Braccio di ferro Trump-Netanyahu sul cessate il fuoco a Gaza
Al momento non vi è alcuna garanzia che la tregua sopravviva alla conclusione della prima fase. E vi sono ancor meno garanzie sull’avvio di un processo di ricostruzione.
Le voci sempre più insistenti sul raggiungimento di un accordo di cessate il fuoco a Gaza sono culminate, mercoledì 15 gennaio, nella conferma apparentemente ufficiale, da parte di numerosi attori coinvolti nel negoziato, del conseguimento di un’intesa.
Responsabili americani, israeliani, egiziani e qatarini hanno corroborato la notizia. Ma quanto fosse nebuloso e incerto il traguardo raggiunto, dopo che per mesi si era parlato di accordi imminenti poi mai concretizzatisi, lo ha confermato lo stesso premier israeliano Benjamin Netanyahu con le sue ripetute dichiarazioni contrarie a quelle dei mediatori ufficiali.
Nelle ore successive all’annuncio dell’accordo, Netanyahu ha ribadito più volte che l’intesa non era completa, che si stava lavorando ad alcuni dettagli, e che il governo israeliano avrebbe dovuto approvarla in via definitiva.
Dopo aver accusato Hamas di aver avanzato nuove proposte non previste dall’accordo, è stato lui nelle ore successive a porre nuove condizioni, come quella di non ritirare le truppe israeliane dal Corridoio Philadelphia al confine tra Gaza ed Egitto durante la prima fase del cessate il fuoco, com’era stato invece concordato.
Le contropartite di Trump
L’atteggiamento recalcitrante del premier israeliano è conseguenza del fatto che, secondo ogni apparenza, egli è stato spinto ad accettare un cessate il fuoco contro la sua volontà, ed a costringerlo è stato inaspettatamente il presidente americano entrante Donald Trump.
Dopo aver vinto le presidenziali, Trump aveva baldanzosamente dichiarato che voleva la liberazione di tutti gli ostaggi di Gaza entro il 20 gennaio, data del suo insediamento alla Casa Bianca, altrimenti in Medio Oriente sarebbe scoppiato “l’inferno”.
Simili minacce sembravano rivolte ad Hamas, ma una congrua percentuale di pressioni è stata rivolta invece contro il premier israeliano. L’inviato di Trump per il Medio Oriente, Steve Witkoff, si è recato direttamente in Israele chiedendo di vedere Netanyahu stesso.
Secondo quanto riferisce il quotidiano israeliano Haaretz, di fronte alle resistenze dello staff del premier israeliano secondo il quale durante il giorno di Shabbat non era possibile organizzare incontri diplomatici, Witkoff avrebbe risposto seccamente che non gli importava quale giorno della settimana fosse, che lui sarebbe arrivato, e che dovevano fare in modo che Netanyahu fosse presente.
Secondo Ronen Bergman, giornalista con importanti contatti nel Mossad, Trump avrebbe offerto anche notevoli contropartite al premier israeliano: la possibile abrogazione delle sanzioni imposte al gruppo israeliano NSO, creatore del software di spionaggio Pegasus che avrebbe permesso all’Arabia Saudita di seguire i movimenti del giornalista Jamal Khashoggi prima della sua uccisione; una guerra senza quartiere contro la Corte Penale Internazionale per i mandati di arresto emessi nei confronti di Netanyahu e dell’ex ministro della difesa Yoav Gallant; sforzi per proteggere gli ufficiali dell’esercito israeliano che dovessero essere accusati di crimini di guerra in paesi esteri.
Ma soprattutto, Trump avrebbe offerto di appoggiare Israele qualora decidesse di riprendere le operazioni belliche ponendo fine al cessate il fuoco. Ciò sarebbe reso possibile anche dalla relativa ambiguità del testo dell’accordo.
Simili offerte sarebbero state confermate da Marco Rubio, segretario di Stato della futura amministrazione Trump, il quale ha anche promesso di annullare le sanzioni imposte dall’amministrazione Biden ai coloni responsabili di atti di violenza in Cisgiordania.
Anche Mike Waltz, futuro Consigliere per la Sicurezza Nazionale nella nuova amministrazione, ha ribadito che “Israele deve sapere che, se l’esercito avrà bisogno di entrare nuovamente a Gaza, saremo con lui”, aggiungendo che “Hamas non continuerà ad operare come organizzazione terroristica e non governerà Gaza”.
Quanto agli obiettivi che Trump intende perseguire con un simile accordo di cessate il fuoco, alcuni hanno sostenuto che si tratterebbe essenzialmente di un’azione propagandistica volta a mettere in cattiva luce l’amministrazione uscente ed a realizzare una trionfale inaugurazione il 20 gennaio.
Altri, fra cui lo stesso Waltz, hanno affermato che il nuovo presidente è determinato a ridisegnare il Medio Oriente, in particolare completando gli Accordi di Abramo con la normalizzazione dei rapporti fra Israele ed Arabi Saudita.
A tal fine, la cessazione delle ostilità a Gaza è condizione necessaria ma probabilmente non sufficiente. La creazione di uno Stato palestinese indipendente più volte invocata da Riyadh come presupposto per una normalizzazione dei rapporti appare infatti un miraggio nelle attuali condizioni.
I contenuti dell’accordo
L’accordo di cessate il fuoco stipulato è strutturalmente ambiguo. Esso è articolato in tre fasi, ciascuna delle quali è destinata a porre le premesse per la successiva.
Come ha osservato il giornalista Zvi Bar’el dalle pagine di Haaretz, un accordo così concepito favorisce la realizzazione della prima fase (o delle prime due) a scapito delle successive, le più importanti ai fini di una cessazione del conflitto.
Il piano ricalca essenzialmente quello proposto dall’amministrazione Biden nel maggio del 2024 ed accettato già allora da Hamas. Per questa ragione l’amministrazione uscente ha cercato di attribuirsi il merito dell’accordo apparentemente raggiunto.
Ma, semmai, il fatto che esso sia stato accettato solo ora dal governo Netanyahu conferma che Biden non ha voluto esercitare alcuna pressione significativa sul governo israeliano.
La prima fase, della durata di 42 giorni, prevede la sospensione delle ostilità a partire da domenica 19 gennaio, il parziale ritiro delle forze israeliane in una zona cuscinetto di circa 700 metri entro i confini della Striscia, e la liberazione di 33 ostaggi civili (anziani, donne, bambini) in cambio della scarcerazione di alcune centinaia di palestinesi detenuti nelle carceri israeliane.
Nessun leader palestinese di spicco sarà tuttavia scarcerato, in base a una condizione dell’ultima ora imposta da Israele.
I civili palestinesi (non i combattenti) sfollati da Gaza nord potranno tornare (a piedi lungo la strada costiera) nelle zone che avevano lasciato, sebbene delle loro abitazioni non resti ormai più nulla.
600 camion di aiuti umanitari (inclusi 50 di combustibile) entreranno nella Striscia ogni giorno. Il valico di Rafah verrà riaperto sotto il controllo delle autorità egiziane.
Durante la prima fase si dovrà negoziare l’implementazione della seconda. Nel corso di quest’ultima dovrebbero essere liberati i rimanenti ostaggi (inclusi i militari) in cambio di un ulteriore numero di prigionieri palestinesi, di un cessate il fuoco permanente, e del ritiro completo delle forze israeliane dalla Striscia.
La terza fase prevede sulla carta lo scambio dei resti delle salme in possesso di entrambe le parti, e l’inizio della ricostruzione della Striscia sotto la supervisione di diversi paesi ed organizzazioni internazionali, inclusi l’Egitto, il Qatar e le Nazioni Unite.
Le modalità di implementazione della ricostruzione e il tema scottante dell’amministrazione della Striscia restano anch’esse da definire.
Perché l’intesa rischia di fallire
Come si vede, le fasi sono strutturate in ordine di complessità crescente, e con il loro progredire cresce la possibilità che i negoziati per definire i dettagli di implementazione falliscano.
Secondo l’Associated Press, l’accordo non include garanzie scritte che il cessate il fuoco proseguirà fino a quando non si giungerà a un’intesa su tali dettagli. A giudizio di diversi osservatori, vi è dunque la possibilità che le operazioni militari israeliane riprendano già al termine della prima fase, e cioè una volta liberata la maggior parte degli ostaggi civili.
Hamas rimane tuttora l’unica autorità politica ed amministrativa a Gaza. La proposta americana di estendere alla Striscia l’amministrazione di un’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) adeguatamente riformata ha finora incontrato il rifiuto del governo israeliano, non è stata adeguatamente coordinata con le monarchie del Golfo che potrebbero finanziare la ricostruzione, e si scontra con la difficoltà di riformare un’organizzazione clientelare e sclerotizzata come l’ANP.
D’altra parte, la permanenza di Hamas al governo di Gaza sancirebbe il fallimento degli obiettivi strategici perseguiti da Israele nel conflitto. Malgrado l’immane distruzione prodotta nella Striscia, il movimento islamico palestinese rimane tuttora vitale, ed ha anzi provveduto a rimpiazzare le perdite reclutando nuovi uomini.
Israele, per altro verso, continua a subire una lenta ma costante emorragia di soldati e mezzi militari. Dopo una campagna bellica così costosa in termini economici e di vite umane, lasciare ad Hamas il controllo di Gaza sancirebbe dunque il fallimento dell’intera strategia militare di Netanyahu, e probabilmente porrebbe la pietra tombale sulla sua carriera politica.
Il premier israeliano rischia anche un indebolimento del suo esecutivo qualora il cessate il fuoco dovesse essere implementato. I ministri Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich hanno infatti minacciato di uscire dal governo se l’accordo si tradurrà in realtà.
Smotrich ha affermato che avrebbe approvato un’intesa definita “negativa e pericolosa” solo se Israele avesse potuto riprendere le operazioni militari al termine della prima fase di 42 giorni.
Netanyahu è inoltre consapevole che, sebbene i partiti di opposizione lo sosterranno sul cessate il fuoco, essi non lo appoggeranno su altre questioni, mentre i suoi problemi giudiziari torneranno alla ribalta nel caso di una prolungata cessazione delle ostilità.
Le sorti dell’UNRWA appese a un filo
L’altra incognita che pesa sul futuro della tregua e dell’emergenza umanitaria nella Striscia è legata al destino dell’UNRWA, l’Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi.
Lo scorso 28 ottobre, la Knesset (il parlamento israeliano) ha approvato due leggi che di fatto impediranno all’UNRWA di operare a Gerusalemme Est, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza a partire dal 28 gennaio.
Tali leggi fanno parte di una campagna promossa dal governo israeliano dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre, il cui obiettivo ultimo è di smantellare questa agenzia ONU.
Ad oggi, tuttavia, l’UNRWA è il pilastro fondamentale di ogni assistenza ai palestinesi. E’ quest’organizzazione che gestisce l’intera logistica degli aiuti a Gaza, e che costituisce l’unico ed insostituibile referente delle altre organizzazioni che operano nella Striscia.
In Cisgiordania, l’UNRWA garantisce assistenza sanitaria e istruzione a 900.000 palestinesi. Se quest’agenzia chiuderà, verranno a mancare cibo, cure e scuole a decine di migliaia di palestinesi a Gaza e negli altri territori palestinesi occupati.
Nella Striscia, anche se il cessate il fuoco dovesse prolungarsi, l’emergenza umanitaria assumerebbe proporzioni ancor più catastrofiche, con decine di migliaia di persone che rischierebbero di morire di fame.
Durante il suo primo mandato, Trump tagliò i finanziamenti americani all’UNRWA, e non vi è alcuna garanzia che questa volta eserciterà su Israele le pressioni necessarie a bloccare l’implementazione delle leggi sopra citate.
Nessuna garanzia
Le incognite che pesano sul futuro di Gaza sono dunque enormi. Al momento non vi è alcuna garanzia che il cessate il fuoco sopravviva alla conclusione della prima fase. E vi sono ancor meno garanzie sull’efficienza della macchina umanitaria nei mesi a venire e sull’avvio di un processo di ricostruzione.
La terza fase dell’accordo, che prevede l’inizio della ricostruzione e la definizione di un’autorità di governo nella Striscia è quella che Netanyahu ed i suoi alleati di estrema destra nell’esecutivo israeliano saranno maggiormente tentati di sabotare.
Una volta che la totalità, o almeno la maggior parte, degli ostaggi sarà liberata, l’attenzione dell’opinione pubblica israeliana ed americana nei confronti di Gaza diminuirà.
A quel punto, il grosso interrogativo riguarderà ciò che Trump sarà disposto a permettere al governo Netanyahu. Se il nuovo presidente vorrà davvero promuovere una normalizzazione dei rapporti fra Israele e Arabia Saudita, non potrà lasciare mano libera al premier israeliano.
D’altra parte, esercitare pressioni eccessive su Netanyahu potrebbe costare a Trump il sostegno della sua base di cristiani sionisti e di ricchi donatori repubblicani come Miriam Adelson.
Dal canto suo, il premier israeliano probabilmente cercherà di non inimicarsi il presidente americano entrante fin dall’inizio del suo mandato. Ma è possibile che egli ritenga di poter assecondare inizialmente il nuovo inquilino della Casa Bianca per poi avere più libertà di manovra in futuro al fine di imporre gli interessi strategici israeliani nella regione mediorientale.
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rispetto a Biden un cambiamento già si vede, prendiamo quanto di buono è arrivato per il momento restando alla finestra in attesa dei possibili sviluppi.