costo dei danni e alle perdite derivanti dal blocco dell’economia bisogna aggiungere le spese militari derivanti dall’impiego del complesso scudo missilistico israeliano per cercare di intercettare i vettori iraniani. Secondo Haaretz, tali spese sono state dell’ordine di 287 milioni di dollari a notte.
Complessivamente, la guerra con l’Iran è costata a Israele diversi miliardi di dollari (12 secondo il ministro delle finanze Bezalel Smotrich).
Una cifra ingente per un conflitto di appena dodici giorni, soprattutto se si tiene conto che il bilancio israeliano per la difesa era di 46,5 miliardi nel 2024 (essendo già cresciuto del 65% rispetto all’anno precedente).
Chi ha aiutato Israele
Bisogna aggiungere che Israele non ha operato in solitudine né nella sua azione di attacco contro l’Iran né nella sua azione difensiva.
Nelle loro missioni contro il territorio iraniano, i caccia israeliani sono stati riforniti in volo, tra Siria e Iraq, da aerei cisterna americani.
E una coalizione di paesi regionali ed europei (Francia e Gran Bretagna) ha coadiuvato gli USA nell’intercettazione di missili e droni iraniani diretti contro Israele.
Washington ha ovviamente dato il contributo maggiore: alle due batterie di missili THAAD schierate sul territorio israeliano ha aggiunto cinque cacciatorpediniere dotati del sistema di difesa Aegis nel Mediterraneo orientale.
Secondo stime citate da Newsweek, gli USA avrebbero consumato tra il 15 e il 20% delle loro riserve di intercettori THAAD per difendere Israele dai missili iraniani, per una spesa complessiva che supererebbe gli 800 milioni di dollari.
Questo imponente dispiegamento di forze non ha impedito che lo Stato ebraico subisse i danni sopra citati.
Infine Tel Aviv ha dovuto chiedere l’aiuto degli Stati Uniti anche per colpire i siti nucleari iraniani con bombe “bunker buster” sufficientemente potenti.
Secondo il ministro della difesa israeliano Katz, nel momento in cui ha lanciato l’attacco all’Iran il governo Netanyahu non aveva la certezza che Trump sarebbe venuto in suo aiuto.
Fra gli esperti militari vi era la consapevolezza che forse neanche i più potenti ordigni americani sarebbero stati in grado di distruggere installazioni iraniane a grande profondità nel sottosuolo come quella di Fordow.
Israele avrebbe dunque giocato d’azzardo.
Alla fine i bombardieri americani B-2 hanno sganciato ben quattordici GBU-57 MOP su due siti nucleari iraniani (dodici su Fordow, due su Natanz). Si tratta degli ordigni convenzionali più potenti al mondo.
Ma secondo il Wall Street Journal, gli USA hanno prodotto finora circa una ventina di questi ordigni, dunque nel bombardamento delle installazioni iraniane avrebbero consumato il 70% delle proprie riserve di questa tipologia di bombe.
Poco dopo, Trump ha imposto un cessate il fuoco che è stato infine accettato sia da Israele che dall’Iran.
Probabilmente, la mossa del presidente americano è stata motivata, oltre che dalla sua riluttanza a sprofondare ancora una volta l’America in una pericolosa guerra mediorientale, anche dal fatto che Israele e gli stessi Stati Uniti avevano consumato un numero eccessivo di intercettori, ed avevano crescenti difficoltà a fermare i missili iraniani.
Come hanno osservato esperti americani, se lo scontro si fosse trasformato in una protratta guerra di logoramento, avrebbe comportato costi e danni esorbitanti per Israele.
Nessun obiettivo raggiunto
Il bilancio del conflitto è perciò tutto sommato deludente per Washington e Tel Aviv.
Israele non ha ottenuto un cambio di regime in Iran, ma anzi un ricompattamento del paese attorno al governo.
E a dispetto delle roboanti dichiarazioni di Trump, così come di altri esponenti dell’amministrazione e del governo Netanyahu, il programma nucleare iraniano, pur essendo stato danneggiato, è tutt’altro che annientato.
La polemica sorta a Washington, dopo che un’iniziale stima della Defense Intelligence Agency (DIA) aveva affermato che il bombardamento israelo-americano aveva ritardato il programma nucleare iraniano solo di alcuni mesi, si è smorzata allorché il Pentagono ha valutato in “due anni” il ritardo arrecato.
Ma questa polemica è fuorviante, come ha rilevato anche Jeffrey Lewis, esperto americano di non proliferazione nucleare.
Il punto essenziale è che, se Teheran avrà bisogno di tempo per ripristinare le strutture del proprio programma nucleare civile, il processo che porta alla produzione di una bomba atomica è invece molto più agile e rapido.
E l’Iran, che è stato bombardato pur aderendo al Trattato di non proliferazione (TNP) e avendo permesso agli ispettori dell’AIEA di ispezionare i propri siti nucleari, ha in questo momento ogni incentivo per sviluppare un programma nucleare militare al fine di dotarsi di un deterrente che gli permetta di non essere attaccato nuovamente.
Come ha osservato Lewis, l’ostacolo alla produzione di una bomba atomica non è mai stato tecnico per l’Iran, ma politico. In altre parole, Teheran fino ha questo momento non ha compiuto la scelta di costruire un ordigno. Ma proprio la guerra dei dodici giorni potrebbe aver fatto cambiare idea ai vertici iraniani.
A seguito del bombardamento israelo-americano, l’Iran ha cessato la propria cooperazione con l’AIEA, i cui ispettori hanno lasciato il paese.
Inoltre, più di 400 kg di uranio arricchito al 60% mancano all’appello, e nessuno sa più dove siano. Tutto lascia intendere che gli iraniani abbiamo rimosso questo materiale dai siti di Fordow e Natanz in previsione del bombardamento.
Con ogni probabilità, l’Iran possiede tuttora un numero sufficiente di centrifughe per continuare ad arricchire l’uranio, e dispone di almeno due siti fortificati di recente costruzione, a Natanz e Isfahan, che non sono stati neanche bombardati perché situati a profondità irraggiungibili anche dalle bombe USA più potenti.
Come riferisce Lewis, l’Iran ha anche una struttura sotterranea fuori Teheran (Shahid Boroujerdi) per la conversione in metallo dell’esafluoruro di uranio, un processo eventualmente necessario per la costruzione di un ordigno nucleare.
Questa struttura, mai attivata, potrebbe essere messa in funzione ora.
Tutto considerato, l’accordo del 2015 (JCPOA) aveva sottoposto il programma nucleare iraniano a un regime di stretta sorveglianza per 15 anni (e anche dopo la scadenza dell’accordo, tale programma sarebbe rimasto sotto la sorveglianza dell’AIEA).
Il bombardamento di giugno lo ha ritardato al più di pochi mesi (è la valutazione che fa anche Lewis) ed ha portato all’allontanamento degli ispettori dell’AIEA dall’Iran. Un risultato che si può ritenere, sotto ogni aspetto, fallimentare.
Uno scontro destinato a proseguire
Inoltre, sebbene Teheran abbia espresso la propria disponibilità a riaprire un negoziato, è evidente che le prospettive di successo di una trattativa sono al momento pressoché nulle, sia per la sfiducia che i vertici iraniani nutrono nei confronti dell’amministrazione Trump, sia perché la richiesta di quest’ultima di smantellare ogni infrastruttura per l’arricchimento dell’uranio è irricevibile per l’Iran.
Per Tel Aviv e Washington, tuttavia, se il programma nucleare non potrà essere eliminato per via negoziale, si ripresenterà l’esigenza di colpire periodicamente l’Iran al fine di riportare indietro le lancette di tale programma.
L’obiettivo finale, in ogni caso, è ben più grande.
Come ha scritto l’analista israeliano Raz Zimmt, dal punto di vista di Tel Aviv “una soluzione a lungo termine alla sfida iraniana […] sta in un cambio di regime a Teheran”. Nel frattempo, Israele proseguirà la sua campagna contro l’Iran “con mezzi diplomatici, economici, di intelligence, e militari, in stretto coordinamento con gli Stati Uniti”.
Quello che si profila, nel migliore dei casi, è perciò un lungo conflitto strisciante che avrà come teatro l’intera regione, nel quale Tel Aviv e Washington cercheranno di debilitare gli alleati regionali dell’Iran e isolare sempre di più Teheran.
Nel peggiore, questo scontro potrà portare a esplosioni analoghe alla “guerra dei dodici giorni” appena conclusasi, caratterizzate però da livelli di pericolosità ben maggiori, che potrebbero finire per destabilizzare l’intera regione.
Come ho messo in evidenza nella prima parte di questo articolo, siamo nel pieno di una campagna per la ridefinizione del Medio Oriente, dai Territori palestinesi al Libano, alla Siria, al Golfo (tramite gli Accordi di Abramo), e all’Iran.
Una campagna trainata da Israele, con il supporto determinante degli Stati Uniti, superpotenza indebitata e in declino che cerca di uscire dalla propria crisi attraverso azioni coercitive di natura economica (la guerra dei dazi) e militare.
L’esito di questa campagna è tutt’altro che scontato. La Repubblica Islamica ha dimostrato di avere solidità interna e capacità militari di rilievo.
L’Iran e il Medio Oriente, strategici dal punto di vista energetico e dei progetti di integrazione eurasiatica – dalla Belt and Road Initiative cinese all’International North-South Transport Corridor (INSTC) tra Russia e Iran – sono perciò candidati a diventare uno dei teatri più caldi e pericolosi della battaglia per la ridefinizione degli equilibri mondiali.
Non sarei eccessivamente preoccupato per i costi economici sostenuti da Israele. Pagheranno Zio Sam e gli europei