Gli scontri armati in Sudan e la battaglia per l’Africa
Un paese chiave per gli equilibri del Mar Rosso e del continente africano - dove si incrociano gli interessi regionali ma anche quelli di USA, Russia e Cina - sta sprofondando nella guerra civile.
A partire dal 15 aprile Khartoum, la capitale del Sudan, si è trasformata in una zona di guerra a causa degli scontri a fuoco scoppiati tra le Forze Armate Sudanesi (FAS) – ovvero l’esercito regolare – e le Forze di Supporto Rapido (FSR), una potente formazione paramilitare che finora aveva condiviso con le FAS il governo del paese.
Le violenze si sono estese rapidamente ad altre città del Sudan, colpendo anche il personale diplomatico occidentale: un convoglio americano è stato attaccato con armi da fuoco senza conseguenze, e il rappresentante UE in Sudan è stato aggredito e leggermente ferito nella sua abitazione.
Lo scontro armato è esploso dopo mesi di tensione attorno al processo di transizione politica arenatosi da tempo. La firma di un accordo per far ripartire tale processo era stata rinviata per due volte, l’ultima lo scorso 11 aprile.
2019: i militari depongono Bashir
L’origine della crisi risale al 2019, allorché un movimento di protesta nazionale portò al rovesciamento del presidente Omar al-Bashir, che aveva governato il paese per trent’anni. Bashir fu però deposto grazie all’azione decisiva dei militari, intervenuti dopo essersi resi conto che il presidente sarebbe caduto comunque.
La giunta militare che si costituì in quell’occasione era presieduta dal comandante delle FAS, generale Abdel Fattah al-Burhan, in qualità di presidente, e dal leader delle FSR, generale Mohamed Hamdan Dagalo (noto con il soprannome di Hemedti, che vuol dire “piccolo Mohamed”) in qualità di vicepresidente.
Entrambi erano vicini al deposto leader Bashir. Le FSR, costituitesi nel 2013, erano eredi delle milizie Janjaweed che Bashir aveva impiegato negli anni precedenti per combattere la ribellione nella regione occidentale del Darfur.
Le forze guidate da Hemedti, che avevano costituito una vasta rete finanziaria fondata sulle miniere d’oro del Darfur, erano divenute un ingombrante competitore per l’esercito regolare, ma l’esigenza di mantenere il controllo militare sul governo del paese, di fronte alle montanti forze rivoluzionarie, aveva portato a quest’alleanza di comodo.
Quando il sit-in di massa nella piazza antistante il quartier generale dell’esercito proseguì dopo la deposizione di Bashir, insistendo sulla richiesta di un governo civile, la giunta sguinzagliò le FSR. Il 3 giugno 2019, esse dispersero violentemente i manifestanti uccidendone oltre un centinaio, sotto lo sguardo attento dei vertici dell’esercito.
Dopo il massacro, i partiti conservatori (essenzialmente rappresentanti della borghesia cittadina sudanese) che facevano parte della coalizione Forces of Freedom and Change (FFC), espressione della protesta, avviarono una trattativa con la giunta per costituire un governo misto, civile e militare, di transizione. Il Partito Comunista Sudanese, un attore chiave del movimento rivoluzionario, si dissociò dalle FFC, disapprovando l’accordo con i militari che fu stipulato nell’agosto 2019.
Nuovo golpe e fallimento della successiva transizione politica
In base a questo accordo di condivisione del potere fra la giunta e le FFC, i militari continuavano a controllare la difesa, la polizia, la politica estera, e gran parte dell’economia del paese. Il residuo potere che fu assegnato ai rappresentanti civili del governo fu loro sottratto da un nuovo golpe militare nell’ottobre del 2021.
Ma, malgrado il protrarsi delle proteste popolari, le FFC tornarono a negoziare con la giunta. Nel dicembre 2022, fu firmato un Accordo Quadro che avrebbe dovuto aprire la strada ad un’intesa definitiva su una nuova struttura di condivisione del potere. La transizione si sarebbe dovuta concludere dopo due anni, portando il paese alle urne nel 2024.
Tuttavia, nuovi disaccordi si sono frapposti al processo di transizione. Oggetto della contesa questa volta è stata la prevista integrazione delle FSR nell’esercito regolare (FAS). Mentre il leader delle FSR, Hemedti, chiedeva che tale integrazione avvenisse in un periodo di dieci anni, il comandante delle FAS Burhan ha insistito sul suo completamento in un intervallo massimo di due anni.
Temendo l’intenzione di Burhan di circoscrivere ulteriormente il loro spazio di manovra includendo nell’accordo le formazioni politiche alleate del Partito del Congresso Nazionale (il partito islamista dell’ex presidente Bashir), i leader delle FFC sono sembrati disposti a concedere alle FSR il richiesto periodo di dieci anni.
In realtà, sia le FAS che le FSR desiderano conservare il potere il più a lungo possibile per preservare gli interessi derivanti dalle loro attività economiche, e per assicurarsi di non dover rispondere dei crimini da entrambe commessi contro il popolo sudanese negli anni passati.
Gli interessi delle FAS e delle FSR divergono invece sulla gestione dell’economia e sull’implementazione delle riforme necessarie a porre un argine alla crisi in cui sta sprofondando il paese. Sono queste divergenze, e le tensioni legate al processo di integrazione delle FSR nell’esercito regolare, ad essere sfociate nel conflitto armato degli ultimi giorni.
Tuttavia, per comprendere meglio le dinamiche in atto nel paese, e le influenze regionali ed internazionali che hanno contribuito a determinarle, è necessario compiere un ulteriore passo indietro, ripercorrendo brevemente l’evoluzione del Sudan dopo la raggiunta indipendenza.
Storia del Sudan: il pugno di ferro di Bashir
Prima della partizione avvenuta nel 2011, il Sudan era il più vasto stato africano, ma anche uno dei più eterogenei e compositi dal punto di vista geografico, etnico e culturale. Mentre nel Nord prevalgono le aree desertiche o semidesertiche, nel Sud vi sono paludi e foreste pluviali. Il Nilo divide il paese scorrendo da sud a nord. I suoi due rami principali, il Nilo Bianco e il Nilo Azzurro, si uniscono nella capitale Khartoum.
Terminato il condominio anglo-egiziano nel 1956, esplosero le tensioni tra il Nord e il Sud del paese, le cui divisioni erano state acuite dal fatto che i britannici avevano governato le due regioni attraverso due amministrazioni separate. I sudanesi del Sud, africani e in maggioranza cristiani (anglicani, presbiteriani, cattolici e copti) o animisti, temevano che il nuovo paese sarebbe stato dominato dal Nord prevalentemente arabo e musulmano, il quale aveva stretti legami con l’Egitto.
Il conflitto si concluse solo nel 1972, quando la giunta militare del presidente Gaafar Nimeiry accettò di concedere l’autonomia al Sud. Ma la guerra riesplose undici anni dopo, quando lo stesso Nimeiry, dopo aver revisionato l’Accordo di Addis Abeba del 1972, impose la sharia, la legge islamica, in tutto il paese.
Nel 1989, mentre il conflitto era ancora in corso, salì al potere a Khartoum il colonnello Omar al-Bashir attraverso un golpe militare senza spargimento di sangue. Egli ribadì l’applicazione della sharia e abolì i partiti politici nel 1990. Da quel momento in poi Bashir, a dispetto di alcune aperture di facciata, mantenne il potere concentrato nelle proprie mani.
Invece di fornire servizi alle aree periferiche del Sudan, Bashir fece uso delle milizie per tenerle a bada ponendo i numerosi gruppi etnici del paese gli uni contro gli altri. Egli privatizzò lo stato, dividendolo in “feudi” controllati dai suoi servizi di sicurezza, opportunamente moltiplicati e frammentati in modo da prevenire la possibilità di un golpe contro il regime.
L’esercito sudanese si trovò perciò presto a competere con il Servizio dell’Intelligence e della Sicurezza Nazionale, e con le milizie Janjaweed, solo per citare le fazioni principali. Ciascuno di questi apparati costruì il proprio impero economico. Le FAS, in particolare, controllavano società di costruzioni, società minerarie, e banche. Le FSR, eredi delle milizie Janjaweed, avrebbero preso il controllo delle miniere d’oro.
Bashir strinse un accordo faustiano con le grandi aree metropolitane sudanesi a scapito delle regioni periferiche del paese. Queste ultime venivano controllate con il terrore militare, mentre le loro risorse, dal petrolio al grano, venivano sfruttate a vantaggio delle città, in una sorta di relazione gerarchica di classe articolata sotto forma di antagonismo geografico.
Nel 2003, mentre il conflitto nella parte meridionale del paese stava volgendo al termine, una nuova guerra scoppiò in Darfur. Bashir decise di ricorrere allo stesso trucco che aveva utilizzato nel sud – dove milizie a lui fedeli avevano combattuto le forze ribelli sudiste – ed armò gli arabi del Darfur contro i ribelli non arabi.
Nacquero così le già citate milizie dei Janjaweed (i “malvagi cavalieri”), che crebbero fino a diventare una forza di decine di migliaia di combattenti, conducendo una guerra feroce contro i ribelli e i civili del Darfur. E’ in questo periodo che emerse la figura di Hemedti, inizialmente un commerciante di cammelli della piccola tribù araba dei Mahariya a cavallo tra Darfur e Ciad, infliggendo una serie di sconfitte ai ribelli del Darfur, ed entrando nelle grazie del presidente Bashir.
Gli USA, Israele, e la secessione del Sud Sudan
Bashir tuttavia pagò a caro prezzo la sua precedente guerra nelle regioni meridionali del paese, poiché queste ultime, grazie anche all’appoggio americano, finirono per ottenere la secessione.
Già nel 1993 gli USA avevano inserito il Sudan (che dall’anno precedente ospitava sul suo territorio Osama bin Laden) nella lista degli stati accusati di sostenere il terrorismo. Tra la fine del 1995 e l’inizio del 1996, funzionari sudanesi avevano avuto colloqui con responsabili americani e sauditi, ed avevano offerto di espellere bin Laden in Arabia Saudita in cambio di una riduzione delle pressioni internazionali nei confronti di Khartoum, tuttavia senza risultati. Nel maggio del 1996, bin Laden era tornato in Afghanistan, ma l’ostilità statunitense rimase inalterata.
L’interesse americano per la questione del Sud Sudan risale proprio ai primi anni ‘90. Progressivamente un insieme di gruppi evangelici, afroamericani, ebraici e laici negli USA si coalizzò a sostegno di tale causa. All’era Clinton risale l’invio di un surplus di 20 milioni di dollari in aiuti militari a paesi vicini come l’Etiopia e l’Uganda perché “rovesciassero” i successi militari del governo sudanese di Khartoum.
L’appoggio americano all’autodeterminazione del Sud tuttavia acquisì slancio sotto la presidenza di George W. Bush. Secondo statistiche dell’archivio dell’U.S. Official Development Assistance, il Sud Sudan divenne il terzo beneficiario di aiuti americani dopo l’Iraq e l’Afghanistan a partire dal 2005 (anno della firma dell’accordo di pace tra Nord e Sud, che prevedeva il referendum sull’indipendenza del Sud a distanza di sei anni).
Negli anni immediatamente precedenti il referendum del 2011, l’amministrazione americana arrivò a spendere circa 40 milioni di dollari all’anno per addestrare l’Esercito di Liberazione del Popolo Sudanese (SPLA, l’acronimo inglese), in particolare subappaltando il compito a contractor privati, e pagando i salari agli addestratori etiopi.
Nel giugno 2008, inoltre, la Corte Penale Internazionale (CPI) accusò Bashir di crimini di guerra e crimini contro l’umanità ai danni delle tribù non arabe in Darfur. Il 4 marzo 2009, la CPI emise un mandato di arresto internazionale nei confronti di Bashir, che risultò così il primo capo di stato incriminato dalla Corte essendo ancora nel pieno esercizio delle proprie funzioni.
La secessione del Sud Sudan era anche nell’interesse di Isrele. Tel Aviv cominciò a pensare seriamente all’utilità di indebolire il Sudan dopo la guerra del 1967, durante la quale Khartoum offrì sostegno logistico all’aeronautica ed all’esercito egiziani, dimostrando così di rappresentare una strategica retrovia per l’Egitto. E’ a partire da quel momento che Tel Aviv avrebbe deciso di appoggiare il movimento separatista sudanese del Sud.
Molti nel mondo arabo citano le parole di Avi Dichter, ex direttore dello Shin Bet, il servizio della sicurezza interna israeliana, il quale nel 2008 avrebbe affermato che indebolire il Sudan era necessario per rafforzare la sicurezza nazionale israeliana, e che Israele era intervenuta a sostegno delle forze separatiste sia nel Sud del paese che in Darfur.
Ridefinizione delle alleanze del Sudan
Con la secessione del Sud, il Sudan perse un quarto del suo territorio, circa otto milioni dei suoi cittadini e oltre il 70% dei suoi introiti petroliferi. Il paese continuò ad essere parzialmente isolato a livello internazionale, a causa della crisi del Darfur e del mandato di arresto spiccato dalla CPI contro Bashir, ma anche degli amichevoli rapporti che Khartoum intratteneva con l’Iran, nemico storico degli Stati Uniti e di Israele.
Malgrado gli sforzi di Bashir di trovare fonti alternative di valuta estera, nel 2018 l’economia del paese era in caduta libera. Con un atto di disperazione, il leader sudanese tagliò i sussidi su grano e combustibile che erano alla base del suo patto con le aree metropolitane del paese. Di lì a poco scoppiarono le proteste che avrebbero determinato la fine del suo governo trentennale.
Già dal 2013, tuttavia, Bashir aveva compreso di dover rompere il proprio isolamento internazionale ed aveva assecondato lo sforzo delle monarchie del Golfo, guidate dall’Arabia Saudita, di attirare il Sudan nella loro orbita sottraendolo all’influenza iraniana.
L’intervento saudita nella guerra civile dello Yemen, nel 2015, aveva fornito un ulteriore incentivo. Bashir aveva allineato il Sudan con la coalizione araba a guida saudita, inviando migliaia di soldati nello Yemen, e rompendo i rapporti diplomatici con l’Iran l’anno successivo, quando manifestanti iraniani avevano attaccato l’ambasciata saudita a Teheran.
Governo tecnocratico con la benedizione di Ryadh, Abu Dhabi e Washington
Tuttavia, quando nel 2018 scoppiarono le proteste in Sudan e divenne chiaro che Bashir stava perdendo il controllo, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (EAU) diedero la loro benedizione al colpo di mano di Burhan e Hemedti per rovesciarlo.
Riyadh e Abu Dhabi si coordinarono con gli USA e il Regno Unito per favorire un accordo fra i militari e i leader della protesta. Obiettivo prioritario delle due monarchie del Golfo era assicurarsi che il Sudan rimanesse nella loro sfera d’influenza, tenendolo lontano non solo dall’Iran, ma anche da Turchia e Qatar, che a partire dalle rivolte arabe del 2011 avevano sostenuto nella regione i partiti affiliati alla Fratellanza Musulmana. Quest’ultima era considerata un nemico mortale sia da Riyadh che da Abu Dhabi.
Nell’agosto del 2019 fu infine imposto il cosiddetto “Consiglio Sovrano”, la giunta presieduta da Burhan, e da Hemedti come suo vice, che controllava un governo tecnocratico guidato dall’ex economista dell’ONU Abdalla Hamdok, con Ibrahim Elbadawi (proveniente dalla Banca Mondiale) a ricoprire la carica di ministro delle finanze.
Burhan, considerato un militare e non un islamista, sebbene organico al precedente governo Bashir, era una figura tollerabile per l’Occidente, e perfino per i sauditi, che hanno mantenuto contatti indifferentemente con lui e con Hemedti. Col tempo, gli EAU hanno invece stretto legami soprattutto con quest’ultimo, dalle cui miniere hanno acquistato consistenti quantitativi d’oro.
Pur avendo disdegnato le rivendicazioni della protesta popolare, sia gli EAU (che hanno ingenti investimenti agricoli nel paese, e puntano ad ampliare la propria rete commerciale marittima costruendo una gigantesca struttura portuale a nord di Port Sudan) sia l’Arabia Saudita, che condivide con il Sudan un ampio tratto del Mar Rosso, hanno interesse a evitare la destabilizzazione del paese.
Burhan, dal canto suo, ha stretti rapporti con l’Egitto essendovi un legame storico fra l’esercito egiziano e quello sudanese. I comandanti sudanesi si sono formati tradizionalmente in Egitto, e negli ultimi anni i due paesi hanno condotto esercitazioni militari congiunte, intese anche come strumento di pressione nei confronti dell’Etiopia, in relazione a diverse dispute geopolitiche fra le quali spicca quella della Grand Ethiopian Renaissance Dam, la grande diga destinata a sottrarre ai paesi a valle una quota consistente del flusso idrico del Nilo.
Normalizzazione israeliana, interessi americani, presenza cinese
Gli attuali scontri a fuoco nel paese minacciano anche il processo di normalizzazione dei rapporti con Israele, iniziato sottotraccia nel 2016 dopo che Bashir aveva rotto i propri legami con l’Iran. Il Sudan divenne parte degli Accordi di Abramo, siglati nel 2020 fra Israele e diversi paesi arabi grazie alla mediazione dell’allora presidente americano Donald Trump.
Tali accordi erano tesi non solo a normalizzare i rapporti fra Tel Aviv e almeno una parte del mondo arabo, ma a consolidare un fronte regionale anti-iraniano.
Sia Burhan che Hemedti sono coinvolti nel processo di normalizzazione con Israele, ed hanno incontrato rappresentanti di alto livello del governo e dell’intelligence di Tel Aviv, sebbene altri politici sudanesi si oppongano a questo processo. Alla luce del riavvicinamento con Khartoum, dunque, anche Israele considera con preoccupazione il possibile scivolamento del Sudan in una guerra civile.
Timori analoghi, in linea di principio, sono nutriti da Washington. In questi anni gli USA non solo sono riusciti a sottrarre il Sudan all’influenza iraniana, ma anche a ridimensionare la penetrazione cinese nel paese.
La Cina rimane il principale partner commerciale del Sudan, ma i suoi investimenti nell’economia sudanese si sono notevolmente ridotti dopo la secessione del Sud. Pechino ha sensibilmente diminuito la sua dipendenza dal petrolio sudanese (ormai inferiore all’1% delle importazioni cinesi di greggio), sebbene la China National Petroleum Corporation rimanga il principale azionista nel consorzio petrolifero che opera in entrambi i paesi emersi dalla partizione.
Gli USA, dal canto loro, avevano certamente investito nel recente processo di transizione politica in Sudan, ma non è del tutto chiaro fino a che punto salvaguardare la stabilità del paese rientri nelle priorità di Washington (impegnata su ben altri fronti) e sia alla portata delle sue risorse diplomatiche.
Il segretario di Stato Blinken si è sforzato di spingere le due parti belligeranti ad accettare un cessate il fuoco, finora senza successo, mentre la Casa Bianca ha minacciato, senza troppa convinzione, l’imposizione di sanzioni contro i rappresentanti delle due fazioni in lotta.
Ancora una volta, Washington ha coordinato i propri sforzi diplomatici con Arabia Saudita, EAU e Regno Unito.
La penetrazione russa
Lo scorso settembre, John Godfrey, primo ambasciatore USA in Sudan da venticinque anni a questa parte, aveva messo in guardia Khartoum dal permettere alla Russia di stabilire una propria base navale sulla costa sudanese del Mar Rosso.
Un primo accordo in proposito era stato firmato da Mosca già con il governo del presidente Bashir. Secondo l’accordo, la Russia affitterebbe la base per venticinque anni, e avrebbe diritto a prolungare il contratto per altri dieci.
A febbraio, Hemedti si era recato a Mosca per ribadire che non vi erano ostacoli alla base russa sul Mar Rosso, ma si era attirato la condanna di Washington. Godfrey aveva affermato in quell’occasione che una simile decisione avrebbe avuto “conseguenze”.
I legami fra Khartoum e Mosca vanno però al di là della pur importante base navale.
A seguito della visita di Bashir a Mosca nel 2017, Meroe Gold, una compagnia mineraria di proprietà della società russa M Invest, aveva cominciato ad inviare propri esperti in Sudan. Tre anni dopo, gli USA hanno imposto sanzioni a entrambe le società, affermando che la prima era una copertura per il gruppo Wagner, compagnia di mercenari fondata da Yevgeny Prigozhin.
I mercenari russi avevano essenzialmente il compito di proteggere le risorse minerarie, in primo luogo le miniere d’oro, e di agire come forza di sostegno per il governo Bashir – afferma Samuel Ramadi, autore del libro “Russia in Africa”.
Più recentemente, i mercenari della Wagner avrebbero stretto rapporti con le FSR di Hemedti al fine di stabilire un traffico di oro dal Sudan a Dubai, ed infine in Russia, per finanziare le operazioni del gruppo.
Un aggravamento del conflitto in Sudan potrebbe inoltre compromettere l’accesso russo alla vicina Repubblica Centrafricana, dove il gruppo Wagner ha aiutato le autorità locali a riprendere il controllo di vaste aree del paese.
Secondo l’analista russo Dmitri Trenin, la principale ragione del rinnovato interesse della Russia per l’Africa è il “terremoto politico” che ha distrutto i rapporti di Mosca con l’Europa e l’Occidente. Con lo scoppio della guerra ibrida fra la Russia e le nazioni occidentali, i paesi del Medio Oriente, dell’Africa e dell’Asia hanno cominciato ad essere considerati da Mosca come i principali ed unici partner della Russia – ha affermato Trenin.
Rischi di destabilizzazione regionale
Alla luce di quanto detto, la maggioranza dei partner regionali ed internazionali del Sudan non ha teoricamente interesse a veder sprofondare il paese in una guerra civile. Tuttavia, siccome i leader politico-militari sudanesi non hanno alleanze stabili ma rapporti essenzialmente transazionali, e gli attori esterni coinvolti nel paese sono spesso tra loro rivali, vi è il rischio che un inasprimento del conflitto spinga tali attori ad appoggiare l’una o l’altra delle due parti belligeranti.
Il generale Khalifa Haftar, che in Libia sostiene il governo della Cirenaica, avrebbe già inviato almeno un aereo con rifornimenti militari diretti alle FSR di Hemedti, secondo il Wall Street Journal (accusa ovviamente da verificare). L’Egitto, che aveva alcuni soldati in Sudan che sono stati temporaneamente fatti prigionieri dalle FSR, potrebbe a sua volta fornire armi a Burhan.
La guerra civile in Sudan rischia dunque di innescare una spirale di destabilizzazione regionale in grado di estendersi dal Mar Rosso all’Africa centrale ed al Sahel. Ciò farebbe saltare i fragili equilibri di un continente che è già teatro di una battaglia fra le grandi potenze (USA, Cina, Russia, Europa) per accrescere la propria influenza ed aggiudicarsi le risorse africane, in un contesto di esasperata competizione internazionale.