IN PILLOLE – il Libano dopo Gaza: guerra israeliana su due fronti, irrilevanza USA
Malgrado l’attuale escalation, Tel Aviv spera tuttora di evitare lo scontro totale. Ma non dispone di una valida strategia per raggiungere i propri obiettivi.
Si preparano giorni terribili per il Libano e Gaza (ma forse anche per gli israeliani). Nel primo giorno dell’escalation di Israele nel paese dei cedri, i bombardamenti dell’aviazione di Tel Aviv hanno provocato 492 morti e 1.645 feriti secondo il ministero della sanità di Beirut.
E’ il bilancio giornaliero più grave per il paese dalla fine della guerra civile del 1975-1990, pari a quasi la metà delle vittime dell’intera guerra del 2006, quando Israele causò poco più di 1.200 morti in 34 giorni di conflitto.
Nel frattempo, le operazioni militari a Gaza continuano, sebbene vi siano stati contrasti all’interno dei vertici politici e militari israeliani sull’opportunità di aprire un nuovo fronte in Libano in assenza di un cessate il fuoco nella Striscia.
Il ministro della difesa Yoav Gallant e alcuni comandanti dell’esercito erano favorevoli a un disimpegno da Gaza, per concentrare la macchina bellica israeliana contro Hezbollah.
Netanyahu e l’estrema destra nel governo si sono opposti, è così ora Israele è impegnato in una guerra su due fronti (benché il secondo sia attualmente limitato ad una campagna aerea).
Secondo il capo di stato maggiore israeliano, Herzi Halevi, le forze armate di Tel Aviv stanno prendendo di mira “infrastrutture militari che Hezbollah ha costruito per vent’anni”. Ma Israele ha colpito anche abitazioni civili che, secondo i suoi vertici militari, ospiterebbero armi del gruppo sciita.
E, secondo l’emittente Al Jazeera, anche strutture mediche, ambulanze e auto di civili in fuga sono state bersagliate dai bombardamenti.
Decine di migliaia di civili stanno abbandonando città e villaggi del sud del Libano in direzione della capitale Beirut per sfuggire alla violenza degli attacchi aerei israeliani.
Azioni indiscriminate e omicidi mirati
Questa durissima campagna di bombardamenti segue di pochi giorni l’operazione con cui Israele ha fatto esplodere migliaia di dispositivi elettronici (cercapersone e walkie-talkie) in Libano fra il 17 e il 18 settembre, colpendo numerosi uomini di Hezbollah e compromettendone la rete di comunicazione, ma anche ferendo (e talvolta uccidendo) decine di civili.
Il bilancio complessivo di quell’azione è di almeno 37 morti e circa 3.250 feriti, 200 dei quali gravi.
Secondo esperti indipendenti delle Nazioni Unite, l’esplosione programmata di migliaia di dispositivi elettronici ha rappresentato un atto terroristico indiscriminato, e una grave violazione del diritto internazionale.
Perfino l’ex direttore della CIA Leon Panetta ha ammonito che inserire esplosivi in dispositivi tecnologici così diffusi trasforma questa operazione in una “guerra di terrorismo”. “Questo è qualcosa di nuovo”, ha commentato Panetta, “qualcosa che ha coinvolto direttamente le catene di fornitura”.
Egli ha messo in guardia dal proseguire in questa direzione, perché le implicazioni sarebbero enormi. Le catene di fornitura, per loro natura globalizzate, ciascuna delle quali coinvolge numerosi paesi, diventerebbero “il campo di battaglia del futuro”, ha ammonito Panetta, con conseguenze difficilmente calcolabili.
Il 20 settembre, il bombardamento israeliano di un edificio residenziale alla periferia di Beirut ha poi ucciso Ibrahim Aqil, comandante delle forze Radwan, il corpo scelto di Hezbollah, e diversi altri esponenti di spicco della catena di comando dell’organizzazione militare, insieme a 37 civili (tra cui 7 donne e 2 bambini).
Ignorando le vittime civili, il consigliere per la sicurezza nazionale USA Jake Sullivan ha definito l’attacco un atto di “giustizia”, poiché Aqil è ritenuto una delle menti dell’operazione suicida del 1983 che con due camion bomba distrusse le caserme che ospitavano militari statunitensi e francesi a Beirut (241 soldati americani e 58 francesi rimasero uccisi nell’azione).
Pulizia etnica nel nord di Gaza
Mentre infuriano i bombardamenti israeliani sul Libano, un’altra terribile catastrofe rischia di abbattersi su Gaza.
I vertici politici e militari israeliani stanno letteralmente programmando la pulizia etnica (ed eventualmente lo sterminio) dei residenti del nord della Striscia.
Il piano, promosso dal generale in congedo Giora Eiland, appoggiato anche da accademici israeliani, e attualmente allo studio della Commissione Affari Esteri e Difesa della Knesset, prevede di ordinare a tutti i residenti di Gaza nord di evacuare entro una settimana, per poi imporre un assedio totale alla regione, incluso il blocco delle forniture di acqua, cibo e combustibile, fino a quando chi sarà rimasto si arrenderà o morirà di fame.
Dopo la settimana di preavviso, Gaza nord diventerà una zona militare chiusa. Chiunque si troverà ancora al suo interno sarà un bersaglio. Nulla entrerà in quest’area. Nella regione vi sono tuttora 300.000 residenti, molti dei quali non vorranno o non potranno fuggire.
Eiland ha criticato la condotta tenuta finora dall’esercito israeliano, affermando che fino a quando Hamas potrà contare sulla distribuzione di cibo e combustibile, sarà in grado di riempire le proprie casse e reclutare nuovi combattenti.
Questo ex generale è lo stesso che all’inizio del conflitto affermò che l’intera popolazione della Striscia era un obiettivo militare legittimo, e parlò della necessità di “creare le condizioni affinché la vita a Gaza diventi insostenibile”.
Netanyahu ha detto alla Commissione della Knesset che controllare la distribuzione degli aiuti umanitari è essenziale per vincere a Gaza. Imporre un regime militare per gestire l’enclave palestinese potrà dunque rendersi necessario per il momento.
Sebbene vi siano alcuni ostacoli a questo piano, fra i quali la riluttanza dell’esercito ad assumersi la responsabilità della gestione della Striscia, vi è la concreta possibilità che esso venga implementato.
In assenza di qualsiasi soluzione politica realistica per Gaza, rischiamo dunque davvero di assistere nei prossimi mesi al lento eccidio di un popolo.
Obiettivi poco realistici
Se la strategia del governo Netanyahu nella Striscia rischia di ridursi a questo scenario drammatico in assenza di pressioni reali da parte dell’alleato americano (e degli acquiescenti paesi europei), in Libano Israele sembra avere idee più confuse.
L’obiettivo ufficiale della campagna israeliana contro Hezbollah è di permettere il ritorno degli oltre 60.000 sfollati che hanno abbandonato le loro case in prossimità del confine libanese nei giorni successivi al 7 ottobre.
Per raggiungere tale obiettivo non è però prevista, al momento, alcuna operazione di terra. La speranza israeliana è che la violenza dei bombardamenti sia sufficiente a persuadere Hezbollah a desistere dal colpire il territorio israeliano ed a ritirarsi dalle zone limitrofe al confine.
I vertici militari di Tel Aviv vorrebbero anche ridimensionare, tramite gli attacchi aerei, l’arsenale di missili con cui il gruppo sciita libanese bersaglia il territorio israeliano.
Nessuno di questi due obiettivi appare realistico. Hezbollah ha legato la propria azione a ciò che sta avvenendo a Gaza, ribadendo più volte che cesserà le proprie operazioni militari solo quando sarà stato raggiunto un cessate il fuoco nella Striscia.
Inoltre, a dispetto della tesi dell’esercito israeliano secondo cui Hezbollah nasconderebbe le proprie armi nelle abitazioni civili del sud del paese, è probabile che gran parte dell’arsenale dell’organizzazione sia protetta da strutture fortificate, spesso sotterranee, disseminate in tutto il paese.
La campagna di bombardamenti israeliani nel sud del Libano si traduce dunque, anche in questo caso, in un’azione contro i civili finalizzata essenzialmente a spopolare la regione. Tale azione tuttavia non intaccherà sensibilmente il potenziale bellico di Hezbollah.
Perfino qualora Israele decidesse di imbarcarsi in una rischiosa operazione di terra per creare una zona cuscinetto in prossimità del confine, non risolverebbe il problema dei potenti missili a medio raggio di cui dispone Hezbollah, che gli permettono di colpire il territorio israeliano anche da zone lontane dalla frontiera.
Al contrario, ricorrendo a tali armi, il gruppo libanese è potenzialmente in grado di mettere in pericolo una porzione ancora più estesa della popolazione israeliana, portando a sua volta allo spopolamento di fasce territoriali anche non limitrofe al confine.
I vertici militari israeliani sanno inoltre che, in caso di guerra totale, Hezbollah è in possesso di migliaia di missili ad alta precisione in grado di saturare lo scudo missilistico israeliano e di colpire le infrastrutture civili del paese.
Malgrado l’attuale escalation, dunque, Tel Aviv spera tuttora di evitare lo scontro aperto. Ma non dispone di una valida strategia per raggiungere i propri obiettivi militari.
Debolezza dell’amministrazione Biden
In questo quadro, va sottolineata l’irrilevanza politica dell’amministrazione Biden, la quale per mesi si è sforzata di dissuadere il governo Netanyahu dall’espandere il conflitto, mettendolo in guardia sui rischi di una guerra su più fronti, per poi vedersi ripetutamente ignorata ed umiliata dalle scelte di quest’ultimo.
L’inviato USA Amos Hochstein era giunto in Israele il 16 settembre, per mettere in guardia Netanyahu sui rischi di un’estensione delle operazioni belliche al Libano, proprio il giorno prima dell’azione israeliana che ha portato all’esplosione di migliaia di cercapersone nel paese confinante.
Il punto debole della Casa Bianca sta nel fatto di aver messo in chiaro che divergenze politiche fra Washington e Tel Aviv non avrebbero influito sull’assistenza militare che gli USA hanno ininterrottamente garantito a Israele.
Nei mesi passati, si è consolidato uno schema in base al quale Israele ha ripetutamente appiccato il fuoco nella regione, colpendo il consolato iraniano a Damasco lo scorso aprile, e assassinando il leader di Hamas Ismail Haniyeh a Teheran e l’alto dirigente di Hezbollah Fuad Shukr a Beirut a fine luglio.
Così facendo, ha osservato un commentatore americano, il governo Netanyahu ha mostrato un costante disprezzo per gli interessi nazionali statunitensi. Di fronte al quale la Casa Bianca non ha però reagito.
Al contrario, davanti all’ultima escalation in Libano, pur continuando ad esprimere la propria “preoccupazione”, i responsabili USA hanno finito per dare luce verde alla rischiosa operazione israeliana “riconoscendo le ragioni” del governo Netanyahu.
Salvo osservare che il tentativo israeliano di “giungere a una de-escalation attraverso una escalation” sia “estremamente difficile da calibrare” e rischi facilmente di andare fuori controllo, conducendo a una guerra totale dalle conseguenze imprevedibili.
La conclusione è che in questo momento le politiche USA a Gaza e in Libano sono dettate dal governo Netanyahu, grazie ad una delle amministrazioni americane più deboli della storia recente. Debolezza ulteriormente acuita dal periodo elettorale che precede le presidenziali di novembre.
Le conseguenze potrebbero però essere terribili, per il Medio Oriente e per il mondo.
Le uniche speranze rimaste (forse!) sono:
- sanzioni ONU contro Israele, come richiesto all'Assemble Generale dell'ONU da Erdogan,
- crisi economica in Israele, che potrebbe essere accelerata dal bombardamento di Haifa da parte di Hezbollah.
Ne parlo nel mio ultimo articolo appena uscito: https://geopolitiq.substack.com/p/situation-in-middle-east-spiralling
Chiara analisi complimenti .