Iran, le proteste di piazza, le ingerenze americane, il contesto internazionale
L’immagine stereotipata fornita dai media occidentali nasconde la complessità della partita iraniana.
Da metà settembre, la Repubblica Islamica iraniana è alle prese con ondate di protesta di intensità altalenante, che continuano a riesplodere dopo giorni di calma apparente, sullo sfondo di un malcontento diffuso e di una difficile situazione economica nel paese, enormemente inasprita dalle sanzioni internazionali che ne soffocano lo sviluppo.
Ciò avviene mentre Teheran è ancora impegnata in un estenuante negoziato, sempre sull’orlo del fallimento, con gli Stati Uniti per ripristinare l’accordo nucleare (il cosiddetto Joint Comprehensive Plan of Action, noto con l’acronimo JCPOA) affossato dall’ex presidente americano Trump nel 2018 allorché decise unilateralmente di uscire dall’intesa.
Sotto il peso di sanzioni via via più oppressive fin dalla sua fondazione nel 1979, la Repubblica Islamica iraniana ha sempre oscillato fra Est e Ovest (“Né Oriente né Occidente, Repubblica Islamica” fu uno degli slogan più significativi della rivoluzione). Ma, soprattutto nella sua componente riformista, l’establishment iraniano ha sempre ricercato un dialogo e un’integrazione economica con l’Occidente, ed in particolare con l’Europa.
Questo anelito verso l’emisfero occidentale è tuttavia andato affievolendosi negli ultimi decenni a causa dell’inasprimento dei già tesi rapporti con gli Stati Uniti, dovuto alla questione nucleare, all’invasione americana dell’Iraq e al conflitto in Siria.
La decisione unilaterale di Trump di uscire dal JCPOA, che Teheran stava pienamente rispettando, sembra aver fatto tramontare quasi del tutto le speranze iraniane di un’integrazione con l’Occidente, spingendo gli ambienti politici della Repubblica Islamica a guardare sempre più verso l’emergente continente asiatico.
Tale tendenza si riflette nella vittoria del fronte conservatore (più diffidente nei confronti dell’Occidente) su quello moderato e riformista alle elezioni parlamentari del 2020 e alle presidenziali dell’anno successivo.
Lo scoppio delle proteste a settembre è coinciso, per ironia della sorte, con il viaggio del presidente iraniano Ebrahim Raisi a Samarcanda, in Uzbekistan, per la firma del memorandum che avvia il processo di adesione ufficiale di Teheran all’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO, secondo l’acronimo inglese).
Il rafforzamento e l’allargamento di questa organizzazione internazionale, che vede senz’altro nella Cina il proprio leader, rappresenta simbolicamente l’ascesa di un raggruppamento alternativo all’Occidente che include paesi come Russia, India e altre potenze emergenti, nel contesto di un mondo sempre più multipolare.
Donne, velo e Repubblica Islamica
La peculiarità delle proteste recentemente scoppiate in Iran è di essere guidate in buona parte da una rivolta delle donne contro l’inasprimento del codice di abbigliamento imposto dal governo Raisi.
Va ricordato che l’obbligo di indossare l’hijab (il velo islamico che copre i capelli, ma non il volto) negli ultimi anni in Iran era quasi meramente formale, e largamente più liberale rispetto alle severe norme in vigore nelle vicine monarchie arabe del Golfo.
La decisione del governo conservatore guidato da Raisi di reimporre una stretta osservanza del velo ha funzionato da detonatore di altre tensioni sociali ormai radicate nella società iraniana.
L’errore del governo è stato di non riconoscere la complessità e la natura eterogenea della società iraniana, un’ampia porzione della quale conduce uno stile di vita che è al di fuori della rigida condotta abbracciata dal campo conservatore (che pure ha una consistente base popolare).
Sebbene la protesta contro il governo sia eterogenea e sfaccettata quanto lo è la società iraniana, un elemento da sottolineare è che per molte donne il rifiuto dell’obbligo di indossare l’hijab (e non dell’hijab in quanto tale) non rappresenta affatto una ribellione contro l’Islam, ma contro un provvedimento che ha reso il velo un simbolo dello Stato.
Vale anche la pena ricordare che le proteste femminili hanno attraversato la storia della Repubblica Islamica fin da quelle del marzo del 1979, che ebbero luogo in risposta all’appello dell’Ayatollah Khomeini ad indossare il velo nei ministeri statali.
Pur riducendo alcuni diritti di cui le donne avevano goduto sotto la precedente monarchia Pahlavi, la neonata Repubblica Islamica introdusse un sistema scolastico che contribuì enormemente a garantire un’istruzione alle donne appartenenti alle aree rurali e alle classi sociali più basse.
In conseguenza di ciò, le donne costituiscono oggi il 60% degli studenti universitari in Iran. La generazione che oggi è scesa in piazza è figlia di quei gruppi sociali che per la prima volta ricevettero un’istruzione superiore nei primi anni di vita della Repubblica Islamica.
Le molteplici ragioni della rabbia sociale
La scintilla che ha provocato la presente ondata di protesta è stata la morte di una ragazza curda di 22 anni, Mahsa Amini, dopo che era stata arrestata a Teheran dalla polizia religiosa perché non indossava appropriatamente il velo. Le circostanze della morte sono controverse. La famiglia e i manifestanti che sono scesi in piazza sostengono che Mahsa sia deceduta in seguito alle percosse della polizia.
Il governo afferma che la ragazza sia morta per ipossia cerebrale dovuta a un arresto cardiaco originato da problemi di salute pregressi. Le autorità hanno rilasciato un video registrato dalle telecamere a circuito chiuso nella stazione di polizia dove Mahsa avrebbe dovuto seguire un corso di “rieducazione”, in cui si vede la ragazza accasciarsi improvvisamente al suolo dopo aver discusso animatamente con una responsabile della polizia.
Comunque siano andate le cose, la notizia della morte della ragazza in stato di detenzione ha suscitato rabbia e indignazione spingendo molte persone a scendere in piazza, dapprima nella regione curda di cui Mahsa era originaria, e poi nella capitale stessa e in altre città.
Negli ultimi anni, gli iraniani hanno manifestato con crescente frequenza per molteplici ragioni, che vanno dall’aumento del prezzo del gas alla rimozione dei sussidi sul pane, dalla scarsa qualità dell’acqua ad altre conseguenze dell’inquinamento ambientale. Vi sono poi ragioni legate al carattere repressivo dello Stato e alla scarsa rappresentatività del sistema politico, ma anche alla corruzione e al deterioramento dei servizi sociali.
Come altrove nel mondo, sono inoltre aumentate le disuguaglianze nel paese dove, a seguito dell’applicazione di ricette neoliberiste (soprattutto, ma non esclusivamente, da parte dei governi riformisti) una ristretta fascia della popolazione si è arricchita a spese della maggioranza.
Vi sono poi regioni depresse, spesso abitate da minoranze, come il Kurdistan, il Khuzestan e il Baluchistan, che sono state trascurate e discriminate dallo Stato. Tali regioni ospitano movimenti separatisti che si oppongono al governo centrale anche con metodi violenti, subendo a loro volta la repressione armata da parte di quest’ultimo.
Va però sottolineato che, se le difficoltà economiche in cui versa l’Iran sono certamente dovute a scelte sbagliate da parte dei governi succedutisi al potere, in grandissima parte sono conseguenza delle soffocanti sanzioni internazionali che hanno isolato il paese dal mercato globale.
Le sanzioni secondarie imposte da Washington, in particolare, colpiscono le società di paesi terzi che intrecciano rapporti commerciali e di affari con l’Iran. Questo tipo di sanzioni rende enormemente difficoltose le esportazioni iraniane, e in particolare il rimpatrio degli introiti che da esse derivano. Ciò vale soprattutto per l’esportazione di idrocarburi, e determina una contrazione delle riserve valutarie del paese, che a sua volta si ripercuote sulla capacità iraniana di importare beni essenziali.
Le proteste esplose dopo la morte di Mahsa si sono verificate soprattutto all’interno di gruppi marginalizzati a seguito delle ragioni fin qui esposte: l’etnia curda, la classe media e lavoratrice, e le donne. Ma, soprattutto, sono emerse tra le file di una generazione giovanissima, che non ha conosciuto la rivoluzione ed è separata dai fondatori della Repubblica Islamica da un solco generazionale.
All’interno di tale generazione, si distinguono gli studenti delle università, che in Iran sono state storicamente un rifugio del dissenso politico. Nel complesso dunque, si tratta di una protesta giovane, eterogenea, e priva di leadership.
Le autorità hanno reagito con durezza, ricorrendo a idranti, lacrimogeni e talvolta proiettili veri. Si registrano decine di morti fra i manifestanti, ma anche episodi di violenza da parte di questi ultimi, e vittime tra le forze dell’ordine. La repressione più violenta è avvenuta in regioni periferiche come il Kurdistan e il Baluchistan, dove il governo teme insurrezioni armate da parte dei gruppi separatisti.
L’imperativo americano: rovesciare il regime
Il governo e la Guardia rivoluzionaria iraniana hanno accusato gli Stati Uniti ed altri paesi di sostenere la ribellione e di aver infiltrato le proteste. Per questa ragione sono stati arrestati anche diversi cittadini stranieri.
I tentativi di rovesciare la Repubblica Islamica, di indebolirla e boicottarla, sono stati in effetti numerosi durante tutta la sua storia. Con la rivoluzione del 1979, per Washington l’Iran da alleato fidato nella regione divenne un avversario da isolare e contenere.
Gli USA, i paesi europei e le monarchie del Golfo sostennero il dittatore iracheno Saddam Hussein con finanziamenti ed armi nella sanguinosa guerra Iran-Iraq negli anni ’80 del secolo scorso.
L’invasione americana dell’Afghanistan a seguito degli attentati dell’11 settembre, e la successiva occupazione dell’Iraq, posero le truppe statunitensi ai confini orientali ed occidentali dell’Iran, mentre la massiccia presenza militare americana nel Golfo completava l’accerchiamento del paese.
Nel 2007, l’amministrazione Bush avviò una campagna di operazioni sotto copertura, finanziata con centinaia di milioni di dollari, per destabilizzare la Repubblica Islamica. Essa includeva il sostegno alle minoranze degli arabi e dei baluci rispettivamente nella parte occidentale ed orientale dell’Iran, oltre che a gruppi dissidenti nel paese.
Fin dai primi mesi della sua presidenza, Barack Obama intensificò la guerra segreta iniziata da Bush, fra l’altro pianificando, con l’aiuto di Israele, attacchi ai sistemi informatici che gestivano il programma nucleare iraniano.
Nel 2017, l’amministrazione Trump istituì una sezione speciale della CIA per rafforzare ulteriormente le operazioni di spionaggio e di infiltrazione nel paese.
Questa guerra, strisciante ma ininterrotta, di Washington contro il regime iraniano ha ovviamente accresciuto gli atteggiamenti paranoici di quest’ultimo, facendogli temere che minoranze, movimenti di protesta, gruppi dissidenti, e le stesse strutture di sicurezza del paese, potessero essere infiltrati da agenti stranieri.
Recentemente, uno studio dell’Università di Stanford ha messo in evidenza come il governo americano abbia segretamente condotto una campagna di propaganda sui social media, utilizzando falsi account per influenzare l’opinione pubblica di alcuni paesi fra cui l’Iran.
In particolare, decine di account Twitter attivi fra il 2012 e il 2022 hanno pubblicato materiale volto a screditare la Guardia rivoluzionaria iraniana e il movimento sciita libanese Hezbollah, e a propagandare narrazioni filo-occidentali. In ultima analisi, la campagna si è rivelata un fallimento.
L’Iran ha risposto a questo tipo di minacce cercando di costruire una rete internet nazionale, ed in generale limitando l’accesso ad internet, soprattutto in coincidenza con lo scoppio di proteste nel paese.
Dopo l’inizio delle manifestazioni a settembre, il presidente americano Biden ha immediatamente espresso il proprio appoggio alle rivendicazioni popolari “che chiedono parità di diritti e fondamentale dignità umana”.
Promettendo misure concrete, Biden ha affermato che “gli Stati Uniti imporranno ulteriori costi a coloro che si macchieranno di violenze contro pacifici manifestanti”, concludendo che “continueremo a chiedere che i responsabili iraniani rispondano delle proprie azioni, e ad appoggiare il diritto degli iraniani a protestare liberamente”.
Ironia vuole, però, che a rendere difficile agli iraniani la condivisione di informazioni online siano anche le sanzioni americane, che limitano l’accesso ad alcuni servizi internet e la possibilità di importare software hardware.
Per facilitare l’organizzazione delle proteste, lo scorso 23 settembre il dipartimento del Tesoro ha emesso nuove linee guida per consentire alle compagnie tecnologiche di offrire parte di questi servizi.
Lo stesso giorno, l’uomo d’affari Elon Musk (che ha contratti con il Pentagono) annunciava via Twitter di aver attivato sull’Iran il suo servizio satellitare di connessione internet Starlink, anche se alcuni problemi logistici ne hanno probabilmente limitato l’impatto.
Gli agenti di Washington contro Teheran
Gli Stati Uniti ospitano sul proprio suolo anche l’autoproclamata leader del movimento contro l’hijab, Masih Alinejad, che da almeno otto anni esorta dall’estero le donne iraniane a rivoltarsi contro l’uso del velo. L’avventura politica di Alinejad, che aveva lasciato l’Iran nel 2009, ebbe inizio cinque anni più tardi quando postò sulla sua pagina Facebook un selfie che la ritraeva senza l’hijab a Londra.
Dopo lo scoppio delle proteste di settembre in Iran, Alinejad ha ricevuto molta attenzione da parte dei media americani. Il New Yorker le ha dedicato un articolo (definendola “la dissidente esiliata che alimenta le proteste del velo in Iran”), nel quale lei afferma di essere la guida del movimento, e che “il regime iraniano sarà rovesciato dalle donne: io ci credo”.
I media statunitensi, tuttavia, solitamente non dicono che Alinejad è a libro paga del governo americano, avendo ricevuto complessivamente la ragguardevole somma di 628.000 dollari a partire dal 2015. Gran parte di questi fondi proviene dal Broadcasting Board of Governors, l’agenzia che controlla Radio Free Europe e Voice of America, noti strumenti di diffusione all’estero dell’informazione governativa americana.
Per sette anni, Voice of America ha prodotto una trasmissione in lingua persiana condotta da Alinejad e rivolta alla gioventù iraniana.
La dissidente in esilio ha frequentemente espresso posizioni controverse, appoggiando le sanzioni che soffocano l’economia iraniana e affermando falsamente che molti iraniani non vedono il venerato generale Qassem Soleimani, assassinato dagli USA in Iraq all’inizio del 2020, come un eroe.
Alinejad ha avuto rapporti diretti con l’amministrazione Trump, incontrandosi con il segretario di Stato Mike Pompeo nel 2019, ed è stata descritta come una figura chiave delle odierne proteste dal Journal of Democracy, una pubblicazione del National Endowment for Democracy (NED). Fondato nel 1983, il NED ereditò dalla CIA la missione di sostenere i gruppi di opposizione in paesi retti da governi in prevalenza anti-americani.
Lo stesso New Yorker, riferendosi alla Alinejad, ha incredibilmente affermato che “l'Iran è stato portato a questo punto da una madre di 45 anni non pagata (affermazione falsa, questa, come abbiamo visto) che opera da un rifugio segreto dell’FBI a New York”.
Ma Washington ha anche un altro importante alleato in Iran. Si tratta dell’organizzazione dei Mojahedin-e Khalq (MEK), movimento islamo-marxista che, dopo aver preso parte alla rivoluzione del 1979, divenne nemico acerrimo della neonata Repubblica Islamica.
Il MEK lanciò una campagna di terrore contro il nuovo regime islamico in Iran a partire dal 1981, tra l’altro alleandosi con Saddam Hussein che nel frattempo aveva attaccato militarmente il paese. L’alleanza con il nemico iracheno costò tuttavia all’organizzazione la sua residua base di consenso in Iran, dove è tuttora generalmente odiata e disprezzata.
Per lunghi anni, il gruppo fece del Campo Ashraf (una base in territorio iracheno concessagli da Saddam) il suo quartier generale, trasformandosi di fatto in una setta. Negli Stati Uniti, il MEK era incluso nella lista delle organizzazioni terroristiche del Dipartimento di Stato, perché colpevole di aver ucciso anche cittadini statunitensi.
Dopo l’invasione americana dell’Iraq nel 2003, il MEK rimase tuttavia a Campo Ashraf sotto la protezione delle truppe USA. Washington respinse una richiesta iraniana di consegnare la leadership del gruppo a Teheran. La ragione, secondo fonti USA, è che il Pentagono voleva preservare l’organizzazione per impiegarla ai fini di una possibile insurrezione in Iran.
Un articolo del giornalista investigativo Seymour Hersh nel 2012 rivelò che membri del MEK erano stati segretamente addestrati dalle forze speciali americane nel deserto del Nevada a partire dal 2005. Il gruppo ha collaborato a più riprese anche con Israele, in particolare nella campagna di omicidi mirati contro gli scienziati nucleari iraniani.
Nel 2012, il MEK venne rimosso dalla lista americana delle organizzazioni terroristiche, a coronamento di una multimilionaria campagna di lobbying condotta dal gruppo e dai suoi alleati negli USA. L’anno successivo, ebbe inizio l’operazione di trasferimento dei membri del gruppo dall’Iraq, ormai controllato da governi sciiti spesso in buoni rapporti con Teheran, in Albania.
Nel paese balcanico, gli USA hanno messo a disposizione del MEK “Camp Liberty”, una base fortificata che copre un’area di 340.000 metri quadrati e ospita migliaia di membri del gruppo, dalla quale vengono organizzate le operazioni contro la Repubblica Islamica.
Fra le attività del MEK vi è quella di cercare di infiltrare ogni movimento di protesta che scoppia in Iran, e le manifestazioni attuali non fanno eccezione. Lo conferma anche questo articolo (un esempio delle capacità propagandistiche e di lobbying del gruppo) che descrive Maryam Rajavi, la leader dell’organizzazione subentrata allo scomparso marito Massoud Rajavi, come promotrice dell’emancipazione delle donne, anche all’interno dell’organizzazione.
Sappiamo invece che all’interno del MEK vi è una netta divisione fra uomini e donne, che usufruiscono di servizi separati e non possono avere contatti (anche la stretta di mano fra persone di diverso sesso è proibita).
Il nuovo mondo multipolare e il tramonto dell’egemonia americana
I pluriennali tentativi di Washington di rovesciare il regime degli ayatollah sono motivati dall’enorme importanza strategica dell’Iran.
Sotto la dinastia Pahlavi, il paese era divenuto, assieme all’Arabia Saudita, uno dei pilastri della dottrina americana di contenimento della “minaccia sovietica” in Medio Oriente, teorizzata da Nixon soprattutto in chiave anti-irachena (Baghdad all’epoca aveva l’appoggio di Mosca).
La rivoluzione islamica del 1979 aveva demolito la dottrina dei “due pilastri” di Nixon, trasformando l’Iran da alleato strategico degli USA in pericoloso rivale, e cambiando radicalmente gli equilibri nella regione.
Da allora, l’Iran è l’unico paese del Golfo che, oltre a possedere riserve di petrolio e di gas fra le più rilevanti a livello mondiale, è rimasto al di fuori dell’architettura di sicurezza regionale americana.
L’entità della sfida iraniana è il risultato di vari fattori.
In primo luogo, oltre a possedere immense ricchezze di gas e petrolio, l’Iran costituisce uno straordinario crocevia per le rotte energetiche e commerciali della regione. Con oltre 80 milioni di abitanti, esso è inoltre di gran lunga il paese più popoloso che si affaccia sullo strategico Golfo Persico.
La Repubblica iraniana esercita la sua influenza su piani differenti:
- come Stato-nazione, coltiva i propri interessi nazionali
- come centro dello sciismo e “cofondatore” della civiltà islamica, proietta il suo considerevole “soft power” su una parte consistente del mondo arabo-islamico, e in particolare sulle comunità sciite in Iraq, in Libano, nella penisola araba, in Afghanistan, in Pakistan, e altrove
- come erede dell’antichissima cultura persiana, estende la sua influenza dall’Anatolia all’Asia centrale
- come “campione” della resistenza all’egemonia americana, ha avuto un ruolo di spicco nella lotta per l’emancipazione dei paesi non allineati
A queste ragioni storiche della rilevanza strategica dell’Iran, che spiegano la rivalità con Washington, se ne sono aggiunte altre più recenti, legate all’ascesa del continente asiatico e al progressivo emergere di un mondo multipolare.
Emarginata dall’Occidente, la Repubblica iraniana ha cominciato a guardare al processo di integrazione in atto nel continente asiatico con crescente interesse.
Come abbiamo visto, Teheran si appresta e divenire membro a pieno titolo della SCO entro il 2023. L’Iran può diventare un corridoio chiave della Belt and Road Initiative (BRI) – la cosiddetta nuova via della seta cinese – verso il Medio Oriente, il Golfo e il Caucaso.
Il paese può inoltre offrire alle repubbliche centroasiatiche uno sbocco verso le rotte internazionali dell’Oceano Indiano attraverso il porto meridionale di Chabahar, nel quale ha investito anche l’India considerandolo un’alternativa al porto pakistano di Gwadar controllato dai cinesi.
Chabahar, infatti, consente all’India di accedere alla massa euroasiatica aggirando il Pakistan, storico rivale del gigante indiano.
Attraverso il Corridoio Nord-Sud (International North-South Transport Corridor, INSTC) – una rete multimodale che collega l’Oceano Indiano al Caucaso, al Caspio e all’Asia Centrale – l’Iran diviene un partner indispensabile anche per la Russia ora isolata dall’Occidente a causa del conflitto ucraino.
Teheran sta finalizzando un accordo di libero scambio con l’Unione Economica Euroasiatica (UEE), di cui Mosca è leader.
L’Iran è dunque un tassello chiave nel processo di integrazione asiatica e nell’ascesa di quel mondo multipolare che segnerebbe la fine dell’era unipolare americana.
L’emergere di un polo asiatico integrato a livello energetico, commerciale e finanziario, in grado di estromettere il dollaro dalle proprie transazioni interne, rappresenta per Teheran l’ultima e più grande speranza di affrancarsi dalle sanzioni americane che ne hanno strozzato l’economia per oltre quarant’anni. Una speranza ora condivisa anche dalla Russia.
Il materializzarsi di un simile progetto significherebbe la sconfitta definitiva di Washington. Alla luce di ciò, si spiega l’interesse americano per gli sviluppi interni all’Iran, e si comprende come questo paese sia uno dei campi sui quali si sta giocando una partita mondiale.
Articolo estremamente interessante. Peccato che poche persone nutrano interesse e si informino su certe dinamiche geopolitiche e non capiscano come certe proteste (anche giuste) siano completamente strumentalizzate.
Grazie. Scritto benissimo. Interessantissima la storia del MEK, di cui conoscevo a malapena la sigla. Assolutamente deprecabile (eufemismo...) la mancanza di scrupoli USA: disposti ad allearsi con chiunque per continuare ad arricchirsi.