Cina, Russia e Arabia Saudita: convergenza verso la dedollarizzazione
Tensioni geopolitiche e sanzioni economiche stanno spingendo i tre paesi ad accelerare il processo di emancipazione dal dollaro negli scambi internazionali.
Lo scorso 23 marzo, il presidente russo Vladimir Putin annunciò che il gas naturale di Mosca sarebbe stato venduto ai “paesi non amichevoli” solo in rubli, piuttosto che in dollari o in euro come solitamente avviene. Ben 48 nazioni sono incluse nella lista russa dei paesi “non amici”, inclusi Stati Uniti, Gran Bretagna, Ucraina, Svizzera, Corea del Sud, Singapore, Norvegia, Canada e Giappone.
Più di otto mesi dopo, il 9 dicembre, il presidente cinese Xi Jinping si è recato in Arabia Saudita dove, oltre a stringere una partnership strategica con Riyadh, ha invitato le monarchie del Golfo presenti al primo vertice Cina-GCC a “far pieno uso della Borsa del petrolio e del gas di Shanghai come piattaforma per vendere petrolio e gas impiegando la valuta cinese”.
Si tratta di due fra gli eventi più significativi di quest’anno.
Tali eventi, spesso traumatici – dallo scoppio della guerra in Ucraina alle sanzioni occidentali senza precedenti imposte alla Russia, dall’inasprirsi della guerra commerciale e tecnologica fra USA e Cina all’incrinarsi dell’alleanza storica fra Washington e Riyadh – hanno impresso una drammatica accelerazione allo spostamento degli equilibri mondiali, in atto da più di un decennio.
Petrolio in cambio di tecnologia
Fra i due avvenimenti sopra citati, quello più recente – la visita di Xi a Riyadh – è stato meno approfondito dai media di grande diffusione, ma non per questo è meno rilevante.
Al centro dell’agenda del vertice Cina-GCC (il Gulf Cooperation Council, che riunisce Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Qatar e Oman), tenutosi nella capitale saudita, vi era il rafforzamento degli scambi commerciali fra Pechino e le monarchie del Golfo, sulla base della promessa cinese di importare stabilmente grandi quantità di petrolio e gas naturale dal GCC.
La Cina ha sorpassato gli Stati Uniti come primo importatore di greggio nel 2017. Metà di questo petrolio proviene dalla penisola araba, e più di un quarto delle esportazioni petrolifere saudite sono dirette in Cina.
La nuova partnership strategica fra Pechino e Riyadh include una cooperazione nei settori dell’alta tecnologia, dalla rete 5G all’economia digitale, alla tecnologia spaziale. I due paesi hanno firmato accordi commerciali per un valore complessivo di 30 miliardi di dollari, anche in aree che rientrano nella Belt and Road Initiative (BRI), la cosiddetta “nuova via della seta cinese”.
L’invito cinese ai paesi del GCC, a vendere gas e petrolio in renminbi (la valuta cinese, spesso indicata anche come yuan) alla borsa di Shanghai, giunge dopo che nel marzo di quest’anno l’Arabia Saudita aveva accennato alla possibilità di accettare renminbi, piuttosto che dollari, come mezzo di pagamento per il greggio venduto a Pechino.
Né con Riyadh né con le altre monarchie del Golfo la Cina ha raggiunto un accordo formale in proposito, ma la strada appare tracciata. Il processo tuttavia sarà lungo poiché sia Pechino che i paesi GCC rimangono esposti all’economia USA e detengono centinaia di miliardi in titoli del Tesoro americano.
Ascesa e declino del petrodollaro
La sola proposta cinese ha tuttavia suscitato nervosismo a Washington, poiché prezzare in renminbi le esportazioni di greggio della penisola araba verso la Cina metterebbe a rischio il principio su cui si fonda il petrodollaro, la cui origine risale agli anni ’70 del secolo scorso.
Il dollaro gode dello status di valuta di riserva internazionale a seguito di scelte compiute alla conferenza di Bretton Woods del 1944, mentre ancora infuriava il secondo conflitto mondiale. In quell’occasione si convenne di ancorare tutte le valute al biglietto verde, il quale era convertibile in oro a un prezzo fisso di 35 dollari l’oncia.
Questo patto entrò in crisi a seguito delle spese eccessive americane sia sul fronte interno che per finanziare la dispendiosa guerra in Vietnam. Sospettando che gli USA si trovassero sull’orlo di una crisi, il presidente francese Charles de Gaulle chiese che una porzione consistente dei dollari detenuti dal suo paese fosse convertita in oro.
Altre banche centrali straniere seguirono l’esempio francese, ponendo Washington di fronte alla necessità di ottemperare ai propri obblighi di convertibilità, in base agli accordi di Bretton Woods. Ciò determinò un impressionante declino delle riserve auree statunitensi.
Nel 1971, il presidente americano Richard Nixon pose fine alla convertibilità del dollaro per arrestare questa emorragia, violando così gli accordi di Bretton Woods. Di conseguenza, il valore della valuta statunitense crollò.
Per sostenerla, Nixon e il segretario di Stato Henry Kissinger pensarono di stipulare un accordo con l’Arabia Saudita e gli altri paesi dell’OPEC affinché vendessero il loro petrolio esclusivamente in dollari. Questi introiti sarebbero stati poi reinvestiti a Wall Street e nella City di Londra, o acquistando armi americane. In cambio gli Stati Uniti avrebbero offerto alle monarchie del Golfo la loro protezione militare.
Questo accordo fu suggellato nel 1974 con la visita a Riyadh del segretario al Tesoro William Simon. Nacque così il petrodollaro, su cui si sono fondati gli scambi internazionali fino ad oggi.
Come ha affermato Gal Luft (condirettore dell’Institute for Analysis of Global Security), “il mercato petrolifero, e per estensione l’intero mercato globale delle materie prime, sono la ‘polizza assicurativa’ dello status di valuta di riserva di cui gode il dollaro. Se quel mattone viene rimosso dal muro, il muro inizierà a crollare”.
Isolate sfide all’egemonia del petrodollaro vennero proprio da paesi petroliferi del Medio Oriente. Nel 2000, il presidente iracheno Saddam Hussein, leader di uno dei paesi produttori con le maggiori riserve al mondo, decise di vendere il greggio iracheno in euro, invece che nella valuta statunitense.
Il leader libico Muammar Gheddafi, similmente, aveva accarezzato l’idea di rifiutare dollari ed euro, e invitare le nazioni arabe e africane ad usare una nuova valuta, il dinar aureo. Egli sognava di unire il continente africano anche tramite l’impiego di una valuta unitaria.
Nel 2008, l’Iran, un altro grande produttore di gas e petrolio, avviò un progetto volto a creare una borsa petrolifera in cui il greggio sarebbe stato scambiato con valute diverse dal dollaro.
Le sanzioni americane imposte all’Iran, alla Russia e ad altri paesi, hanno contribuito a danneggiare il biglietto verde. Esse hanno spinto i paesi che necessitavano del petrolio iraniano, o delle materie prime di altri stati sotto sanzioni, a pagare in altre valute, o addirittura a ricorrere al baratto, pur di aggirare le misure punitive di Washington.
Ma, soprattutto, le sanzioni hanno contribuito a far prendere coscienza alle potenze emergenti della necessità di emanciparsi dal sistema dollaro-centrico.
Prima ancora che ciò accadesse, tuttavia, la crisi del 2008 aveva determinato un crollo della fiducia nel sistema finanziario globale a guida statunitense. Molti paesi hanno pertanto cercato di predisporre una propria “rete di sicurezza” per garantirsi dalle turbolenze e dagli abusi di tale sistema.
Un sistema alternativo
La Cina ha assunto un ruolo guida a questo riguardo, cominciando a costruire una serie di istituzioni internazionali “alternative” che soddisfacessero le esigenze di Pechino, e di altri paesi emergenti, piuttosto che quelle di Washington.
Precursore di tali istituzioni fu la Shanghai Cooperation Organization (SCO) che, dal punto di vista di Pechino, ebbe il merito di includere la Russia in un forum di sicurezza regionale guidato dalla Cina, di accrescere l’influenza cinese in Asia centrale, e di costituire un baluardo contro un’ulteriore penetrazione americana nelle Repubbliche centrasiatiche.
Ma il vero punto di svolta si ebbe nel 2013, quando il presidente cinese Xi Jinping annunciò il lancio della cosiddetta “nuova via della seta”, oggi nota come Belt and Road Initiative (BRI), che contribuì alla nascita di istituzioni finanziarie ad essa legate: la Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) e la New Development Bank (NDB), anche nota come BRICS Bank perché fondata congiuntamente da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica.
Quando gli USA imposero sanzioni alla Russia nel 2014 e inasprirono la guerra commerciale contro la Cina nel 2018, le due potenze cominciarono ad utilizzare le proprie valute per una porzione crescente dei loro scambi commerciali. Se nel 2015 il 90% degli scambi bilaterali fra i due paesi avveniva in dollari, nel 2020 questa quota era scesa sotto il 50%.
Sia Mosca che Pechino hanno inoltre iniziato a creare sistemi alternativi allo SWIFT, che regola le transazioni finanziare ed interbancarie globali.
Il sistema russo, denominato System for Transfer of Financial Messages (SPFS), è stato ideato soprattutto per uso interno, ma ha attratto anche le banche centrali di paesi centrasiatici, dell’India e dell’Iran.
Quello cinese, che va sotto il nome di Cross-Border Interbank Payment System (CIPS), si sta diffondendo soprattutto nelle nazioni coinvolte nei progetti della BRI.
Numerosi paesi nel mondo stanno inoltre sperimentando diverse tipologie di valuta digitale (central bank digital currencies, CBDC) e nuovi sistemi di pagamento ancorati alla cosiddetta fintech.
Rinascita del rublo
Dopo l’imposizione delle prime sanzioni occidentali alla Russia nel 2014, Putin aveva cominciato a invocare la dedollarizzazione delle transazioni petrolifere. Mosca ha progressivamente ridotto le proprie riserve in dollari, accumulando oro ed altre valute.
La decisione dei paesi occidentali di congelare le riserve russe depositate presso le proprie banche ha però segnato uno spartiacque. “Essa porta il conflitto nel cuore del sistema monetario internazionale”, ha scritto l’accademico Adam Tooze.
“Se le riserve della banca centrale di un membro del G20 affidate ai conti di un'altra banca centrale del G20 non sono sacrosante, nulla nel mondo finanziario lo è. Siamo alla guerra finanziaria”.
La risposta russa è stata sorprendente: la scelta di vendere il gas in rubli ai paesi “non amichevoli” ha sostenuto la valuta russa, che si è addirittura rafforzata.
Da allora, Mosca ha sfruttato il proprio ruolo di fornitore globale di materie prime (gas, petrolio, cereali, legname, fertilizzanti, nichel, titanio, palladio, carbone, terre rare) per sostenere la propria valuta e la propria economia.
Secondo l’economista Michael Hudson, le sanzioni hanno poi obbligato la Russia a fare ciò che finora non aveva fatto: non affidarsi alle importazioni, e sviluppare le proprie industrie e infrastrutture.
Mosca non ha intenzione di tornare a essere parte del sistema monetario e finanziario a guida USA, essendosi convinta che l’unico futuro possibile stia nella propria partnership con la Cina.
Così come ha chiesto ai paesi europei di pagare in rubli o in oro, il Cremlino ha spinto le compagnie cinesi a pagare in rubli o renminbi. Quando il rublo ha iniziato a rafforzarsi a livelli precedentemente impensati, Mosca ha dovuto procurarsi valute straniere per stabilizzare la propria, ma non è tornata ad acquistare né dollari né euro.
Scenari di frammentazione
Molti paesi del Sud del mondo sono ugualmente preoccupati dallo strapotere del sistema finanziario occidentale, e desiderosi di sviluppare sistemi di investimento e scambi commerciali non incentrati sul dollaro.
Un rapporto dell’FMI, uscito nel marzo di quest’anno, mostra che “la quota di dollari detenuta dalle banche centrali è scesa di 12 punti percentuali dall’inizio del secolo, dal 71% nel 1999 al 59% nel 2021”.
Esse stanno diversificando i propri portafogli non solo con il renminbi cinese, ma con altre valute di riserva “non tradizionali”, cioè diverse dalle cosiddette “big four” (dollaro USA, euro, yen giapponese e sterlina britannica). Fra queste valute alternative figurano il dollaro australiano, il dollaro canadese, il won sudcoreano, la corona svedese, e il dollaro di Singapore.
Vi sono poi paesi come El Salvador e la Nigeria, che hanno fatto ricorso alle criptovalute.
Se dunque solitamente si sente dire che l’economia mondiale è destinata a dividersi in due blocchi – uno occidentale composto principalmente da USA, Europa e Giappone, ed uno orientale comprendente in primo luogo Russia, Cina e India – è invece possibile che si giunga ad un’altra configurazione, ancora più frammentata.
Il punto è che, sebbene il ruolo egemone del dollaro si stia erodendo, non esiste ancora una vera alternativa sui mercati globali, e la valuta americana rimane dominante nei pagamenti internazionali.
L’egemonia del dollaro è un meccanismo che tende ad autoconservarsi: il mercato dei capitali USA rimane al momento il più esteso e liquido del mondo, mentre quello cinese è ancora molto più ridotto e soggetto a limitazioni. Le possibilità di investimento sono relativamente contenute.
Sulla base di quanto detto finora, secondo il rapporto dell’FMI sopra citato, l’egemonia del dollaro potrebbe essere sostituita non da una valuta rivale, ma da un ampio gruppo di valute alternative.
Questo scenario potrebbe comportare costi ancora maggiori per l’economia capitalistica rispetto a quello di una divisione netta fra Est e Ovest. Esso implicherebbe una situazione caotica in cui l’economia USA, in particolare, perderebbe il controllo dei mercati valutari globali.
Ciò significherebbe anche che le speranze keynesiane di un nuovo ordine mondiale coordinato attraverso una finanza, un sistema commerciale e una valuta globali, sarebbero da escludere.
Naturalmente, però, in una scena internazionale dominata da un numero elevatissimo di incognite, molte possibilità restano sul tavolo.