Dopo il 75° vertice NATO: verso l’irreversibile distruzione dell’Ucraina
L’Alleanza Atlantica immola definitivamente l’Ucraina, lavora alacremente al completamento della nuova cortina di ferro, e mette nel mirino la Cina, mentre si allargano le crepe nelle sue fondamenta.
L’elemento forse più rilevante del vertice che doveva celebrare in grande stile i 75 anni dell’Alleanza Atlantica compare nel 16° paragrafo della Dichiarazione conclusiva, dove si definisce “irreversibile” il percorso dell’Ucraina verso la piena integrazione euro-atlantica, inclusa l’adesione alla NATO.
Il ricorso all’aggettivo “irreversibile” è deliberatamente finalizzato a garantire due esiti importanti per i vertici dell’Alleanza: in primo luogo, il prolungamento della guerra, poiché lo status neutrale dell’Ucraina, elemento chiave delle richieste russe, viene automaticamente escluso dagli scenari possibili.
Circa un mese fa, il presidente russo Vladimir Putin aveva citato proprio la neutralità dell’Ucraina fra le condizioni che, secondo le sue parole, avrebbero portato “immediatamente” ad un cessate il fuoco e all’inizio dei negoziati.
Secondariamente, la suddetta formulazione implica la seria possibilità che l’adesione definitiva di Kiev alla NATO resti un miraggio che non si tradurrà mai in realtà, visto che la “irreversibilità” del percorso garantisce che non si torni indietro, ma non necessariamente che si vada avanti.
Esattamente come nella dichiarazione del vertice di Vilnius dello scorso anno, i membri del patto atlantico dichiarano genericamente che estenderanno all'Ucraina l'invito ad aderire alla NATO “quando gli alleati saranno d'accordo e le condizioni saranno soddisfatte”.
In questo modo, Kiev avrà sempre degli obblighi nei confronti della NATO, mentre quest’ultima non ne avrà mai nei confronti di Kiev (ad eccezione di quelli che vorrà imporsi volontariamente). Il surrogato che è stato offerto al paese è un “ponte” verso l’adesione effettiva all’Alleanza.
Tale ponte consiste essenzialmente in promesse di sostegno finanziario (43 miliardi di dollari per il 2025), in accordi di sicurezza bilaterali fra l’Ucraina da un lato e numerosi paesi europei, e gli stessi Stati Uniti, dall’altro, in un nuovo comando NATO basato in Germania che coordinerà l’assistenza di sicurezza e l’addestramento delle forze ucraine, ed infine nell’invio di altri sistemi di difesa aerea, di cui Kiev ha estremo bisogno.
Autoconservazione e ostracizzazione del dissenso
In sostanza, come ha scritto l’analista americano James Carden ,
“la principale prerogativa istituzionale della NATO a questo punto non è la sconfitta della Russia né la difesa collettiva dell’Occidente – qualunque cosa ciò significhi. Ma è la propria stessa sopravvivenza e, come tale, a Washington l’alleanza ha continuato ad inventare sempre nuovi motivi per giustificare la propria rilevanza e, in ultima analisi, al propria stessa esistenza”.
Assicurare la sopravvivenza della NATO, anche a costo di una guerra permanente in Europa, è la posizione generale emersa dal vertice svoltosi nella capitale americana, sebbene tale “consenso” non sia affatto condiviso dalla maggioranza degli europei i quali preferirebbero invece una soluzione negoziata del conflitto.
Ma com’è noto, sebbene la NATO sia ufficialmente un’alleanza di “democrazie”, la volontà popolare viene tenuta in scarsa considerazione dai suoi leader. Ed anzi, se qualcuno prova a dissentire, viene immediatamente ostracizzato dalla comunità euro-atlantica.
E’ quanto è successo al premier ungherese Viktor Orbán, colpevole di aver preso l’iniziativa di recarsi a Kiev, Mosca, Pechino, e infine in Florida dal possibile futuro presidente americano Donald Trump, per discutere le opzioni di un’eventuale pace negoziata tra Russia e Ucraina.
La rivista Foreign Policy ha reagito definendo Orbán una “pedina di Putin” e affermando che “tra tutti gli utili idioti della Russia, pochi hanno cercato di rendersi più utili del primo ministro ungherese” (questo ormai il livello dell’analisi, perfino su una rivista prestigiosa come quella statunitense).
In Europa, nel frattempo, sebbene l’Ungheria non avesse adottato la propria iniziativa di pace in qualità di presidente di turno dell’Unione Europea, alcuni dirigenti UE hanno perfino esplorato le possibilità giuridiche di privare il paese della presidenza.
Sebbene questa opzione resti remota, è stato invece deciso che i commissari UE non si recheranno mai in Ungheria, e vi è la possibilità concreta che gli incontri UE che si terranno nel paese saranno boicottati dagli altri membri dell’Unione (è già avvenuto per quello sulla competitività tenutosi a Budapest tra l’8 e il 9 luglio).
Il caso Orban conferma che gli ordini di scuderia impartiti dalla NATO non possono essere dibattuti né tantomeno messi in discussione.
Verso una rischiosa partizione di fatto
Il dogma della “irreversibilità” dell’adesione di Kiev all’Alleanza, tuttavia, assicurando il prolungamento della guerra, decreta di fatto l’irreversibile distruzione dell’Ucraina, un paese già ora prossimo alla sconfitta militare, afflitto da una grave carenza di uomini e da una drammatica crisi demografica, e dipendente dal continuo afflusso di aiuti finanziari occidentali per scongiurare un’altrimenti inevitabile bancarotta.
Malgrado questa situazione disastrosa, fra gli strateghi statunitensi vi è chi si ostina tuttora nel ritenere che gli sforzi occidentali di rafforzare l’Ucraina possano prolungare una situazione di stallo sul terreno, impedendo alla Russia di impadronirsi di ampie porzioni del paese.
E’ tuttavia probabile che prima o poi si giungerà ad una partizione di fatto dell’Ucraina e, in assenza di una soluzione negoziata, sarà quella una delle fasi più pericolose del conflitto, in cui maggiore sarà il rischio di arrivare ad uno scontro diretto Russia-NATO, o quantomeno fra Mosca e alcuni paesi occidentali.
Sono diversi gli osservatori in Occidente che ritengono che a quel punto sarà inevitabile schierare truppe di paesi NATO (anche se non necessariamente sotto l’ombrello dell’Alleanza) in territorio ucraino, e alcuni affermano che questi paesi dovrebbero prepararsi fin d’ora inviando istruttori per addestrare gli ucraini.
Dalle pagine di Foreign Affairs, vi è invece chi ha proposto che l’Ucraina finisca con un territorio diviso come la Germania Ovest.
A tal fine, Kiev dovrebbe definire un confine militarmente difendibile, accettare un’autolimitazione sulla presenza di truppe e armi occidentali sul proprio rimanente territorio (in modo da non provocare un’aggressione russa), ed infine assicurare di non impiegare la propria forza militare al di là del confine stabilito se non per ragioni di autodifesa, come fece la Germania Ovest.
Ciò dovrebbe garantire agli alleati NATO di non ritrovarsi in guerra con la Russia non appena l’Ucraina diventerà un membro dell’Alleanza. Kiev accetterebbe così una partizione a tempo indeterminato, e un territorio parzialmente demilitarizzato, in cambio di un processo reale e definitivo di adesione alla NATO.
Un’Europa divisa, dall’Artico al Mar Nero
Comunque vadano le cose, questi scenari prevedono che l’Ucraina farà parte di una nuova cortina di ferro che si estenderà dall’Artico al Mar Nero, ed al cui consolidamento i paesi NATO stanno lavorando alacremente.
Questa nuova linea di demarcazione è finalizzata ad impedire un’integrazione economica fra la Russia e l’Europa per i decenni a venire, in accordo con quello che è stato un chiaro piano americano fin dai primi giorni della crisi ucraina.
Il 1° luglio la Finlandia, da poco entrata ufficialmente nella NATO, ha firmato un accordo con gli Stati Uniti che garantisce alle truppe ed alle armi USA l’accesso a 15 basi militari finlandesi.
Washington ha concluso accordi simili con altri 11 paesi NATO, fra cui Svezia, Norvegia e Danimarca.
Un altro attore chiave del rafforzamento del fianco est dell’Alleanza è la Polonia, che ha autorizzato lo schieramento di truppe NATO in non meno di 8 basi sul proprio territorio. Nel paese vi sono anche 10.000 soldati americani.
Gli Stati Uniti hanno stabilito la loro prima guarnigione permanente a Poznan, nella Polonia centro-occidentale, mentre gestiscono un controverso sito per la difesa missilistica a Redzikowo, a 30 chilometri dalle rive del Baltico, considerato una chiara minaccia da Mosca.
La nuova cortina di ferro include poi le tre repubbliche baltiche di Estonia, Lituania e Lettonia.
Tallinn sta rinnovando la base aerea di Amari, a sudest della capitale, per ospitare gli F-35 che giungeranno dall’Olanda. Mentre nel sudest del paese, il campo di addestramento di Nursipalu, prospiciente la base di Taara che ospita alcune centinaia di soldati americani, verrà esteso a 9.000 ettari.
La Lituania sta ampliando la base di Rudninkai (un’altra ex base sovietica) per accogliere una brigata di 5.000 soldati tedeschi entro il 2027.
La Lettonia è stata il primo paese in Europa a reintrodurre il servizio militare obbligatorio, per i giovani di età compresa tra i 18 e i 27 anni, dallo scoppio del conflitto ucraino.
Estonia, Lituania e Lettonia hanno poi annunciato la costruzione della “linea di difesa baltica”, un sistema di bunker ed altre fortificazioni lungo il confine russo, entro il 2025.
Militarizzazione del continente
La Francia è divenuta uno dei paesi più attivi lungo il confine con la Russia. Presente in Estonia dal 2017 con circa 300 soldati (dove il ruolo di paese leader spetta però alla Gran Bretagna), ha esteso il proprio coinvolgimento alla Romania dove comanda un battaglione NATO composto da 1.500 soldati.
In Romania gli Stati Uniti stanno poi sviluppando dal 2022 la grande base aerea di Mihail Kogalniceanu (una sorta di equivalente rumeno della base di Ramstein in Germania), che nei prossimi mesi ospiterà uno squadrone di F-16 recentemente acquistati da Bucarest, e droni da combattimento.
La militarizzazione del fianco est rimane tuttavia un “work in progress” tuttora soggetto ad importanti limitazioni. Sebbene si sia parlato di un’area Schengen per il materiale bellico e le forze armate, essa deve tuttora materializzarsi.
A gennaio, la Commissione europea ha sbloccato 807 milioni di euro per finanziare circa 40 progetti di “mobilità militare”, incluso il rinnovamento delle linee ferroviarie.
In coincidenza con la decisione europea, Germania, Olanda e Polonia hanno firmato un accordo per la creazione di un “corridoio militare” che faciliti il movimento di truppe e materiale bellico dai porti del Mare del Nord ai confini orientali dell’Europa.
Ad esso si sono aggiunti altri due corridoi, annunciati al vertice NATO di Washington: il primo fra Italia, Albania, Macedonia del Nord e Bulgaria, e il secondo fra Grecia, Bulgaria e Romania.
Tra gli aspetti più preoccupanti di questa nuova militarizzazione del continente vi è l’annuncio americano che missili Tomahawk, potenzialmente in grado di ospitare testate nucleari, saranno dispiegati in Germania entro il 2026.
Nel frattempo, Germania, Francia, Italia e Polonia hanno annunciato la loro intenzione di sviluppare congiuntamente questo tipo di missili nel prossimo futuro.
In passato, lo schieramento di tali missili avrebbe violato il Trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces), dal quale tuttavia gli USA si sono ritirati unilateralmente nel 2019.
Il rischio è che queste mosse riportino l’Europa ai tempi più bui della guerra fredda, essendo prevedibile che i russi risponderanno con il dispiegamento di missili analoghi.
Affari e retorica bellicista
Il grande business della nuova cortina di ferro sarà il rilancio dell’industria bellica occidentale, solennemente promesso dal vertice NATO a Washington, perché “la sicurezza di oltre un miliardo di cittadini dipende dai nostri investimenti nella deterrenza e nella difesa”.
Prima a trarne profitto è Rheinmetall, gigante dell’industria bellica tedesca che ha importanti legami con la finanza ed il complesso militare-industriale americani (colosso con il quale l’italiana Leonardo ha recentemente stipulato un mega-accordo per la costruzione del nuovo carro da battaglia Panther KF51).
Alla nuova militarizzazione dell’Europa si accompagna una retorica bellicista che, almeno nelle intenzioni, sarebbe finalizzata a mobilitare le “pigre e sonnolente” società europee, che finora hanno reagito con svogliatezza e incredulità all’inedita “chiamata alle armi”.
Tra gli obiettivi della nuova etica militarista vi è quella di riaprire la strada, o quantomeno sollevare il dibattito, sulla leva obbligatoria, visto che fra i maggiori punti deboli degli eserciti occidentali vi è la cronica carenza di uomini.
Secondo una recente inchiesta del Financial Times, sebbene i membri europei della NATO siano in grado di schierare sulla carta un totale di 1,9 milioni di soldati, in realtà tali paesi faticherebbero a mettere insieme più di 300.000 uomini in un eventuale conflitto, e solo dopo mesi di preparazione.
La Cina nel mirino
Malgrado la sua debolezza sullo scacchiere europeo, a Washington la NATO ha pensato bene di porre per la prima volta la Cina apertamente nel mirino, accusando senza mezzi termini Pechino di aiutare lo sforzo bellico russo in Ucraina attraverso l’invio di componenti utili all’industria bellica russa e di tecnologia “dual use”.
Una simile mossa appare tuttavia velleitaria e controproducente. Da un lato, infatti, le sanzioni occidentali difficilmente riusciranno a ridurre sensibilmente gli scambi tecnologici fra Pechino e Mosca.
Dall’altro, l’aperta ostilità della NATO rischia di creare un legame crescente tra i focolai di crisi del continente europeo e quelli del Pacifico, in particolare consolidando un fronte comune tra Russia, Cina e Corea del Nord.
Un inasprimento dei rapporti, e della guerra commerciale, con la Cina potrebbe risucchiare l’Europa in uno svantaggioso “decoupling” nei confronti di Pechino mentre, da un punto di vista prettamente militare, le strutture NATO nel Pacifico sono ancora più deboli che in Europa.
Un gigante dai piedi d’argilla
A dispetto della retorica bellicosa adottata dai paesi NATO a Washington, l’Alleanza sembra poggiare su basi sempre più fragili.
La leadership americana è incrinata dai crescenti interrogativi sullo stato di salute di Biden, e sull’integrità delle sue facoltà mentali, i quali potrebbero portare a un cambio in corsa del candidato presidenziale democratico alle elezioni di novembre.
Su tali consultazioni aleggia sempre più ingombrante la figura di Trump, la cui rielezione potrebbe essere ulteriormente favorita dal fallito attentato da lui recentemente subito.
Sebbene gli sforzi di “Trump-proofing”, cioè di costruire una NATO “a prova di Trump”, si siano moltiplicati al vertice di Washington, un più accentuato disimpegno americano dal conflitto ucraino e dall’Europa (qualora il candidato repubblicano venisse eletto) potrebbe costringere i paesi europei a gestire con maggiore autonomia tale conflitto e la gigantesca cortina di ferro in costruzione.
Il tutto in una fase in cui le leadership del vecchio continente vivono una grave incertezza politica e crescenti difficoltà economiche. Basti pensare alla paralisi in cui si dibatte la Francia dopo che l’esito delle elezioni legislative ha lasciato il paese in una situazione ingovernabile.
Parigi potrebbe avvitarsi in una spirale di crisi tale da influire sul resto del continente, in un momento in cui la Germania del cancelliere Scholz ha a sua volta seri grattacapi legati al cattivo andamento dell’economia e all’ascesa dell’estrema destra.
Alla luce di tali considerazioni, gli ambiziosi piani messi a punto dalla NATO a Washington potrebbero essere seriamente compromessi dalle crisi interne che stanno attraversando i principali paesi membri dell’Alleanza.
Foreign Policy "rivista prestigiosa"? Una volta forse... qualche decennio fa. Ormai è buona come carta straccia!
"La sicurezza di oltre un miliardo di cittadini dipende dai nostri investimenti nella deterrenza e nella difesa"
Più che altro, dovrebbero dire "non ce ne frega niente della sicurezza di oltre un miliardo dei nostri cittadini. C'interessano solo i nostri investimenti nella deterrenza e nella difesa".